Capitolo quaranta

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"Sai cosa puó fare un uomo innamorato?"


Non cercare mai di calmare
qualcuno al colmo della sua rabbia.
-ARTUR BLOCH

In meno di un'ora, la vita dei due amanti era stata stravolta, di nuovo. Minuti, istanti, secondi che Elijah trascorse ignaro di tutto. Rimase tra le lenzuola, gli occhi fissi sulla porta, nell'attesa di vedere comparire la sua Isabel.

Sorrise.
La sua fata, la sua fata incredibilmente bella.
Dolce più del miele.
Si sentiva felice, tanto felice.

Isabel era finalmente sua- anche se non completamente- ma per ora gli bastava averla accanto la notte, quando i suoi occhi si chiudevano e tutto ciò che desiderava era abbracciarla e addormentarsi su un cuscino che sapeva di lei. Non vedeva l'ora di svelarle il resto della storia, di raccontarle come aveva scoperto la data del suo compleanno e di quanto fosse stato facile ottenere il suo curriculum per inviarlo ad alcune delle scuole più prestigiose della Svizzera.

Godersi il calore del suo sorriso mentre le consegnava quel regalo rimasto in sospeso dalla loro prima sera a Grindelwald.

Voleva dirle che ben due istituzioni erano già interessate a lei, al punto da considerarla una candidata di spicco.
"Che si fotta la Middle," pensò, convinto che quella struttura non avesse mai meritato Isabel.
Il preside, pur riconoscendo la sua bravura, l'aveva cacciata senza esitazioni: un autentico bastardo.
Non poteva fare a meno di sentirsi in colpa ripensando al passato, a quella fredda mattina d'inverno, quando era giunto a scuola convinto di liberarsi di un peso, e invece aveva trovato un angelo.

La sua salvezza, l'eden di cui vanno predicando i cattolici.

E nonostante questo aveva agito come un villano!
Il desiderio di diventare un uomo migliore per Isabel, la sua fata, lo motivava. Sognava di offrirle un futuro roseo, addirittura di sposarla. Non smetteva di pensarci da quando l'aveva presa in braccio nella doccia. Era pronto a cambiare, a trasformarsi nell'uomo di cui le aveva parlato Isabel, l'uomo gentile e buono che sognava di incontrare. Glielo doveva, lui aveva distrutto la sua vita e ora, tra le macerie, intendeva recuperare qualcosa di positivo!

Si sollevò, mettendosi a sedere.
Diede una rapida occhiata all'orologio sul muro: erano le 14:30. Isabel ormai mancava già da un po'.
Perché ci metteva tanto?

«Isabel, tutto bene?» la richiamò a voce alta, ma non ricevette risposta. La distanza, anche se minima, dopo giorni di lontananza, gli procurava un'irritazione quasi psicotica. Erano trascorsi venti interminabili minuti da quando si era allontanata, ma a lui sembrava un'eternità.

Si alzò dal letto, afferrò mutande e t-shirt e, indossandole in fretta, si incamminò al piano di sotto. «D'accordo, vengo a stanarti!» scherzò, impaziente di riassaporare il gusto salato della sua pelle, delle sue labbra color rubino, petali di rosa bagnati dalla rugiada del mattino.

"Cosa mi fai, fata," pensò.
"Cosa mi fai."

Ma una volta giunto al piano terra, il sorriso che pareva illuminarlo si spense rapidamente. La porta dell'atrio era spalancata, il vento si era infiltrato nella stanza con una potenza tale da spegnere persino il fuoco nel camino. La casa era avvolta nel silenzio, un silenzio pesante, quasi insopportabile. L'evidenza non sbagliava: qualcosa non andava, ma non riusciva ancora a decifrare quale fosse la natura di quel perturbante presagio.

Quel che era certo è che Isabel non sarebbe mai uscita con una tempesta del genere, perché avrebbe dovuto farlo?

«Isabel!» il tono di Elijah si fece più allarmante.
Si precipitò sulla soglia, esaminando il portico, cercandola fuori. Non c'era niente, niente e nessuno, a parte delle impronte parziali che finivano al bordo della strada. Una chiave era ancora attaccata alla toppa.
Non era la sua, men che meno di Matthias.

