Capitolo otto

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng



"Non puoi sfuggirmi!"
Prima parte




Un docile uccellino in gabbia, ecco cos'era.
Sentiva le catene ai piedi pur non avendole affatto.
È questo ciò che provano i prigionieri?
E perché il suo petto emulava il loro tormento?

Isabel si rigirò più volte in quel letto vuoto, quel giaciglio che non le sapeva dì niente. Non era altro che un involucro vuoto e congelato che sosteneva il peso della sua sofferenza. Si svegliò più volte quella notte, preda di un'angoscia travolgente che le impediva di prendere sonno. Alla fine, poco prima dell'alba, si arrese fra le lenzuola mettendosi a sedere.

Un'abat-jour abbelliva il comodino accanto al letto, una di quelle scelte per suo sfarzo evidente. Era impreziosita da piccolissimi diamanti incastonati fra delle rifiniture in argento. Sembrava quasi un diamante luminoso.

Isabel si domandò a che diamine servisse tutto quel decoro inutile e poi l'accese. Lei era una donna semplice, abituata alle cose semplici. Le sarebbe piaciuta una piccola stanza, con tanti fiori magari, tante margherite e rose. Rose sì, quelle in ogni dove, probabilmente! E invece era finita in un purgatorio dalle sbarre d'oro, che poco aveva a che fare con la vera ricchezza.

Senza fiori, senza sole, senza niente.

Era sola al mondo, e quella stupida prigione di lusso non faceva che alimentare la sua solitudine. Avrebbe voluto abbracciare qualcuno, chiunque, qualsiasi cosa potesse infonderle serenità e protezione piuttosto che restare avvinghiata a uno stupido cuscino!

Sbuffò, lasciando che i primi raggi avvolgessero la sua immagine allo specchio. Non riusciva a riconoscere la donna di quel riflesso, non poteva affermare di conoscerla, non dopo quella notte. Non sapeva quanto tempo fosse passato. Da quanto la penombra della stanza non le apparisse più così buia. Non vi erano orologi alle pareti, niente che potesse ricollegarla al tempo che pareva quasi fermo, bloccato in quell'istante.

Con le dita prese a sfiorarsi le labbra, due carni viziose che avevano concesso al diavolo un assaggio di lei. Temeva di poterne sentire il sapore, sfiorare la consistenza di quel peccato inaudito.

Aveva odiato in vita sua uomini e donne diverse che in qualche modo avevano contribuito a rendere difficile la sua esistenza. Ma quell'astioso fermento non era paragonabile alla rabbia che ora le incendiava il petto. No, quello era un odio diverso, un disprezzo viscerale che difficilmente avrebbe trovato pace.

Le si formò un nodo in gola, il suo stomaco si contorse per l'apprensione.
Lui le aveva rubato il suo primo bacio, quel tesoro prezioso che aveva custodito con cura sulle labbra.

Lo aveva immaginato tante volte e tutte quelle volte era stato perfetto. La sua fervida immaginazione era piuttosto brava nel ricreare scenari romantici nei quali lei non era più una reietta o un'emarginata. No, era una regina con bianche vesti che volteggiava fra le braccia di un principe mai conosciuto, in una stanza per niente sfarzosa ma riempita dal battito dei loro cuori.

Un calore effimero, eppure profondo abbastanza da irradiarla di quell'amore fugace che sarebbe bastato a consolare parte del suo animo, a salvarla da quell'oscurità che tentava di inghiottirla. E invece non le era rimasto neppure quello, un immaginario che avrebbe persino potuto realizzarsi se un mostro non glielo avesse strappato via: Elijah Brown.

Serrò fra i pugni un lembo del lenzuolo. Sarebbe stato alquanto piacevole poter stringere la giugulare di quel maledetto allo stesso modo. Si aspettava quasi di vederlo comparire sulla porta, in piedi a fissarla con gelo.
Detestava quell'espressione vagamente arcana, riusciva a destabilizzarla più di quanto lei volesse ammettere.

Si alzò dal letto raggiungendo la finestra a piccoli passi.
La camera da letto era ampia, i mobili, proprio come già suggeriva l'aspetto sontuoso della villa, spiccavano di un lusso quasi esagerato: raffinati, classici e di una bellezza senza tempo. Le tinte usate per evidenziarne lo sfarzo erano un misto di blu e oro, un insieme chic che donava eleganza allo spazio, al centro del quale s'innalzava un ampio camino in pietra. Le fiamme al suo interno scoppiettavano al ritmo del suo cuore, un cuore addolorato e in guerra con il proprio corpo. 

