Capitolo uno

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng



"Il gioco ha inizio"







-1990, Franciville
Villa Brown.



«La sua auto è pronta, signore», comunicò Benjamin, maggiordomo di lodevole esperienza all'interno della rinomata villa Brown. Primo braccio destro di un inquieto Elijah, che ora saliva all'interno dell'abitacolo con evidente disappunto. Il suo sguardo pungente si soffermò sulla maestosa tenuta innevata, scrutando con fastidio la superficie ricoperta dal gelo: la detestava, la trovava penosa e irritante, come tutto ciò che era freddo e terribilmente malinconico. Una visione alquanto inusuale, forse un degno ritratto del cuore infondo al suo petto. Una presenza infestante, indegna della maestosità che gli veniva attribuita.

Avrebbe di certo contattato un giardiniere nel primo pomeriggio.

L'autista fu l'ultimo a prendere posto all'interno della Rolls Royce, l'auto preferita da Elijah, la quale spiccava la propria magnificenza di fronte allo sterrerato imperlato di luce. Elijah era ciò che si definisce "un perfetto esibizionista": ricorrere a qualunque stratagemma pur di risaltare il suo fortuito benessere, compiaceva ulteriormente il suo ego smisurato. E ciò significava dover accentuare il ceto dei Brown persino a un incontro insulso come quello fra genitori pretenziosi e insegnanti poco lungimiranti, nel quale la disparità sociale non faceva altro che emergere con arrogante evidenza.

Ma a Elijah non importava. In fondo tutti dovevano sapere della sua grandezza assoluta e invidiabile, irraggiungibile, oltremodo scomoda e pungente. Lo chauffeur mise in moto la vettura, partendo alla volta del limbo dentro al quale Elijah temeva di venire risucchiato. Il rombo dell'auto distolse la sua attenzione dalla magione sontuosa, che ora spariva fra la sommità dei cancelli indorati: per un attimo, Elijah, riprovò la stessa meravigliosa inquietudine di quando, molti anni or sono, villa Brown gli si era materializzata all'improvviso, lasciandolo senza fiato.

Era un palazzo maestoso ed elegante, circondato da un brolo rigoglioso e sconfinato, che come un oceano verdastro solcato da pini e fusti erbacei, si stagliava per metri attorno al perimetro della villa. Aveva solo cinque anni quando la balia lo portò per la prima volta alla magione Brown. Sua madre impregnava tutte le sue forze in una estenuante battaglia alla sopravvivenza per occuparsi di lui: ricordava ancora le sue braccia tumefatte, le percosse inflitte da un padre feroce e privo di ogni morale, il viso storpiato dalle piaghe incrostate di sangue. Il tono monocorde a ogni saluto per i corridoi, o le insolite cadute per le scale.

"Tutti spiacevoli inconvenienti" sosteneva Jamès, suo padre, un uomo burbero e detestabile.
Ma nulla di ciò che proferiva era vero, ed Elijah lo sapeva. Erano le grida disperate di Virginia a confermarglielo ogni notte. Tutti i colpi sferrati contro un corpo lacerato e sprovvisto di forza, che puntualmente crollava sotto al peso del dolore con un tonfo insonoro.

Elijah avrebbe voluto proteggerla, difendere il corpo che lo aveva messo al mondo, custodire ciò che restava della sua misera letizia in una teca di cristallo. Vegliare su di lei, assicurandosi che nulla avrebbe potuto farle più del male. Ma col tempo avrebbe imparato che le sue volontà contavano meno del nulla. Col cuore in subbuglio, nascondeva la testa sotto il cuscino, stringendo al petto un brandello di stoffa: un fazzoletto che sua madre gli regalò in una delle sue visite. Avrebbe voluto usarlo su di lei, ripulire il suo cuore dal marciume che lo soprassedeva.

Ma ciò non accadeva mai mentre aspettava.
Aspettava che il silenzio, per quanto misero, ritornasse a invadere la sua stanza, che le urla disperate della madre si trasformassero in risate gioiose e sferzanti, come i colpi che venivano scagliati contro il suo corpo addolorato e privo di colpe.

Aspettava e aspettava.

Ma alla fine c'erano solo frustrazione e qualche sordido singhiozzo ad accompagnare le sue lacrime, accentuate da una tediosa impotenza. È così che trascorse ogni notte della quale aveva memoria: notti in cui tutto si trasformava in un becero tentativo di sopravvivenza, puntualmente abbattuta da una crudeltà pari a quella che ora attraversava gli occhi azzurri di Elijah, intenti a scrutare l'esterno in movimento.

Un ghigno amaro gli storpiò le labbra, quando realizzò che la sua attenzione veniva agguantata persino da ricordi così cruenti, pur di non badare allo spiacevole inconveniente dal quale avrebbe tanto voluto sottrarsi, ma invano, purtroppo. Sapeva che quell'orfano meritava la dovuta attenzione.
Non avrebbe mai potuto abbandonarlo in un momento così importante.

Brooke, non glielo avrebbe perdonato, ed Elijah non avrebbe mai accettato un simile crucio.

Sospirò.

In quel gelido mattino, carico di aspettative, tutto sembrava essersi placato in una strana quiete ai lati della strada. Ciò che restava del vento gelido ora cullava il silenzio all'interno dell'abitacolo, nel quale Elijah e Benjamin sedevano uno di fronte all'altro: il maggiordomo scaltro scrutava attento il suo padrone taciturno, prediligendo con cura le prossime parole da dire. Elijah non era un tipo con il quale intrattenere una semplice conversazione. Con lui, gli sprechi fugaci di pensiero non erano tollerati in alcun modo.

«Signore, posso congratularmi con lei per la sua lodevole condotta? È ammirevole il modo in cui sostiene quel ragazzino» esordì Benjamin, con astuta compostezza. La sua diligente posizione gli impediva di proferire parole che non fossero elogi o importanti comunicati lavorativi e il suo padrone lo sapeva. Ma negli anni, Benjamin, aveva scaltramente imparato a conquistare la stima e il rispetto di Elijah, che ora lo sbirciava da sotto le ciglia folte e corvine: il suo padrone sorrise dopo un incomprensibile borbottio.
«Tu pensi, caro mio?» domandò.

«Ne sono assolutamente convinto signore. La sua condotta è a dir poco lodevole» confermò il domestico dai modi sicuri.

Elijah, che che fino ad allora era rimasto quieto nel salvare le dovute apparenze, si sporse in avanti: i suoi occhi beffardi, derisero quelle insulse affermazioni pur restando in un momentaneo silenzio.

«L'unica cosa meritevole di encomio, mio caro Benjamin, è la pazienza che dimostro con quel dannato ragazzino», mormorò Elijah, con evidente disdegno.

Accettare quell'assurda realtà, comportava ad ammettere un qualche tipo d'affetto per la personificazione dei suoi più grandi fallimenti. Era come se la sola presenza di Thomàs destabilizzasse ogni suo tentativo di mantenere il controllo, persino il suo nome bastava a procurargli una morsa di fastidio allo stomaco. Tutto ciò che amava era andato perduto, probabilmente per sempre e questo bastava a infliggergli sufficiente dolore, senza che un diciassettenne dai capelli corvini come i suoi e occhi pari a cubetti di ghiaccio, servisse a rigirare il coltello nella piaga!

Benjamin osservò Elijah senza emettere alcun fiato: nonostante dentro fosse un fermento di indignazione, non replicò. La sua ammirevole devozione per quell'uomo burbero e selvaggio, accantonava il suo sdegno riguardo al linguaggio irrispettoso e scurrile che Elijah usava in più occasioni. Soprattutto quando si trattava del giovane Thomàs. Quell'orfanello non meritava di certo un disprezzo così immotivato.

Tuttavia, adesso non aveva il tempo per soffermarsi sugli effetti della sua condotta superficiale. Doveva occuparsi del suo rispettabile padrone di casa, che ora lo scrutava con non curanza. Elijah sistemò nuovamente la sua postura, poggiando il peso allo schienale dell'auto. Un ghigno beffardo storpiò l'aura imperiale che lo avvolgeva, come un sovrano derisorio e mordace. Un re dall'alto spicco sociale, disumano e oltremodo irraggiungibile.

***

Isabel entrò cauta in classe dopo essersi preparata alla meno peggio. Quella mattina aveva tardato il suo arrivo a causa
dell'auto mal funzionante e del tè bollente che le aveva scottato la bocca. Le era sembrato che ogni cosa avesse cospirando contro di lei. Posò la cartella sul tavolo, ma tenne la borsa con sé, poi salutò i suoi alunni già seduti nei i banchi: alcuni risposero con entusiasmo, altri invece, rimasero indifferenti. Tipico dei giovani che si avvicinano ai primi albori dell'adolescenza. Isabel non ci faceva più caso; ormai aveva imparato a convivere con quel comportamento mutevole.

Non avendo fatto colazione, il suo stomaco ci mise meno di un minuto a protestare. Aveva perlomeno bisogno di un caffè per affrontare una giornata così stressante. «Ragazzi, non muovetevi, arrivo tra un minuto!» esclamò, mentre si avviava verso il corridoio. Ma ad aspettarla poco fuori dall'uscio c'era Melissa, una delle insegnanti che aveva tenuto la classe sott'occhio durante la sua assenza.

Melissa era l'archetipo della "so tutto io" della scuola: indossava sempre le solite décolleté blu, dei cardigan tutti bianchi e bizzarre gonne a campana che le davano un'aria un po' goffa. E quella mattina non fece eccezione. I suoi tacchi battevano ritmicamente sul pavimento mentre, con le braccia conserte e uno sguardo perentorio, le sbarrava la strada.

«Sei arrivata finalmente! È tutta la mattina che provo a chiamarti,» esclamò lei, palesando tutta la sua irritazione.

«Buongiorno anche a te, Melissa,» rispose Isabel con un sorriso forzato. «Mi dispiace per il ritardo; temo di aver perso la cognizione del tempo. Non succederà più.»

«La mia supplenza è finita circa mezz'ora fa, Isabel. Pensi che le tue scuse mi ridaranno il tempo perso?» continuò Melissa, volendola provocare, mentre i suoi occhi castani la scrutavano con disprezzo. Ogni dettaglio di Isabel la infastidiva: il suo abbigliamento raffinato, l'abito che le aderiva al corpo sinuoso e slanciato; l'aria da donzella indifesa che sembrava attrarre gli uomini come mosche sul marciume; o la sua totale "indifferenza" verso il tempo altrui. Ogni aspetto della sua persona era per Melissa un fastidio insopportabile.

Isabel dovette contare fino a dieci per evitare di mandarla al diavolo. Si accorse quasi subito del modo apatico con cui la stava "esaminando", ma decise di ignorarla. Non era lei il problema, e non valeva certo la pena sprecare energie per una persona del genere. Quella maledetta arpia era nota per la sua natura irritante e per il modo in cui sembrava trovare difetti in tutto e tutti.

«Magari potresti recuperare il tempo perso adesso, non trovi?» Isabel cercò di mantenere un tono cordiale, sperando che bastasse per liberarsene. «Ci sono tante altre classi da supervisionare, non vorrei trattenerti oltre.» Odiava il modo in cui Melissa osava rivolgersi a lei. Non c'era alcun rispetto nelle loro conversazioni. Solo insulti taciuti dalla più finta delle decenze.

Melissa la guardò con un sorrisetto forzato, assottigliando le labbra come se stesse trattenendo un commento acido. «Già, lo penso anch'io. L'ozio sembra dilagare da queste parti, meglio non venirne a contatto.»

La donna raccolse le sue cose dalla cattedra, decisa a uscire dalla stanza, ma non senza prendersi la sua piccola rivincita. Mentre passava accanto a Isabel, le diede una spallata, non abbastanza forte da sembrare intenzionale, ma sufficiente a farle perdere l'equilibrio e far cadere la borsa dalla sua spalla. Il suono sordo del cuoio che colpiva il pavimento ruppe il silenzio della classe, attirando l'attenzione degli studenti. Tutti gli occhi si spostarono su Isabel, alcuni sorpresi, altri divertiti, mentre Melissa, senza degnarla di alcun aiuto, ancheggiava via compiaciuta.

«Ops, temo che il contagio sia già avvenuto» ridacchiò la bruna, voltandosi per godersi il volto rammaricato di Isabel che, china a raccogliere i fogli sparsi sul pavimento, tratteneva a stento la voglia di assassinarla. Melissa era sempre stata una delle sue più acerrime nemiche all'interno della scuola, fin dal suo primo giorno, in realtà. Isabel non aveva mai capito tutto quell'odio inspiegabile.

Isabel dovette trattenersi, appellarsi a tutte le sue forze per rimanere dov'era: avrebbe voluto alzarsi e fronteggiarla, magari trascinarla in bagno e ripagarla con la stessa moneta, ma non sarebbe servito a niente, se non a farla licenziare. La sua cattedra contava più di tutto il resto, anche e soprattutto per l'assurda metodicità con la quale l'aveva ottenuta: quel lavoro prestigioso le era costato decine di notti insonni e patetiche dimostrazioni legate al suo decoro personale. Nessuno voleva assumere una donna di una bellezza così "sfacciata".

Il suo aspetto "indecoroso", secondo molteplici opinioni, non era adatto a un ambiente lavorativo così complesso. Eppure Isabel, grazie ad argute capacità eclettiche e intellettuali, seppe dimostrare al meglio il suo valore, abbattendo quel muro che ingombrava il suo cammino.

Una magra consolazione che continuava a rincuorarla!

Sospirò, radunando gli ultimi fogli all'interno della borsa, quando una mano si posò prudente sulla sua spalla: un ragazzino dagli occhi azzurri e zaino in spalla, la guardava con disappunto. Il suo viso delicato era ora abbattuto dalla vista della sua insegnante preferita, china a raccogliere i brandelli della sua dignità calpestata.
«Maestra è tutto apposto?» domandò il moretto, osservando il modo in cui i fogli venivano riposti con cura all'interno della borsa.

Isabel annuì. «Ma certo che sì, Thomas. Le maestre sanno essere davvero sbadate a volte», si affrettò a dire. Con sobria eleganza si rialzò, scrollandosi dalla gonna i residui di polvere. Si costrinse a calmarsi, spingendo in un angolo della mente la sua "sete" di vendetta. Non voleva certo riversare i suoi problemi sul giovane Thomas, uno degli studenti più brillanti della scuola media, che ora la osservava sollevato.

«Posso capirlo. A dire il vero, credo di esserlo sempre anch'io» disse lui, ridacchiando. Il suo volto si illuminò nel rivederla di nuovo serena e sorridente.

«Ti sbagli, sono sicura del contrario Thómas. Un allievo bravo e intelligente come te può essere tutto tranne che sbadato. E anche se lo fossi, ciò ti renderebbe più umano e apprezzabile di tanti altri. I difetti sono ciò che ci rendono speciali» si affrettò a rincuorarlo.

«Quindi, la maestra Melissa sarebbe speciale?» chiese Thomas, scaltramente.

Touchè.

Isabel sembrò in difficoltà, ma in maniera buffa. «Diciamo che alcuni mostrano il loro potenziale in modi...meno apprezzabili di altri, ecco.»

Thomas annuì, stringendo al petto la sua cartella bianca.
Le sue guance, solitamente pallide, erano ora di un rosso intenso mentre si preparava a condividere un pensiero.
«Se può farla stare meglio, lei lo dimostra in maniera eccellente, maestra. A volte non ho voglia di venire a scuola, ma quando so di avere lezione con lei, l'idea mi piace molto di più», ammise con timidezza.

Isabel abbozzò un sorriso, inclinando leggermente la testa.
Si sforzò di non dare troppo peso ai meriti lusinghieri.
Il ragazzino l'aveva un po' spiazzata.
«Grazie, Thomas. Ma perché non ti va di venire a scuola?»

Thomas abbassò le spalle e chinò lo sguardo, aumentando la presa sulla sua cartella bianca come se potesse proteggerlo da ciò che stava per dire. «Mio zio...» mormorò, «lui dice che sono stupido.»

Isabel aggrottò la fronte. Quell'avvilente ammissione aleggiò nel suo petto come piombo invisibile, tanto che, per un istante, si chiese se non l'avesse immaginata. «Perché mai direbbe una cosa del genere?» chiese, avvicinandosi per consolarlo, ma Thomas non ebbe il tempo di rispondere.