Si sentì svenire.
«No, no, no! Isabel!» urlò, correndo verso la cucina. Doveva trovarsi lì, sì per forza!
Sbatté la porta, dirigendosi verso il piano cottura; non trovò traccia di bicchieri, l'acqua era ancora nel frigorifero. In preda al panico, cominciò a gridare il suo nome per tutta la baita, setacciando ogni angolo della casa, qualsiasi buco gli apparisse un possibile nascondiglio. Nell'assurdità di quella convinzione, arrivò persino a credere che Isabel si fosse nascosta per spaventarlo, ma ben presto capì che la realtà era diversa e più terrificante di una semplice marachella.

La sua Isabel era sparita.
Non c'era.
Non c'era da nessuna cazzo di parte.

Con il cuore in gola raggiunse nuovamente l'atrio: a piedi scalzi, in mezzo ai presagi di una tempesta, si precipitò in giardino. Tremori devastanti lo percorsero dalla punta delle dita fino al cervello. La pioggia lo investì implacabile, cadendo sulla sua t-shirt, mescolandosi alle lacrime che gli annebbiavano la vista, e al cuore di nuovo spezzato. Ma non si fermò, accecato dal terrore, dalla rabbia, seguì ciò che restava delle impronte fino allo sterrato inzuppato.

Si accasciò al suolo, cadendo in ginocchio. Cominciò a tremare con più violenza, avvertendo una strana pressione alla testa, un odore acre al naso. Tutto intorno sembrava girare, assunse persino una tinta rossastra. Il cuore subì un tuffo doloroso, accelerò il suo ritmo, battendo così forte che per un attimo ebbe l'impressione che stesse per schizzare fuori dal petto.
Uno strano fischio che andava e veniva lo stordì, i suoni della terra, del diluvio che si abbatteva sulla brina, arrivavano ovattati. Serrò i pugni, li batté contro l'asfalto, mentre il dolore gli scavava una voragine nel petto.

La sua paura peggiore era diventata realtà.
L'avevano presa.
Si erano presi la sua fata, la gioia della sua vita.
L'unico motivo che gli impediva di impazzire, di sprofondare negli abissi del male, di lasciarsi assalire dai demoni che allontanava con la sua luce accecante.

Gridò, un urlo devastante, da far gelare il sangue.
Le vene nel collo si gonfiarono in modo spaventoso, il suo viso assunse una tinta violacea poco rassicurante. Non respirava più, non aveva più aria. Urlava, urlava soltanto, con la bufera invernale pronta a scontrarsi con la sua. Una furia indomabile lo pervase, una rabbia che bruciava come fuoco, mentre la sua mente si perdeva in un turbine di emozioni oscure e vendicative.

«Isabel!» il suo nome, i suoi occhi, il suo viso, lo pugnalarono allo stomaco. Gli lacerarono l'anima.

Come avevano fatto a trovarli, a rapire Isabel?
Li avevano seguiti? No, era impossibile.
Erano stati cauti, attenti. Nessuno conosceva il loro nascondiglio, tanto meno potevano conoscere la strada per arrivarci. La baita era ai piedi di una montagna piuttosto alta, con molti bivi nel percorso. Anche se il personale a bordo dell'aereo e il comandante, avessero fatto la spia, non ci sarebbe stato modo di trovarli.

Il comandante giusto, le hostess...
Li avrebbe fatti uccidere se avesse scoperto di un loro coinvolgimento!

Tuttavia, il suo presentimento suggeriva altro. C'era qualcosa che non andava! Quelle persone avevano una famiglia, li conoscevano. Non avrebbero mai corso un rischio così elevato; la famiglia Brown era nota per non risparmiare i traditori, a volte persino i parenti dei traditori. Spifferare il luogo in cui si nascondevano non rientrava nei loro interessi.

Si voltò verso la porta con una lentezza quasi diabolica. Faticosamente si rialzò da terra, barcollando; il freddo della neve sembrava congelare ogni singola parte del suo corpo. Le dita intorpidite e violacee pungevano come spilli sotto la pelle, mentre i piedi dolenti lo tormentavano quasi quanto il cuore, pulsante di dolore e disperazione. Raggiunse l'uscio, sfilò la chiave che aveva trovato nella toppa. La guardò: era identica alla sua, con un vecchio graffio inciso sulla parte rotonda e ingiallita, come se fosse rimasta in un cassetto per troppo tempo.

Solo tre persone possedevano una chiave identica a quella.
Lui.
Matthias.
E...
«Brooke!»

All'improvviso, tutto gli fu più chiaro, la realtà assunse un senso nettamente più terribile e inaccettabile: era stata sua sorella a rapire Isabel. Era l'unica, dopo Matthias, a conoscere la posizione della baita. Sua madre l'aveva lasciata a loro prima di morire, desiderando che continuassero a rimanere uniti anche dopo la sua dipartita. Quella piccola casetta nel bosco custodiva i loro ricordi più belli, momenti incastonati nel tempo, racchiusi tra quelle quattro mura che trasudavano magia e malinconia, che ora pesavano come macigni sulle spalle.

Aveva sacrificato tutto per quella bambina dagli occhi azzurri come i suoi, che crescendo era diventata la personificazione di una serpe in seno. Aveva tradito la fiducia dei suoi fratelli alleandosi con il loro peggiore nemico e poi, sfruttando la sua debolezza per Isabel, l'aveva rapita in nome di chissà quale patto tra lei e il male.

Non avrebbe mai creduto che sarebbe arrivata a tanto. Non avrebbe mai pensato che la sorella con cui giocava a nascondino, con cui colorava intere pareti bianche, avesse potuto ferirlo in questo modo. Lui l'amava, l'aveva cercata, l'aveva promesso a sua madre quand'era scomparsa.

Perché voleva che soffrisse in questo modo?
Lanciò via la chiave, che andò a frantumare una vetrina di porcellane. Si strofinò una mano sul viso, disperato. Sentì qualcosa spegnersi dentro di lui, una piccola fiamma che aveva continuato a covare nel segreto della sua anima, persino all'ombra di se stesso: l'affetto che nutriva per sua sorella.

Anche dopo aver visto le fotografie, aveva cercato di alimentare una speranza. Sperava che non li avesse traditi davvero, che dietro il suo gesto, la sua sparizione e la collaborazione con Rick ci fosse una dannata spiegazione.

Ma dopo...questo, no.
Dopo il rapimento di Isabel, non c'erano più scuse o motivi che potessero giustificarla. L'angoscia lo travolse come un'onda oscura e soffocante, mentre si rendeva conto della brutale verità. Aveva perso sua sorella il giorno in cui aveva deciso di abbandonarli; quella ragazzina piena di vita per cui aveva barattato la sua esistenza non c'era più. In modo quasi automatico, cancellò ogni residuo di fiducia e amore che avesse mai provato per lei.

Ciò che restava da fare ora era solo una cosa.
Trovarli, trovare Brooke e salvare la sua Isabel.
L'amore della sua vita, il motivo della sua esistenza.
Portala via, accertarsi che niente avrebbe potuto più farle del male. Pianse, pianse come non aveva mai fatto dopo la morte di Lily: non aveva seppellito solo l'amore per Brooke, ma anche ciò che rimaneva del suo legame con lei, e questo faceva ancora più male. Lo rendeva un moribondo, uno scellerato in preda all'odio.
Ma c'era un pensiero ben più terribile di quello, più insopportabile, che non riusciva ad accettare: avevano preso la sua Isabel mentre lui si trovava a casa. Non era uscita a proteggerla, a difenderla da chissà chi l'aveva catturata per Brooke.

Cominciò a respirare con più violenza, singhiozzando e sferrando pugni contro la porta di legno, urlando e gridando come se l'anima potesse uscirgli fuori dal corpo!

Si portò le mani ai capelli, si strofinò ancora il viso e ancora urlò: era una dannata furia. Nella sua mente, flash di ricordi irruppero come un treno fuori controllo. Si mise a distruggere tutto ciò che gli si parava davanti: rovesciò a terra la vetrina, le sedie di legno furono scagliate con violenza contro il pavimento, uno specchio si frantumò in un concerto di schegge taglienti. Una cornice, contenente una foto di famiglia, si sbriciolò al contatto con il suolo, mentre una lampada volò contro il muro, illuminando la stanza con un bagliore elettrico prima di spegnersi definitivamente. Vasi di fiori furono lanciati con forza contro le pareti, esplodendo in un riverbero di terra e petali, come un ultimo atto di disperata rivolta contro il destino avverso.

Le sue nocche si stavano lentamente ricoprendo di piccole screpolature, i primi segni del danno inflitto dalla sua ira. Il sangue iniziò a sgorgare dai tagli, tingendo le sue mani di rosso mentre continuava a picchiare e rompere gli amabili resti dei suoi ricordi.
Un macabro mosaico di dolore e rabbia.

Si fermò solo quando tra i pezzi di vetro notò una fotografia che credeva perduta da anni. Con gli occhi annebbiati dalle lacrime, si chinò per raccoglierla: era una foto che aveva scattato a Lily qualche giorno prima che morisse.
Come c'era finita lì?
Non riusciva a guardarla, a tenerla in mano senza che queste tremassero come foglie. Era bellissima, la sua piccola Lily Rose, proprio come la ricordava. Sorrideva felice, distesa su un campo di girasoli, indossava un vestito bianco, lo stesso che portava il giorno in cui suo padre l'aveva uccisa.

Il nodo che si era formato nella sua gola gli impedì persino di respirare. Osservò l'ennesima, struggente, memoria, come un fascio di luce che penetrava nel buio. Una folata di vento, leggera e delicata simile a un soffio, gli sfiorò la pelle con dolcezza.

"Era gelida, eppure vagamente calorosa."

Si voltò verso la porta, poi tornò a guardare la foto.
Sorrise.
Persino dall'oltretomba, Lily Rose sembrava volerlo aiutare, farlo ragionare.
Quel pensiero lo risvegliò.
Cosa stava facendo? Non era la casa che doveva distruggere, ma trovare la sua Isabel!

Portò la foto con sé, come una sorta di guida interiore, e si precipitò al piano di sopra. Spalancò la porta della stanza, chinandosi a prendere una valigetta nera sotto al letto. L'aprì: all'interno c'era un numero e un telefono satellitare. Era il contatto di emergenza che lui e Matthias si erano scambiati nel caso in cui avessero avuto bisogno di aiuto. Avrebbero dovuto telefonarsi qualche giorno più tardi, trascorrere il Natale insieme e poi attuare il loro piano per distruggere Rick, ma le circostanze richiedevano un anticipo.

Prese un respiro profondo, sentendo il peso dell'ansia e della tensione che gli schiacciava il petto. Con le dita tremanti, sporche di sangue, compose il numero sull'apparecchio. Avviò la chiamata e si alzò in piedi, camminando avanti e indietro per la stanza, stringendo con forza la foto di Lily nel pugno che si portò alla fronte. I primi squilli risuonarono nel silenzio della stanza, segnando l'inizio di un momento cruciale.

«Andiamo, rispondi, dannazione!» imprecò, cercando di regolare il respiro, di trovare la forza per parlare e spiegare quel maledetto incubo.

Continuò a muoversi avanti e indietro, respirando, ispirando, cercando di calmarsi.

Al quarto squillo, Matthias rispose.

«Mi hai salvato da un rave party a cui il tuo stupido fratello voleva trascinarmi. Ti devo un favore!» scherzò lui dall'altra parte della cornetta.

«Matthias!» si affrettò Elijah, singhiozzando. «Devi venire qui, immediatamente, cazzo! Chiama rinforzi, di' ai nostri uomini di prendere il primo aereo per la Svizzera. Li voglio qui entro stasera!»

«Ehi, ehi, rallenta! Calma, Elijah, che succede?» cercò di capire l'altro, preoccupato.

Elijah scosse la testa «hanno preso Isabel, Matthias...» mormorò dapprima.
«L'hanno presa, l'hanno presa, l'hanno presa cazzo!» gridò poi con enfasi.

«Cosa?!» Elijah non poté vederlo, ma Matthias saltò letteralmente dalla sedia. Lo sentì sospirare e chiamare Ethan con urgenza palpabile.
«Merda! Com'è successo?» chiese poi. Dalla cornetta arrivavano strani suoni interfonici e il fruscio di qualcosa che strofinava sul ricevitore, probabilmente stava mettendo la giacca.

«Non lo so, non lo so, non lo so...» gemette Elijah, angosciato. «Eravamo a letto, lei è scesa a bere io sono rimasto di sopra, ho visto che ci metteva troppo e sono sceso a chiamarla. Non l'ho trovata. In giardino c'erano delle impronte che portavano alla strada, devono aver parcheggiato poco lontano dalla baita per non attirare l'attenzione.»

Elijah sentì ancora un altro sospiro, poi Matthias parlò.
«Ci sono parecchie stradine lì intorno, avranno sfruttato i punti ciechi a loro favore. Questo vuol dire solo una cosa, Elijah...»

Silenzio.

«È stato qualcuno che conosce il posto.»

«Lo so» Elijah sogghignò, amaro, addolorato.
«La nostra cara sorellina non ci ha messo molto a trovarci.»

Altro silenzio, questa volta più prolungato. Non potevano guardarsi, ma entrambi in quel momento provarono la stessa cosa: un senso di nausea e tradimento!
«Come fai saperlo?»

«C'era la sua chiave del cazzo attaccata alla toppa, Matthias. Ha lo stesso graffio che ricordavo, la stessa placcatura» spiegò con voce incrinata.
«L'ha presa lei, Matthias, l'ha presa lei...»

«Voleva che lo sapessimo, sì», concluse il fratello con tono pesante. Nonostante avesse difeso Brooke in passato, non poteva più prendere le sue parti a questo punto. Brooke li aveva traditi per davvero.

«D'accordo, ascoltami», disse Matthias con voce risoluta, mentre cercava di trattenere l'agitazione che gli serrava la gola. «Non muoverti da lì, Elijah, non fare cazzate, mantieni la calma! Io ed Ethan stiamo arrivando. Zurigo non è troppo distante da Grinderwald, ci metteremo poco meno di due ore. Tra poco chiamo Benjamin, gli dico di allertare i nostri uomini e poi cerco di trovare qualche aiuto in più. Alcuni dei nostri parenti si trovano in Svizzera, persino i Müller sarebbero disposti ad aiutarci, nostri alleati da una vita. Ti ricordi?»

«Sì, mi ricordo di loro», rispose Elijah con voce strozzata, carica di rabbia repressa. Si lasciò andare sul letto, sdraiandosi. Chiuse gli occhi, afferrando e stringendo il cuscino di Isabel come se fosse l'ultima scialuppa nell'oceano.

C'era ancora il suo profumo.
E ora avvertiva anche il vuoto insopportabile della sua assenza.

«Matthias...» lo chiamò, la voce spezzata dall'angoscia.
«Cosa?»
«Non posso vivere senza di lei. Non posso.»
«Non dovrai, infatti, la troveremo, te lo giuro!»
La promessa di Matthias era ferma, ma Elijah avvertiva un'urgenza nascosta dietro le sue parole.
«E se dovessero farle del male? Matthias, se Rick...»
«Non le faranno niente, Elijah», l'interruppe Matthias,  il tono duro e deciso.
«Isabel è la loro garanzia, non gli converrebbe: nessuno contratterebbe per un morto!»

Elijah serrò la stoffa tra le dita con una forza che avrebbe potuto strapparla. La donna che amava, che amava con tutto se stesso, era diventata una merce di scambio, un asso da giocare a una partita macabra che avrebbe decretato un solo vincitore Non aveva potuto salvare Lily, sua madre, persino l'anima di Brooke era ormai persa, ma quella di Isabel esisteva ancora, poteva ancora impedire l'evitabile.

E avrebbe fatto qualsiasi cosa per riportarla indietro.

«Tu sai che li ucciderò, vero? Tutti quanti, Matthias, uno alla volta», sussurrò Elijah, con una sorta d'ira contenuta. «Brooke è furba, agisce nell'ombra, ma mai da sola. Qualcun altro è implicato nel rapimento, probabilmente Rick, ma sono sicuro che ci saranno altri responsabili. E quando li prenderò, Matthias, oh, quando li prenderò. Li sterminerò tutti, senza pietà!»

***

Isabel, gradualmente, riprese conoscenza.
I suoi occhi pesanti si aprirono poco alla volta, accogliendo la luce con una timida sfumatura di consapevolezza. Sentì una terribile spossatezza, la testa girare come una giostra impazzita, una trottola che non riusciva a fermare. Il cuore pulsava più forte di un tamburo, come se volesse preservare la sua vitalità, in qualche modo.
Si sentiva confusa, ancora stordita.

Batté le palpebre, lottando contro la confusione che sconvolgeva la sua mente, finché non riuscì a mettere a fuoco la vista. Scoprì di ritrovarsi in un salotto elegantemente arredato, con pareti e mobili in tonalità crema, tutti ordinati con cura. C'era persino un piacevole odore di cocco nell'aria. Una finestra si stagliava alla sua destra, offrendole la vista delle imponenti montagne all'esterno e del verde delle pianure sottostanti, ma nulla che potesse rivelare la sua esatta posizione, suggerirle il luogo in cui la tenevano prigioniera.

Isabel tentò di muovere le braccia, ma ben presto, si rese conto di essere intrappolata su una sedia al centro della stanza. I suoi polsi erano stretti dietro lo schienale, mentre le caviglie erano saldamente legate con corde che le tenevano incollate persino le ginocchia. Seminuda, eccetto per una camicia e delle mutande, si sentiva vulnerabile e impotente, come un oggetto esposto in una fiera.

Ma non demorse: cercò di liberarsi dimenando braccia e gambe, ma le prese erano troppo strette e finí solo col provocarsi dolore.

«Non muoverti troppo, dolcezza. Ti verranno dei brutti lividi», una voce familiare la colse alla sprovvista.

In fondo alla stanza, accanto a uno scaffale colmo di volumi in pelle, si trovava Rosalind, con le braccia conserte e uno sguardo di soddisfazione negli occhi mentre fissava Isabel.
«A Brooke non piace quando gli ostaggi fanno i capricci» le disse glaciale. Indossava una tuta da trekking e scarpe da ginnastica, i capelli erano legati in una coda semi coperta da un cappellino.

Con un sorriso sprezzante, si avvicinò al divano e si accomodò di fronte a lei con fare spavaldo.
«Oh, non badare a me», ridacchiò, quasi disinteressata.
«È solo una questione di mimetizzazione. Qui tutti sono ossessionati con lo sport, quindi ho optato per abiti poco appariscenti. E soprattutto...» si sporse in avanti, osservandola più attentamente.
«Che posso gettare quando Brooke ti squarterà a due e il tuo sangue schizzerà per tutta la stanza» rise.

Poi s'interruppe, puntando lo sguardo verso la porta.
«Tra poco arriva», continuò con un sorriso malizioso. «È andata solo a recuperare qualche "attrezzo" per fornirti il miglior servizio di tortura possibile! Brooke è incredibilmente violenta, sai? Come si dice...la mela non cade mai troppo lontano dall'albero.»
Accavallò le gambe con disinvoltura, dando l'impressione di una calma apparente che nascondeva un'intensa malvagità.

Una crudeltà che non tardò a sbeffeggiarle.

«Sai mi diverte molto questa situazione, chissà come starà il povero Elijah, quel finto martire del cazzo», scosse la testa. «A proposito, gli hai parlato dopo? Sai di me e lui...»
«Sta zitta!»
«Che cos'hai detto?»
«Sta zitta, cazzo!» ripetè Isabel. La sua risposta fu una sorta di grido.
«Non voglio ascoltarti, chiudi quella fogna!»
Chiuse gli occhi, dondolando indietro la testa: le tempie dolevano ancora, quasi pulsavano, ma quello che più la tormentava era il pensiero di Elijah.
Il suo amore, il suo bellissimo amore.

Come stava?
Gli avevano fatto del male?
Dov'era?
Forse ancora alla baita?

Deglutì, lottando contro il nodo che le stringeva la gola, trattenendo il pianto che minacciava di esplodere da un momento all'altro. Era questa la sua paura più grande, la ragione per cui si era ostinata a respingerlo, a cercare di tenere le distanze. Temeva che il male li avrebbe raggiunti entrambi, portandoli alla rovina!

Sentiva già la sua mancanza, la sua assenza era terrificante quanto l'idea di vederlo morto o peggio: di non rivederlo mai più.
"Trovami, amore mio, trovami. Ti prego," pensò.
A quel punto avrebbe fatto di tutto per non separarsi mai più da lui!

«Brutta stronzetta del cazzo!» Rosalind scattò in piedi: con fare minaccioso si avvicinò a lei, serrando i pugni.
«Non provocarmi o ti strappo la tua bella chioma dalla testa!»

Isabel la fronteggiò con tutta la furia e il coraggio che le ardevano dentro. Con uno sguardo feroce e determinato, fissò la sua avversaria senza esitazione, senza timore. I suoi occhi brillavano di un'audacia incrollabile mentre teneva la testa alta, pronta a combattere con le unghie e con i denti!  

«Ci ho parlato con Elijah sai», cominciò a dire lei. «Vuoi sapere cosa mi ha detto?» chiese, con un sorriso impertinente che si allargava, mentre Rosalind la osservava con calcolata noncuranza.
«Che eri così insignificante per lui da essere quasi invisibile. E tutt'ora lo sei Rosalind, sei esattamente come ti sei descritta in bagno: una ex che se ne va in giro a creare discordia tra lui e le sue nuove puttane. Peccato che la puttana tra le due sia solo tu!»

Uno schiocco sonoro riempì improvvisamente la stanza, accompagnato da una sensazione di disorientamento. L'orecchio di Isabel prese ronzare, il suono sembrò riverberare all'interno del suo cranio.
La guancia destra, parzialmente coperta da alcune ciocche di capelli, fu investita da un'ondata di calore e fastidio acuto, come se un braciere le avesse sfiorato la pelle. Rosalind l'aveva colpita con violenza.
«Come osi...»

«Lui ti ucciderà per questo», l'interruppe Isabel.
Non l'avrebbero spezzata, non importava quanto avrebbe potuto colpirla, non sarebbe rimasta in silenzio, non avrebbe mollato, non si sarebbe rassegnata.
Mai.
«E sai una cosa?» aggiunse, con un sorriso beffardo, con ferocia indomita. «Io non glielo impedirò!»

Rosalind alzò di nuovo la mano,  pronta a colpirla ancora, ma...
«Basta così!» una voce la fermò.

Brooke comparve alle sue spalle, ponendo fine a quell'insulsa diatriba. Era la famosa sorella dispersa di cui Elijah parlava sempre. Isabel la riconobbe all'istante, l'aveva vista ai piedi delle scale prima di perdere i sensi.

Era stata lei a rapirla? E, se sì, perché?

«Tu proprio non ascolti mai, uhm?» la rimproverò Brooke, avvicinandosi a Rosalind con passo deciso.
I suoi occhi azzurri, simili a quelli di Elijah, brillavano con una fermezza indiscutibile mentre fissava intensamente la sua nemica. Brooke ed Elijah si assomigliavano così tanto, non solo nei tratti fisici ma anche nella sicurezza che trasmettevano. Teneva una mano nella tasca dei suoi pantaloni, mentre con l'altra reggeva una sacca nera.

Emanava un'aura di potere e determinazione, persino di mistero, di fascino innegabile: i suoi lunghi capelli scuri erano raccolti con cura in un elegante chignon basso, che le conferiva un'aria di sofisticata autorità. Indossava un completo sartoriale, blu scuro per l'esattezza, con un panciotto sopra una camicia di raso bianca, arricchita da maniche a volant e un fiocco vaporoso al collo. Ai piedi, sfoggiava delle vertiginose décolleté che aggiungevano un tocco di finezza al suo abbigliamento. Nonostante l'evidente raffinatezza e il suo stile impeccabile, non sembrava affatto il tipo di persona che avrebbe potuto torturare qualcuno.

Nè che fosse in procinto di farlo.

«Questa stronza mi ha dato della puttana!» si difese Rosalind. «Ho tutto il diritto di...»

«Dimmi qualcosa che m'interessa, Rosalind» ribadì Brooke, la voce fredda e distante. La sua attenzione era chiaramente rivolta altrove, quasi come se la presenza di Rosalind non fosse minimamente significativa per lei. Brooke guardava Isabel e anche Isabel guardava Brooke. Avevano così tanto di cui parlare, domande a cui dare una risposta.

Rosalind fu sull'orlo di scatenare un sermone che Brooke non aveva nessuna intenzione di ascoltare, anzi l'avrebbe soltanto infastidita.
«Fai sul serio?» chiese Rosalind, ma Brooke la interruppe senza mezzi termini, appoggiando la busta sul divano.

«Levati dal cazzo, Rosalind», la fulminò con lo sguardo. «Non farmelo ripetere, detesto dover dire due volte la stessa cosa!»

«Ma...»
«Levati, dal, cazzo» ripetè Brooke, scandendo ogni singola parola.

Seguì un silenzio pesante, finché Rosalind, chiaramente contrariata, mormorò qualcosa che nessuno in quella stanza riuscì a capire. Con un'ultima occhiata velenosa rivolta a Isabel e un cenno di rispetto più forzato verso Brooke, Rosalind abbandonò la stanza, chiudendo la porta con un tonfo quasi violento.

Brooke sorrise, sedendosi anch'essa davanti a Isabel. Accavallò le gambe con nonchalance, poi estrasse una sigaretta insieme all'accendino. Con un movimento elegante, portò la sigaretta alle labbra, inclinando leggermente la testa mentre faceva scattare l'apparecchio. La fiamma danzò delicatamente nell'aria, avvolgendo il filtro della sigaretta prima che Brooke prendesse una lenta boccata. La rilasciò poco dopo, con un'espressione rilassata.

«Vorrei offrirtene una, ma le Winston sono troppo preziose, proprio come il mio tempo. Quindi, cerchiamo di non sprecarlo, va bene?» Brooke prese un altro tiro, questa volta più intenso, lasciando che il fumo si disperdesse fino al soffitto. Rimasero in silenzio un istante, i loro sguardi si incrociarono, come se entrambe volessero studiarsi a fondo, cercare di cogliere ogni sfumatura dell'altra.

«E così ti scopi mio fratello? Elijah, non è vero?» le chiese Brooke, con voce calma e accomodante. Sorrideva in modo quasi irrisorio; ovviamente sapeva già tutto, ma voleva metterla alla prova, capire fino a che punto poteva spingersi con lei.

Isabel rimase in silenzio, senza emettere alcun suono. Anche se la domanda non la mise a disagio, non sentiva la necessità di rispondere. Mentre guardava Brooke, provò uno strano senso di déjà vu, come se stesse parlando con una versione al femminile di Elijah. La somiglianza tra i due era così sorprendente...

«Andiamo, fatina...», la prese in giro Brooke «non obbligarmi a usare Betty.»
Tenne la sigaretta con una mano, attenta a non fare cadere la cenere sul tappeto, mentre con l'altra tirò fuori una mazza da baseball dalla busta.
Gliela mostrò, facendola oscillare da un lato all'altro.

«Con questa, io ed Elijah, abbiamo picchiato un ragazzino che non mi lasciava in pace alle medie. Aveva un quaderno, il bulletto del cazzo, con un nome scritto sulla copertina: Betty, per l'appunto. Così abbiamo deciso di battezzarla con quel nomignolo, sai, per ricordare i vecchi tempi. È quasi esilarante che debba usarla contro di te. Non sai quanto.»

Gliela puntò contro, poi chiuse un occhio quasi fosse una pistola «io non sono una persona paziente, Isabel. Nessuno nella mia famiglia lo è, forse Matthias, il mio amatissimo Matthias. Hai conosciuto anche lui, non è vero? Al gala.»

«Come fai a sapere tutte queste cose?» Isabel trovò appena il coraggio di parlare, in realtà fu la mazza a convincerla.

Brooke ridacchiò, sarcastica.
«Allora, oltre a svolazzare sulla testa dei miei fratelli, sei anche brava a fare domande stupide. Bene, almeno questa volta non mi costringi a macchiarmi l'abito.»
La donna abbassò la mazza, ma continuò ad impugnarla con vigore, come un avvertimento sottile e minaccioso: nulla avrebbe potuto impedirle di usarla.

«Io so tutto, cara Isabel Turner», iniziò con un tono calmo e misurato, «nata a Philadelphia il venti dicembre alle ore quattordici e quarantacinque in...un ospedale piuttosto malconcio, direi. So dove lavoravi, per chi lavoravi: Edgar Burret, preside della Middle School, struttura da dove mi pare di capire, ti abbiano cacciato a causa di mio fratello.» Fece una smorfia pensosa, poi continuò, «Mi dispiace molto, i suoi modi sono... discutibili a volte.» Sorrise leggermente, poi riprese il discorso, «Dov'eravamo rimasti? La middle, giusto! Poi vediamo che altro...Ah sì, sei cresciuta con Clorinda Devis, in una piccola casetta fuori città, lontana da Franciville. Ottima scelta, a proposito hai un giardino piuttosto carino, sai?» 

Isabel impallidì, impallidì in maniera quasi preoccupante.
Brooke, dalla sua espressione, intuì la domanda che stava per chiederle, così la anticipò.
«Te l'ho detto, io so tutto, cara professoressa, o meglio, quasi tutto», disse rigirando la sigaretta tra le dita.
«Ci sono dubbi che mi assillano da un po', Isabel, a cui non riesco a trovare risposta. Sono un mistero per me, un dannato rebus infernale. Ed è proprio questo il motivo per cui ti ho rapita: voglio che tu risponda alle mie domande!»

Isabel scosse la testa, guardando Brooke con uno sguardo misto tra incredulità e sospetto.
«Non capisco di cosa stai parlando!» protestò, anche se nel profondo sospettava che quella donna fosse davvero fuori di testa.

«Lo immaginavo» sospirò Brooke, sollevando la mazza. «Ma lascia che ti spieghi tutto.»
Brooke si riaccomodò sulla poltrona, fissandola con occhi freddi e severi.
«Ci sono tre cose che devi dirmi, Isabel: chi sei davvero, per chi lavori e soprattutto...perché tradisci i miei fratelli, persino Elijah brutta parassita del cazzo!» esclamò con voce tagliente.

Buttò la sigaretta a terra, schiacciandola con la punta del tacco.
«So che sei tu la talpa, Isabel. Ne sono certa!»

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