Un ammasso di carni che per un istante aveva quasi ceduto.
Che diavolo le stava accadendo?!

L'aveva baciata in modo freddo e crudo.
Non riusciva a smettere di pensarci.
Quell'immagine continuava a perpetuarsi senza trovare una fine. Le sembrava quasi un limbo perverso, eppure caldo come il sole. Tremò, lasciando che la parete oltre le sue spalle la sorreggesse. Il suo cuore lo rifiutava, la mente voleva quasi cancellare ogni traccia che lo riguardasse.

Come avrebbe fatto a sopravvivere a quello strazio?
Rinchiusa per sempre in una teca di cristallo?

Sospirò, il venticello cullato dall'alba le sfiorò la pelle.
Senza sapere il perché ripensò a sua zia Clorinda.
La sua amata zia Clorinda, oh quanto le mancava!
Lei non la ricordava ma Isabel la ricordava ancora.
Rammentava tutto di lei, persino il giorno in cui, con sgomento, aveva appreso della sua malattia.
Un male incurabile, che avrebbe cancellato ogni attimo vissuto nella loro felice e spensierata esistenza.

Alzheimer.

Ecco qual era il suo nome. Lo aveva supposto più volte quel pomeriggio d'estate in cui la zia le ripeteva "portiamo fuori la spazzatura". L'avevano già consegnata il giorno prima, eppure lei sembrava non ricordarsene affatto.
Era un lamento stanco, una cantilena che venne subito dopo interrotta da un sorriso assente.
Fu allora che capì.
Che la sua vita non sarebbe stata più la stessa.

Non la contraddiceva mai, neanche quando i momenti di lucidità scarseggiavano. Nel periodo antecedente alla casa di cura, riusciva a stento a riconoscerla. Il resto della città la definiva una disabile, una pazza incurabile, Isabel invece la chiamava dolce, speciale, stravagante...
«Zia Clorinda...»

In quel momento non poté impedire alla sua gola di seccarsi, alle sue mani di tremare. Le sarebbe mancata, per sempre, l'unica madre che avesse mai avuto. Bramava da tutta la vita un cambiamento, qualsiasi spiraglio di luce che le consentisse di scappare via, lontano da tutta quella desolazione. Eppure ora, ritrovandosi dinnanzi ad una nuova porta, non poteva fare a meno di sentirsi insicura. Anch'essa simile a una bambina che non sa chi le leggerà le fiabe. Doveva imparare a vivere, di nuovo, adattarsi a una vita che non le apparteneva più.

Avrebbe dovuto stringere i denti e...
Guardò la porta della stanza.
Fuggire!

In modo o nell'altro avrebbe dovuto provarci.
Lo doveva a lei, alla sua stupida esistenza e alla zia Clorinda. Voleva abbracciarla, voleva stringerla ancora mentre con letizia si gustava il suo profumo delizioso: un misto di cannella e fragola, che le ricordava le loro passeggiate sotto il cielo d'estate. Desiderava viaggiare, scoprire mondi diversi, non accontentarsi di una stupida vita fatta di stupide regole esistenziali.

Ma al tempo stesso, non aveva un posto che potesse garantirle un nuovo inizio. Un qualunque tipo di rifugio che le consentisse una parvenza di pace, un luogo dentro al quale potersi rifugiare, ora più che mai!

Un uomo la stava cercando.
"Ci sei dentro quanto me!"

I suoi sogni erano indubbiamente grandi, certo, ma non conformi alla realtà che le spettava. Non aveva soldi; gli ultimi risparmi erano finiti chissà dove insieme al resto dei suoi pochi averi. Dove sarebbe andata? Anche se fosse riuscita a evadere da quella dannata prigione, quale sarebbe stato il suo destino? Francamente era difficile trarre delle conclusioni, soprattutto nel suo stato. Era ferita e questo non poteva dimenticarlo. Ferita, sola e senza una lira.

Ma ciò non bastò a fermarla!

Ispirò profondamente e poi avanzò. I piedi le parvero staccati dal corpo, si mossero lenti e ponderati, attenti a non provocare anche il più impercettibile dei rumori. Il cuore minacciava di esploderle in gola; ansia e trepidazione le frastornarono i sensi. Arrivò a un passo dalla maniglia, la sua ombra proiettata al muro ne evidenziava l'esitazione. Doveva quanto meno provare, capire cosa le avrebbero riservato quei passi azzardati.

«Okay, puoi farcela Isabel...» mormorò.