La porta d'ingresso in fondo al corridoio si spalancò con un tonfo, spezzando il brusio degli alunni e delle maestre. Un silenzio improvviso e pesante si diffuse lungo i corridoi, simile a un sipario calato troppo in fretta. L'atmosfera vivace della scuola si spense, schiacciata da una tensione palpabile, quasi elettrica, come l'inquietudine che si insinua nei momenti più inaspettati.

Isabel si girò di scatto. Il suo sguardo confuso e colto alla sprovvista, osservò una figura imporsi all'entrata: un uomo la cui bellezza diabolica e alterigia si facevano notare come un'impronta indelebile nel marmo. Elijah avanzava con passi misurati, consapevole che ogni suo movimento catturava l'attenzione dei presenti. Non aveva mai amato attirare occhiate così indiscrete, ma sapeva che evitarle era impossibile. La pessima reputazione dei Brown lo precedeva ovunque andasse.

Era un'ombra ineludibile.

La bionda fece un passo avanti, nel tentativo di studiarlo con più accuratezza. "Chi diavolo è?" si chiese. Non lo aveva mai visto, eppure, a giudicare dai visi attoniti e riverenti degli altri, doveva essere un personaggio di un certo calibro. Forse un senatore? Un politico? Scosse debolmente la testa, non riuscendo a dare una risposta alle sue ipotesi.

Un attimo dopo, il suo sguardo attento danzò sul corpo dell'uomo, forse per trarre qualche informazione in più: Elijah indossava una giacca scura, tagliata con maestria per esaltare la sua figura imponente: le spalle larghe e possenti, il petto scolpito. La cravatta, perfettamente annodata, scivolava con precisione sotto l'ampio colletto di una camicia bianca che, sebbene semplice, si tendeva leggermente sul torace robusto, evidenziando la sua muscolatura senza eccessi.

I pantaloni sartoriali, cuciti su misura, si adattavano con eleganza alle sue gambe vigorose, tracciandone le linee con una discreta enfasi. L'intero abbigliamento, seppur sobrio nei colori, sembrava studiato per amplificare il carisma magnetico che lo avvolgeva, rendendo impossibile ignorarlo.

Ma ciò che davvero colpiva erano i suoi occhi: freddi come zaffiri, un blu profondo e magnetico che ricordava l'oscurità insondabile di un abisso appena sfiorato dalla luce di un lampo. Al suo seguito, un uomo dall'andatura composta e impeccabile, il cui ghigno sottile e quasi impercettibile suggeriva un'intesa segreta con il padrone della scena.

Ogni loro passo, ogni gesto, era una dichiarazione di dominio e superiorità.

Isabel avrebbe potuto perfino trovarlo affascinante, se non fosse stato per il terrore che i due avevano seminato lungo il corridoio. Le donne abbassavano la testa, fissando il pavimento, quasi come se temessero di andare incontro a qualche sorta di punizione, mentre gli studenti, immobili e confusi, l'osservavano intimiditi.

Elijah aveva diviso il corridoio in due fazioni e ci stava passando in mezzo con un'aria beffarda, a tratti fastidiosa, incurante della platea atterrita che lasciava alle sue spalle. Sembrava che nulla potesse toccarlo, come se la sua superiore indifferenza lo isolasse da quel piccolo mondo.

Isabel aggrottò la fronte, ferma anch'essa accanto al muro.
Continuava a porsi molte domande, ma senza ottenere risposte. L'unica certezza che aveva era la voglia di scoprirne di più su quell'uomo misterioso, che ora si dirigeva verso una destinazione a lei ignota.

A differenza degli altri, Isabel non voleva abbassare lo sguardo. Al contrario, sentiva l'impulso di conoscerlo, di fronteggiarlo, persino sfidarlo: qualcosa in lei desiderava abbattere quella spavalderia insopportabile che sembrava permeare ogni parte del suo corpo. Non sapeva esattamente perché, forse era per il caos che la sua presenza aveva portato nella scuola, o per la deferenza con cui tutti tacevano al suo passaggio, come intimiditi dalla sua importanza.

Non non aveva idea. Ma sapeva che aveva bisogno di un buon motivo per aizzarsi contro di lui. Un motivo che Thomas, ora nascosto dietro la sua figura snella, le avrebbe servito inconsciamente su un piatto d'argento...

«È lui,» sussurrò Thomas, con un filo di voce.
«È lui mio zio.»

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro