30. Scoperto?

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Il momento era arrivato, ma lui non era pronto. Non l'aveva deciso, non si era preparato abbastanza.

Il venerdì era tornato a casa dopo essere stato al campetto con Elia e si era messo a letto saltando la cena. Il trattamento riservatogli dai suoi compagni di classe lo sfiniva e per quanto Elia fosse la sua luce in mezzo a tutto quel buio, una volta solo, Luca tornava a sentirsi avvolto dalle ombre. Elia stesso se ne era accorto e l'aveva portato a conoscere una psicologa. Gli aveva detto che non era un caso così disperato e il pomeriggio aveva preso una piega piacevole (almeno fino a quel dannato lucchetto), ma il ricordo di quelle parole tornava a tormentarlo.

Hai tantissime cose da elaborare e vai in pezzi così facilmente che a volte non so come prenderti, per paura di romperti.
Stai avendo un attacco di panico e io non so come aiutarti.

Rintanarsi nel letto e dormire a volte gli sembrava l'unico modo per mettere a tacere il groviglio di voci nella sua testa, compresa la sua. C'erano giorni in cui aveva voglia di urlare, di fare tacere i mantra che si ripeteva per convincersi che sarebbe andato tutto bene, gli echi delle frasi sprezzanti di suo padre, del nonno, di Matteo, di Yuri, quelle dolci ma vuote della madre e persino le frasi rassicuranti di Elia e Rebecca. Non voleva sentire più niente. E quando nemmeno fare due tiri a canestro e stancarsi fino allo stremo, né altre parole, quelle scritte e stampate, riuscivano a prendere il posto di tutte quelle voci, spegnere il cervello era l'unica soluzione. Di solito era così stanco di reggersi in piedi che crollava dopo pochi minuti, accompagnato dal suono delle fusa di Martin Eden. Quel venerdì non aveva fatto eccezione. Si era infilato in un letto che avrebbe dovuto avere ancora l'odore di Elia, ma che in realtà sapeva solo di pulito, e in pochi minuti era scivolato in quello stato di grazia che è l'assenza di pensieri che precede il sonno. Poteva avvertire l'esatto momento in cui tutto si spegneva, lasciando il posto a una gran pace. Era solo un secondo, poiché l'istante dopo già dormiva. Ma quel singolo istante, che aveva molto in comune con la sensazione provata dopo un orgasmo, o una piccola morte, Luca si sentiva leggero e felice.

Il risveglio, però, non era mai idilliaco come l'addormentarsi. Per prima cosa la sua vita non era magicamente cambiata mentre era a letto. Poi, come se questo non bastasse, doveva rendere conto del perché aveva dormito così tanto. C'era qualcosa che non andava? Problemi a scuola, con i compagni, con le ragazze, qualcosa di cui volesse parlare? Erano tutte domande sane poste da genitori sani, sulla carta. Ma nel suo mondo di manichini le risposte dovevano essere omologate alle aspettative di chi le poneva, non avrebbe potuto rispondere in modo sincero. Questo rendeva tutto ancora più doloroso di un silenzio privo di domande, che a volte, si augurava.

Quando si svegliò era già sabato mattina, Martin Eden reclamava cibo e dal piano di sopra provenivano i suoni ovattati della musica che ascoltava Matteo quando si allenava. Si tirò su e controllò il cellulare. Lo schermo era rotto, aveva una bella riga da un angolo all'altro, in diagonale, ma stranamente funzionava ancora. Aveva un paio di messaggi non letti di Elia, che aprì subito e a cui rispose sorridendo.

"Il libro che mi hai prestato è davvero deprimente". Diceva il primo.

"Spero che questo Stoner farà qualcosa di figo da qui alla fine, altrimenti te lo do in testa."

Elia non l'aveva detto tanto per dire, voleva davvero conoscere i libri che più aveva amato Luca, ed era bello che lo facesse a modo suo, commentando così.

"Non posso fare spoiler" rispose prima di rimettere il telefono sul comodino. Sicuramente Elia stava ancora dormendo, non avrebbe dato seguito a quel messaggio tanto presto.

Dopo una doccia scese a fare colazione e trovò sua madre intenta a preparare il pranzo. Lei gli andò incontro e gli diede un bacio sulla guancia, come faceva sempre quando si salutavano. Poi però iniziò l'interrogatorio.

«Stai bene, amore?»

«Sì mamma, sto bene.»

«Ultimamente capita spesso che ti chiudi in camera e salti la cena.» Aveva forse tenuto il conto?

«Sono solo molto stanco.» "Di vivere", pensò senza osare aggiungerlo. «Lo sai. Il basket, la scuola, papà che mi sta addosso con la storia dell'Università, i compagni che sono quello che sono.»

«Cos'è successo con i tuoi compagni?»

«Ho litigato con Yuri e loro si sono schierati.» buttò fuori una semi-verità mentre prendeva uno yogurt dal frigo.

«Lo so questo, avete anche fatto a botte, ma credevo che poi aveste chiarito, al campetto. Hai detto così, quella sera quando sei rientrato.»

«Lo credevo anche io, ma non abbiamo risolto. E il campetto ora è chiuso, ha messo un lucchetto. Visto che non ci alleneremo più insieme e che pensa che giocheremo in due squadre avversarie, ha deciso così.»

«Ma è una cosa orribile.»

«È quello che è.»

«Però è strano. Non è da lui. Che cosa è successo per arrivare a questo punto. Che cosa hai fatto?»

Che cosa ho fatto io? Se dicessi che non ho fatto assolutamente nulla mi crederesti?

«Non lo so, mamma. Sono cose nostre, ok? Ti sto solo spiegando perché sono stanco. Questo litigio mi sfianca, oltre ai pensieri che ho già. Ma è solo questo, una volta diplomato le cose andranno meglio, mi sarò tolto un po' di pesi.»

«Va bene.» Sua madre si mise a fare il caffè, dandogli le spalle, poi sempre di spalle aggiunse: «Comunque stasera ho invitato a cena una persona. Penso che potreste fare due chiacchiere.»

«Chi è?» Improvvisamente il suo yogurt gli sembrò avvelenato, persino la voce di sua madre suonava inquietante ed era una sua impressione o i bassi provenienti dalla mansarda suonavano una marcia funebre?

«È una persona che ho contattato tramite la Parrocchia. Puoi vederlo come un consulente familiare.»

«Uno psicologo?»

Sua madre continuava a dargli le spalle.

Non hai nemmeno il coraggio di guardarmi in faccia mentre cerchi di mettermi nella trappola che avete organizzato?

Aspettò la risposta, che però non arrivò, e nella testa ripresero a parlargli altre voci, da lontano, dal passato.

Sono bloccato.

Si accorse che stava piangendo quando vide gocciolare sulla sua colazione.

Mi sono perso.

Ricordava tutto di quel biglietto, Yuri glielo aveva fatto vedere una sola volta. Lui l'aveva preso con delicatezza, come se stringerlo troppo forte avrebbe rovinato la memoria di Gabri.

Sono bloccato. Non riesco più a sentirmi me stesso, ma non riesco nemmeno ad essere quello che dovrei. Mi sono perso. Ma vi voglio bene, questo non cambia. Quindi vi chiedo scusa se soffrirete. Mi dispiace.

Anche lui era bloccato. Per un attimo pensò che sarebbe stato dolce e liberatorio lasciarsi andare come si era lasciato andare Gabri. Ma poi tornò alla realtà e alla promessa che aveva fatto quel giorno, con quel biglietto in mano, a sé stesso e alla memoria del suo amico: lui non si sarebbe perso, avrebbe lottato. Tutta la stanchezza del mondo non sarebbe bastata per spegnerlo. E alla fine non si sarebbe nemmeno scusato.

Quindi, non l'aveva deciso, non si era preparato abbastanza. Il momento era arrivato, ma in realtà lui era già pronto, da diverso tempo.

«Mamma, non mi serve parlare con qualcuno. Sono gay.» Giurò che il tempo si fosse fermato, perché anche sua madre restò immobile, come congelata in quell'istante. Avrebbe voluto dirlo guardando il suo viso, non la sua nuca, ma ormai era fatta.

Sua madre sospirò. «Lo so. Lo so cosa credi di essere, ma non è così.»

Lo sapeva? Da quando? Glielo aveva detto Matteo? Allontanò la sua colazione da sé e appoggiò i gomiti sul tavolo, per coprirsi la faccia e asciugarsi qualche lacrima. Ma per quante ne tirasse via, ne venivano di nuove, senza sosta. «Mamma, è così. Sono innamorato di un ragazzo» singhiozzò quasi.

Solo allora sua madre si voltò verso di lui. «Non puoi parlare di amore. Sono cose che tra i ragazzi della vostra generazione capitano. La sperimentazione, le influenze dei media, la confusione sui generi e i ruoli. Mi sono informata, ho letto dei libri a riguardo. Credi che sia amore, ma non è così. Ne possiamo parlare, però. Il dottor Porta verrà qui per questo.»

«Quindi tu sai cosa provo io perché lo hai letto in dei libri? E poi, da quanto lo sai?»

Da quanto mi hai fatto portare questo peso da solo, in questa casa ,mentre leggevi dei cazzo di libri scritti da qualche pazzo scellerato convinto di potermi "sistemare"?

«Non è importante.»

«Sì, invece. È importante per me. Dimmelo, per favore.»

«Credo di averlo capito da qualche mese, ma ieri ho avuto la conferma, quando ti ho visto con quel ragazzo.»

«Non abbiamo fatto o detto nulla di strano!» Difese subito sé stesso ed Elia.

«Si vedeva da come lo guardavi, Luca. Da come ti veniva da ridere mentre parlava.»

Quindi, alla fine, era davvero colpa sua. Si era fatto beccare, proprio come Gabri. Aveva portato "il nemico" in casa, era bastata una sola volta per farsi scoprire. Era stato così stupido! Così incosciente! Aveva tenuto la guarda alta per tutta la vita, perché aveva commesso quell'errore?

Perché volevo. Volevo portarlo a casa, volevo conoscesse il mio gatto, volevo fare l'amore con lui sul mio letto.

«Papà lo sa? Il nonno?»

«No, lo so solo io.»

«Allora puoi chiamare il tuo amico consulente o quello che è dirgli di non venire. Non ho niente da dirgli, a meno che non venga per voi, per aiutarvi ad accettare la cosa, può pure restarsene a casa.» Cercava di essere categorico, ma sentiva anche lui quanto gli stesse tremando la voce.

«Una sola chiacchierata non può fare male. Che ti costa?»

«Può fare male eccome, può essere l'inizio di qualcosa di molto brutto. Mamma, te lo dico subito, io non voglio fare la fine di Gabriele. Se stasera viene questa persona si innescherà una serie di eventi che portano lì.»

«Non dire assurdità. A te non può capitare. Ci siamo noi con te, ti sosterremo come si deve, non ti lasceremo solo. Non permetterò mai che ti succeda nulla di male.» Provò ad avvicinarsi a lui e a prendergli la mano, ma Luca si scostò e si alzò di scatto. Improvvisamente l'aria nella stanza non era più sufficiente per entrambi, sembrava che sua madre la stesse risucchiando tutta volontariamente, per lasciarlo senza ossigeno, stordito e incapace di difendersi.

«Mamma te lo sto dicendo seriamente. Se ci sarà lui stasera, non ci sarò io. E se io ci non ci sarò significa che sarò andato via. E con via intendo proprio via, me ne vado e non torno. È questo che vuoi? Non vuoi più rivedermi?»

«E dove andrai?»

Sono bloccato.

Ancora non lo so. Mi serviva più tempo, non so che fare.

«Ho già chi mi può ospitare» mentì.

«Quel ragazzo?»

Per un attimo pensò a quell'eventualità. Elia lo avrebbe ospitato? Era il suo ragazzo, l'aveva detto lui. Ma da lì a metterselo in casa ce ne passava! Mai come in quel momento aveva avuto bisogno del sostegno di Yuri. Aveva un piano migliore del suo, prima di tutto. Aveva risparmiato abbastanza soldi al di fuori dal controllo dei suoi genitori, da essere in grado di trovare una sistemazione in qualsiasi momento. Non era d'accordo sulle modalità con cui aveva ottenuto quei soldi, e inizialmente gli era sembrato così assurdo che non aveva nemmeno creduto al racconto di Rebecca, eppure ora li avrebbe accettati, come aiuto. In fondo servivano a quello, ad andarsene e iniziare un nuovo capitolo delle loro vite, insieme, tutti e tre, fuori dall'ombra dei loro genitori ingombranti. Ma Yuri non lo avrebbe mai aiutato allo stato attuale, anzi: probabilmente avrebbe infierito, gli avrebbe detto che era colpa sua, che lui lo aveva avvertito in tutti i modi e che ora avrebbe dovuto cavarsela da solo. Rebecca, però? Lei avrebbe potuto aiutarlo? Sì, ma non avrebbe mai potuto nascondersi da lei, sicuramente casa sua sarebbe stato il primo posto in cui lo avrebbero cercato.

«Può essere.» Restò vago, ma l'idea di chiedere ospitalità a Elia, anche solo per un paio di giorni, il tempo di organizzarsi meglio, iniziava a farsi concreta. Si era offerto di tenergli dei libri e degli effetti personali, ma non aveva mai parlato di farlo stare da lui.

Ma il gatto no. Non sembra che io gli piaccia molto.

Il pensiero di Martin Eden gli contorse lo stomaco e temette che da un momento all'altro avrebbe vomitato il poco yogurt che aveva mangiato. Come avrebbe fatto, con lui? Provò a fare mente locale per ricordarsi di dove fosse il suo trasportino, ma non riusciva a visualizzare niente se non il suo gatto libero e randagio, perso anche lui. Non avrebbe mai trovato un posto adatto anche a lui, non così su due piedi. Ma se lo avesse lasciato a casa con l'intenzione di prenderlo con sé appena trovata una sistemazione, lo avrebbero nutrito nel frattempo? Qualcuno in quella casa sapeva cambiare il filtro della fontanella dell'acqua? O che d'estate dovevano lasciare libero il tavolino con il top in vetro e metterlo davanti alla finestra perché a lui piaceva stendersi lì a prendere il fresco?

In estate sarà già con me. Si tratta solo di qualche giorno. Cambierò il filtro prima di andare via, cambierò la lettiera e tornerò a prenderlo prima che si accorga della mia assenza, come se fossi in gita.

Ma il cibo? Chi gli avrebbe dato l'umido? Pensò di chiederlo alla madre, ma sapeva che lei avrebbe usato l'argomento come arma di ricatto nei suoi confronti per farlo restare. Non gli restava che suo fratello. «Adesso non ho più voglia di discutere, ho mal di testa. Ne parleremo più tardi» tagliò corto sperando che funzionasse. «Intanto non dire niente a papà, va bene?»

«Glielo diremo insieme, a cena. Tutti insieme.» E con quel "tutti insieme" Luca sapeva che la madre aveva incluso anche l'invitato speciale che, nonostante le sue proteste, sarebbe stato presente.

Salì le scale con il fiato spezzato, due gradini alla volta, e una volta in camera si chiuse dentro. Con mani tremanti recuperò il telefono. L'indecisione lo bloccò qualche secondo, poi chiuse gli occhi, fece tre respiri profondi per calmarsi, riaprì gli occhi e andò alla R.

Rebecca rispose dopo quattro squilli. «È molto presto. Spero sia importante.»

«Lo è.»

«Che succede?»

«Ho bisogno di aiuto, Rebe.» Cercò di parlare piano per non farsi sentire e contemporaneamente trattenere di nuovo le lacrime, almeno per quella telefonata. «Devo andarmene oggi.»

«Oh, wow.» Dopodiché la ragazza non disse altro e Luca pensò che il telefono fosse rotto del tutto.

«Rebe, ci sei?»

«Sì, scusa. Solo, non ero pronta. Immagino nemmeno tu, abbiamo sempre parlato di farlo dopo il diploma e adesso praticamente non abbiamo un piano B, C, D, insomma, dobbiamo un po' improvvisare e questa cosa mi sta mandando in crisi. Non saprei cosa fare, concretamente non posso fare niente, devo un attimo capire cosa sta succedendo e cosa si può fare.»

«Rebe.» Luca la richiamò, semplicemente. «Oggi.» Luca sapeva che il fiume di parole che spesso investiva la sua testa nei momenti delicati, per lei si trasformava nello stesso fiume, ma pronunciato a voce. Avrebbe voluto lasciarle il tempo di elaborare il tutto, ma non ne avevano.

«Ok, ci sono, scusami» rispose lei, tornata lucida. «Dimmi cosa devo fare.» 

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