Allungò una mano verso il pomello della porta, che scricchiolò fino a lasciarle libero accesso. L'uscio si spalancò difronte al corridoio ben arredato dei Brown, vuoto e muto. Sussultò scrutando la sua mano peccatrice. La porta era aperta. Il suo respiro si smorzò come coriandoli. Se avesse fatto abbastanza attenzione a non farsi sentire, le sue chance di fuggire da quel tugurio sarebbero certamente aumentate.

Sì, doveva provarci!

Su queste previsioni sostò ancora un istante difronte alla porta e poi avanzò. I suoi passi erano svelti ma silenziosi, simili a un topolino che sfugge al gatto predatore. Poteva sentire il cuore battere come un tamburo, la testa vorticare. Era confusa e spaventata ma non si fermò. Il corridoio era ampio e parzialmente illuminato da candelabri che addobbavano lo splendido soffitto a volta. Emanavano una strana luce giallognola, flebile ma chiara abbastanza da non inciampare. A suo modo li trovava eleganti, quasi graziosi, così come le pareti in legno che impreziosivano lo spazio. Avrebbe voluto soffermarsi maggiormente sull'eleganza che guidava la sua fuga, ma dei passi in lontananza per poco non le causarono un infarto.

"È lui" pensò "è lui e sta venendo a cercarmi!"

Scosse la testa individuando una stanza poco distante da lei. Il terrore non le concesse tempo per riflettere: senza pensarci ci si fiondò all'interno, la porta si chiuse in un leggero tonfo che inevitabilmente le scaraventò il cuore in gola.
Strizzò le palpebre invocando qualunque creatura celeste fosse in ascolto.
«Ti prego, ti prego» mormorò.

Passi lungo il corridoio.
Passi sempre più vicini.
Passi.
Passi difronte alla porta.
Silenzio.
Terrore e panico.
Silenzio.
Altro silenzio.
....
I passi ripresero la sua marcia.

Isabel ispirò via l'ansia accumulata, sciogliendo i nervi.
Fra la penombra e il terrore di venire scoperta, non aveva fatto caso al proprietario della stanza, che ora stava a fissarla fra delle coperte blu.

«Maestra?» sussurrò una vocina infondo alla camera.
Isabel assottigliò lo sguardo, permettendo all'ambiente di mostrarsi più chiaro ai suoi occhi: vide una piccola stanza dipinta di bianco, due poltroncine ai lati con al centro un tavolino azzurro. Una moquette abbelliva l'insieme, un ambiente caldo e confortevole, infantile per certi versi.
Un armadio con al di sopra foto e oggetti personali, una scrivania vuota, un piccolo tavolino, libri rilegati in pelle. Rispetto alla sua nuova dependance questa appariva decisamente più spoglia, quasi vuota e frivola se così vogliamo definirla.

«Maestra? Siete voi?» ripetè la voce.
In fondo all'ottava sostava un letto, un giaciglio occupato da qualcuno che conosceva bene.

Un ragazzino di cui ricordava le fattezze.
E che forse avrebbe persino potuto salvarla!

Stava a guardarla in mobile, quasi fosse una statua di ghiaccio. Fra l'irrealisticità di quel momento l'avrebbe persino creduta un fantasma, una proiezione dei suoi sogni più reconditi. Fermo e in attesa quasi nel timore di vederla scomparire, preda di uno stupore che gli rendeva lucida la vista.

Isabel gli camminò incontro.
Thómas scese giù dal letto.
Si osservarono ancora un istante.
Il cuore divenne più leggero, lacrime salate caddero lente sulla moquette.
In un istante furono uno fra le braccia dell'altro, stretti in una morsa che rattoppò, seppur in parte, il malessere e lo stupore di entrambi. Due sopravvissuti che fra la guerra incombente ritrovavano un vecchio compagno d'avventura.
«Thómas!» mormorò lei, fra i primi raggi del mattino.
Un'alba decisamente più dolce in quell'istante di malinconia.

***

Non seppero quantificare il tempo in quell'instante, ma a entrambi parve infinito. Una misura ineguagliabile, degna di quell'abbraccio speciale.
Isabel si staccò da Thómas, con premura si chinò a osservarlo con sollievo. L'angoscia infondo al suo cuore divenne meno grave sapendolo la sicuro.
«Come stai tesoro? Non ti vedo da un po', come sta andando a scuola?» domandò, intenta a tastargli le braccia, quasi volesse accertarsi che la sua presenza fosse tangibile, in carne e ossa!

Normalmente il suo gergo sarebbe stato più articolato, carico di spiegazioni plausibili, ma l'innocenza di quel giovane ometto contava più che di insulse dinamiche fra adulti. Doveva proteggerlo, per quel che poteva. Risparmiargli particolari inutili legati alla sua fuga era già un inizio.

Thómas le sorrise gioioso, proprio come il giorno in cui si erano visti per l'ultima volta.
«Sto bene» annuì.
«Ma cosa ci fa lei qui? Perché è nella mia stanza? Cos'è successo?» chiese a ruota libera. Poteva leggere la gioia su quel volto sconsolato: era sinceramente felice di vederla ma al tempo stesso, confuso.

Isabel gli accarezzò la guancia.
"Cosa mi inventerò adesso?" Pensò.

«Ne parliamo dopo» ridacchiò a voce bassa.
«Ma come sta andando, dimmi? Come ti trovi a scuola? Billy continua a rubarti il pranzo?» chiese, abbandonando il peso alla moquette.

Thómas le si sedette accanto, avvolgendo le braccia attorno alla sua vita. Un per istante accantonarono via ogni spiegazione, o quesito che riguardasse la loro spiacevole esistenza. Si godettero quel momento, come se lei non fosse una fuggitiva e lui un orfano abbandonato.
«No, ma continua a prendere delle B ovunque!» rispose il giovane Brown.

Isabel emise uno sbuffo ironico, poi ricambiò la sua stretta.
«Oh, la cosa non mi stupisce» ammise «Billy è sempre stato un tipo un po' difficile, con il tempo migliorerà.»

Thómas le rispose con un cenno d'assenso, poi rimasero in silenzio ancora in silenzio. Isabel gli accarezzò i capelli con fare materno, i raggi del mattino trafissero appena i muri della stanza, che ora non sembrava più così spoglia.

«E tu?» gli chiese poi.
«Io cosa?»
«Come sta andando?»
«Come andava prima!»
Isabel sorrise «amplia il concetto Thómas.»

«E va bene...» il giovane raddrizzò la postura.
«È tutto okay, il bidello Tom è gentile con noi, Alex e Margot i miei amici, se li ricorda? Sono migliorati molto! Gli insegnanti sono tutti premurosi, come al solito in realtà, a parte la maestra Melissa. Lei è...sempre la maestra Melissa.»

«Continua a darvi il tormento?» Isabel si accigliò.

«Bè non proprio, ma ora che non ci siete si comporta come se la scuola fosse sua» ammise lui.

«Dovevo immaginarlo, maledetta! È sempre stata una grandissima stro...»
Isabel trattenne quell'eufemismo come il più feroce dei muli. La sua lingua era colma di epiteti che le si addicevano, ma dovette risparmiarseli, quanto meno in quell'istante: non sarebbero serviti a niente, non più ormai.

Thómas rise sotto i baffi: doveva aver intuito la natura della frase. Isabel gli lanciò un'occhiata ironica «lo trovi divertente, vero?»

«Voi lo trovate divertente?» ribatté l'altro.

«Cosa dovrei trovare divertente?» Isabel lo guardò, curiosa di sentire quel che stava per dire.

«Le parolacce!»

«Eehii!» rise lei, «io non ho mai parlato di parolacce!»

«Sappiamo entrambi che lo fosse.»
Thómas fece spallucce soffocando un ghigno impertinente. Non voleva certo turbare la sua maestra preferita!

Isabel scosse la testa: il suo finto contegno la divertì più del dovuto. Stava per aprir bocca, ma il giovane Brown la anticipò. «Quindi, se posso chiederlo...cosa ci fate qui? Sono molto felice di vedervi ma, non capisco...» ammise. Isabel riuscì a scorgere della genuina confusione in lui: effettivamente, se per un attimo indossava i suoi panni, era bizzarro che la sua insegnante fosse piombata in camera da letto in vestaglia da notte e nel pieno mattino, a conversare come una dama durante il tè.

Le sue domande erano giustificate certo, ma al tempo stesso complicate e inevitabili. Come avrebbe fatto a spiegarglielo? Che suo zio, era un orco ancora più spregevole di ciò che pensava? Sospirò, incerta sul da farsi, ma alla fine decise: la verità, o comunque parte di essa, era la strada più semplice da percorrere. Non aveva scelta. Ogni altra scusa risulterebbe patetica persino alle sue orecchie.

«E va bene...» Isabel incrociò le gambe, poi assunse un'espressione seria. «Tuo zio vuole che mi trasferisca qui per farti...da supplente, diciamo. Dice che non ti stai impegnando, per questo ho domandato del tuo andazzo, è vero?»

«Lo zio?» ripeté Thómas: apparve incredulo dapprima, ma poi sgranò le palpebre come se avesse realizzato solo dopo il resto della frase. «Vuole assumervi qui? Davvero?» L'euforia in lui esplose come fuochi d'artificio.

Isabel annuì «sì, su questo argomento ha mostrato una certa insistenza, in realtà...» spiegò, lasciando la frase volontariamente in sospeso.

"Insistenza" certo, che battuta di scarsa qualità!
Un termine che poco aveva a che fare con la brutalità che aveva usato nell'imporle quell'impiego.

«Oh, vi...vi ha fatto del male?» chiese lui, cercando in modo quasi automatico una possibile conferma.

«Oh no, non mi ha fatto del male» si affrettò a mentire lei.
Di più in realtà!
«Sono semplicemente questioni che riguardano i grandi ma...nulla di cui tu debba preoccuparti, va bene?» domandò, sperando che quella risposta bastasse a placare la sua curiosità.

Thómas parve rifletterci, ma poi annuì.
Non sembrava del tutto convinto.

«Quindi?» Isabel inclinò il capo, guardandolo.
«È vero che non vai bene a scuola?»

«Bè...sì, suppongo che io non mi stia impegnando!» annuì Thómas, più volte in realtà, quasi volesse evidenziare il concetto.

«E perché mai?» chiese lei.

«Non saprei, sono...stressato?»

Isabel ridacchiò «lo stai chiedendo a me?»

«Lei è brava con i bambini, quindi sì!»

«La bravura trascende dal leggere la mente, Thómas. Puoi saperlo solo tu questo.»

«Emh...non lo so di preciso, ma sì suppongo sia per questo» confermò.
Fece un breve pausa, poi continuò.
«Quindi...quindi rimarrete qui? Con me?» chiese, sgranando i suoi occhietti colmi di speranza.
«Rimarrete?!»

Isabel tirò un sospirò, un sospiro gravido di malinconia.
C'era ben poco da spiegare in quel momento.

«Io non posso accettare, Thómas» rispose in breve, poi chinò lo sguardo, quasi volesse sfuggire alla delusione che ora aleggiava fra gli occhi del piccolo Brown.

Il suo viso si era adombrato.
«Perché no? Non vi piace stare qui? Abbiamo la tv e tanti libri!» spiegò, quasi volesse far passare per buono tutto quell'elenco insulso.

Isabel sorrise fra la colpa che la divorava.
«Non sono i comfort della casa tesoro, che certamente saranno tanti, ma...» sospirò, non le era mai capitato di trovarsi così in difficoltà.
«È Complicato...»
Che patetico cliché.

«È complicato...» ripetè lui, quasi come se tentasse di coglierne il significato. Si girò verso la finestra, poi tacque. Sembrava immerso in chissà quale ricordo lontano.
«È ciò che disse lo zio quando la mamma sparì...»

Isabel s'irrigidì. Il cuore nel suo petto divenne un tamburo battente.
«Cos'hai detto?» chiese sconvolta.
Conosceva quella storia.

Nell'ultimo anno passato alla Middle school, aveva sentito molte voci legate alla dipartita di sua madre. Sapeva poco e nulla su lei, storie sentite per i corridoi alle quali non aveva mai dato troppo importanza: alcuni sostenevano si fosse suicidata, altri invece, che fosse stata la famiglia a causare la sua morte. Nessuno la vedeva più da mesi, la supposizione legata a un suo possibile decesso si era fatta insistente nell'ultimo periodo. Per lei era uno shock, apprendere invece, che fosse solo scomparsa.

Thómas annuì: afflitto prese a tormentarsi le dita.

Isabel, con il cuore in gola, gli andò più vicino inginocchiandosi al suo fianco.
«Cosa vuoi dire? Cos'è successo alla tua mamma? Io...noi credevamo che fosse...»

«Morta?»

Lei annuì «Sì» con una mano prese a lasciargli carezze lungo la schiena «ne vuoi parlare? Dirmi cos'è successo?»

Thómas alzò finalmente lo sguardo: gli occhi lucidi ne tradivano la sofferenza.
«Io vorrei che rimanessi qui...» sussurrò.

Quella triste volontà la destabilizzò.
«Non credo sia possibile, tesoro.»

«Perché no?!» Thòmas aggrottò la fronte, il suo tono era leggermente più alto adesso.

«Perché...è complicato» ripetè lei.

«Già, voi grandi sapete dire solo questo!»

Con un gesto veloce si divincolò dalla presa di Isabel: in un attimo fu in piedi, pronto a correre verso il letto infondo alla stanza. Si infilò fra le coperte che portò sopra la testa, quasi volesse proteggersi da un mostro inesistente.
«Andate via allora, abbandonatemi anche voi!»

Isabel raggiunse il letto a passo svelto, con un groppo in gola si sedette al suo bordo «Thómas non fare così, verrò comunque a trovarti non sarai da solo!»

«Io sono già solo» mormorò fra la trapunta ingombrante.

«No! Non è vero!»

«Sì invece!» Thómas scansò via il lenzuolo mettendosi a sedere: i suoi occhi blu erano gonfi, arrossati a causa delle lacrime che gli solcavano le guance.
«Io sono già solo! Nessuno vuole giocare con me, qui e neppure a scuola. Tutti mi vedono come se fossi solo un orfano e gli orfani non piacciono a nessuno! Capisco come mi guardano, come se fossi strano perché sono senza mamma e lì invece ce l'hanno tutti! Zio El non mi vuole vicino, Zio Matthias invece mi parla ma solo quando non ha da fare, Zio Ethan è sempre fuori, a malapena si accorge che esisto! Margot e Alex non vengono mai alla villa, gli Zii dicono che non può entrare nessuno, la mia mamma è...sparita, cosa mi rimane? Chi mi rimane? Solo tu, e-e ora anche tu vuoi andare via!» balbettò fra le lacrime.

Gocce salate che Isabel si sporse ad asciugare con le dita: il suo cuore era così addolorato, la sua gola bruciava come se avesse inghiottito una palla di spine. Non riusciva a parlare, a respirare, persino quello aumentava la sofferenza nel suo petto. «Thómas io...»

«Alla festa della mamma ci hanno detto che dovevamo preparare una cartolina...» Thómas la interruppe. «Una cartolina sì, l'ho fatta tutta rosa come piaceva a lei, con un fiocco rosa, le piacevano anche quelli, i fiocchi rosa e anche quelli gialli sai? E-e dietro le ho scritto una poesia, le ho scritto che le volevo bene e che era la mamma migliore del mondo. L'ho lasciata nel suo letto perché volevo che la leggesse, ma quando sono tornato lei era sparita e la cartolina è rimasta lì, sul letto, vuoto. Ho parlato con il cielo, ho pregato che tornasse, pensavo fosse colpa mia, che avessi fatto qualcosa di male, così gli ho preparato altre cartoline, tutte rosa e con il fiocco, anche quello giallo. Gliele ho lasciate sul letto, ma non le ha mai viste. Lei non è più tornata e io sono rimasto ad aspettarla lì, sul letto fra le cartoline, ma...non tornava, non è mai tornata. E-e ora, ora anche tu vuoi andare via!»

Isabel serrò le labbra.
Non piangere.
Non piangere.
Sii forte.

Non c'era stato giorno in cui la sua vita non le era parsa che un'eterna lotta alla sopravvivenza, l'aveva persino considerata marcia, priva di uno scopo. Ma ora, in mezzo al dolore di entrambi, si rese conto che forse l'aveva odiata un po' troppo. Quel giovane orfano lottava da solo, fin dalla tenera età, contro mostri peggiori dei suoi.

Deglutì, cacciando indietro le lacrime: scostò le coperte prendendo posto accanto a lui. Delicatamente gli avvolse le braccia attorno alle spalle, con protezione, con amore, quasi con timore di rompere un gioiello prezioso. Come se lei, anima già fragile, avesse potuto proteggerlo dal male che oscurava il suo cuore. Un muro sgretolato che tentava di sorreggerne un altro. Thómas si abbandonò a quella stretta, lasciando che il pianto prosciugasse le sue forze. Isabel lo cullò, baciandogli i capelli intrisi di sudore. Non avrebbe mai creduto che il giovane alunno brillante e perspicace che incontrava per i corridoi subisse un simile calvario.

Il suo cuore ora era difronte a un bivio, davanti a un senso di responsabilità che bussava con forza, a una sofferenza che non le avrebbe lasciato scampo.

Quel dolce orfano era solo, come lo era lei.
A entrambi non era rimasto nulla se non l'affetto che l'uno nutriva verso l'altro.
Sarebbe bastato?
Questo, sarebbe bastato a restare?

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro