Federico

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Attenzione: Nel seguente capitolo sono presenti riferimenti espliciti a omofobia, depressione, Disturbo Alimentare e Disturbo Ossessivo Compulsivo. Questi contenuti potrebbero non essere adatti per alcuni di voi.

Stanotte non ho chiuso occhio. Continua a bruciarmi lo stomaco da giorni ormai. Mi martella nella pancia una sensazione che non capisco, so solo che è estremamente fastidiosa. È come se avessi fatto un grave errore. Come se invece di rimediare allo sbaglio stessi continuando a fare cazzate.
Ho tentato di distrarmi con un po' di musica, ma ho solo peggiorato la situazione aumentando il disagio. Per qualche motivo non so più apprezzare una delle mie cose preferite in assoluto, merda.

Non mangio nulla per colazione. Mamma non c'è. Ha lasciato un post-it sul tavolo della cucina corredato da un piccolo cuoricino dopo l'ultima parola.
Lasagna al pesto in forno, spero ti piaccia! Ti voglio bene.
Abbozzo un tiepido sorriso. Certo che mi piace, è uno dei miei piatti preferito... era.
Non sto mangiando molto ultimamente, non è che non voglio, è che è troppo... non ci riesco.

Giulio ha visualizzato il messaggio, nessuna risposta.
Forse ha da fare, forse ho sbagliato le parole che ho usato, forse ho scritto troppo, forse non sono abbastanza.

All'ingresso della scuola non c'è, in compenso vedo Michele. I nostri occhi si incontrano per un attimo e lo stomaco mi si contorce così violentemente che rischio di vomitare quello che non ho mangiato.

Non so spiegare bene cosa sia successo tra noi. Inizialmente le sue raccomandazioni in merito a Giulio mi sembravano cavolate, le ignoravo. Poi il suo eccesso di apprensione ha cominciato a infastidirmi, ho pensato che fosse geloso di quello che stavo costruendo con una persona che non fosse lui e che pensasse che non sapessi badare a me stesso, e Giulio sosteneva la mia tesi.
Ora non sono più sicuro che fosse così, in realtà non lo ero nemmeno prima, so solo che mi manca e al tempo stesso mi fa incazzare.
Ma ho l'impressione però che non sia nei confronti di Michele tutta questa frustrazione.

Guardo fuori dalla finestra reggendomi la testa con una mano. La sedia del mio banco è scomoda, la classe è scomoda, la situazione con Michele è scomoda.
Sono l'unico a scuola a sapere del suo disturbo, non posso capirlo del tutto, è veramente un casino, ma potrei essere l'unica persona con cui riesce a confidarsi.
È ancora a pezzi per la morte di sua madre. È forte, resiste, cerca di non darlo troppo a vedere, ma lo conosco abbastanza bene da notare le sue cicatrici, le sue crepe, che sono un po' anche le mie.
E invece di stargli vicino cosa faccio? Lo guardo di sbieco e non gli parlo.
Quanto vorrei che fosse lui a provarci, ma capisco perché non lo faccia: sa che non lo ascolterò, e il problema è che ha ragione.
Sento di avere torto e al tempo stesso di stare facendo scelte difficili ma che con il tempo mi ripagheranno.
Sicuramente c'entra anche l'orgoglio, l'averla vinta... o almeno prima era così, anzi mi imponevo che lo fosse. Adesso quando lascio scorrere i pensieri senza costrizioni, mi pare tutto un'enorme cazzata.

Tempo fa ha allontanato il suo banco dal mio per un lavoro di gruppo e non l'ha più riavvicinato, mi sono sentito sprofondare per almeno dieci minuti buoni.
Il resto della settimana sono rimasto a casa.

«Ciao.»
Giulio è al solito posto, sotto la scala di metallo nell'angolo del cortile, stranamente solo. Il che è un bene visto che se ci sono i suoi compari o non mi coinvolge minimamente nei discorsi oppure mi rende il bersaglio di tutte le frecciatine possibili e immaginabili.
Prima ci ridevo anch'io, dopotutto scherzavano no? Adesso le battutine sono diventate prese in giro e insulti nemmeno troppo velati, e allora ho smesso di ridere. Forse però sono io che non colgo l'ironia...

Passa anzi passiamo tutti gli intervalli qui da quando stiamo insieme.
Cioè la cosa non è ufficiale, ma credo che stiamo insieme.
A lui non piacciono queste "puttanate da checche", così le chiama.

Muove a malapena la testa mentre la sigaretta gli traballa tra le labbra e i suoi occhi mi ghiacciano da capo a piedi, poi guarda altrove.
Non dice una parola, ultimamente fa così quando siamo soli, ma almeno non mi insulta.
Nemmeno un cenno al fatto che ieri sera se ne sia andato con una scusa che sembrava palesemente inventata sul momento.
Magari sono io che mi faccio i film, anche se non è la prima volta che fa una roba del genere.

«Ci vediamo stasera?»
«Come vuoi.»
«Basta che non mi pianti di nuovo nel bel mezzo della serata.»
Non volevo dirlo, mi è scappato... o forse no?
Giulio ridacchia e alza di nuovo lo sguardo su di me. Mi sento giudicato e immobile, come se venissi analizzato al microspio in un istante ogni volta che mi osserva.
«Dai Chicco, sai che non l'ho fatto apposta» sussurra con voce suadente.
Mi sfiora il braccio con il gomito e tanto mi basta per credergli come al solito o quantomeno per provarci.
«A stasera» dice accompagnato dal suono della campanella.
Si avvicina a Cesare dall'altra parte del cortile e si dilegua tra la folla.

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