Capitolo 16. Blinding Lights - The Weeknd

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"Hai ricevuto i miei regali?"

"Sì. Sono bellissimi."

"Avrei tanto voluto essere presente, quest'anno."

Strinsi forte il cellulare nella mano, per soffocare tutto quello che avrei voluto dirle. Sfogliai distrattamente la rivista che avevo sul tavolo, dove il volto di Nicla, immortalato per una pubblicità di un evento a teatro di cui lei era l'assoluta protagonista, illuminava l'intera pagina: gli occhi verdi penetranti fissi sull'obbiettivo, il naso pronunciato ma regolare e armonioso nel suo viso spigoloso, i capelli biondi raccolti all'indietro e una mano che poggiava morbida sul suo viso così angolare, magnetico, così distante. Chiusi di botto la rivista, dopo aver dato uno sguardo al titolo dell'articolo Con Nicla Rogers i biglietti sono già sold out a un mese dall'inizio della programmazione.

"Non importa, Nicla."

"Penso sempre a te, tesoro."

Si vede.

"Lo so."

"Abbi cura di te."

"Anche tu." La salutai con un groppo in gola, poi gettai il telefono sul divano, tra Kobe e Oreste, e mi diressi alla dispensa a cercare una bottiglia di vino.

Accesi la radio a tutto volume, e Don't let the sun go down on me invase la casa, con il bellissimo riff del pianoforte di Elton John e la voce delicata e calda di George Michael, mentre, seduta su uno sgabello, in bagno, davanti allo specchio, sciarpa azzurra sulla testa, controllavo e tiravo via con le pinzette i peli superflui sulle sopracciglia e sotto il naso, controllavo che il mio viso fosse perfetto.

Perfetto quanto il suo.

Non sapevo più che faccia avesse realmente. Non ricordavo più il suo odore. La consistenza della sua pelle. Conoscevo solo la sua voce. La sua voce era ovunque, sui mezzi pubblici, nelle sale d'attesa. Quella non avrei mai potuto dimenticarla.

Mi piaceva il mio viso. Non era una cosa di cui andare fieri a prescindere, o da raccontare in giro. Ma quando mi guardavo allo specchio, mi sentivo bene. Mi serviva.

Quando finì la canzone, quella sera fredda di gennaio, mi cantai un motivetto poggiando le labbra sullo specchio, lo stesso motivetto che avevo scritto tempo prima in negozio, a Grandi Sogni. Sollevandomi dritta con la schiena, provai a ritrovare l'ispirazione, srotolandomi la sciarpa davanti al viso, e camminando lentamente, a piedi nudi, verso il mio pianoforte, nella Stanza della Musica.

Con il velo azzurro sul viso addosso.

Alzai piano il coperchio, accarezzando i tasti centrali dolcemente, poi cominciai a suonare, dondolando la sciarpa a destra e a sinistra, e lasciandola scivolare a terra con noncuranza.

Poi il campanello.

Mi alzai di scatto, senza una parola, dirigendomi alla porta con il cuore in gola e soffiando sulla mano per testare il mio alito. Che sapeva un po' di vino. The Weeknd stava suonando Blinding Lights dalla cucina dove avevo lasciato accesa la radio.

Aspettai che suonasse una seconda volta, prima di aprire la porta con uno scatto e Dino era lì, le borse ancora a tracolla, la bocca che si stava allargando in un sorriso ma che ancora non riusciva a prendere fiato per parlarmi. Il neo che spuntava timido dal suo labbro nell'oscurità dell'atrio. Restai qualche istante a fissarlo, gli presi un lembo della giacca per tirarlo dentro casa e chiudergli la porta alle sue spalle. Non ricordavo che fosse così alto.

Non ricordavo che fosse così bello da togliere il fiato.

"Ciao..." mi sussurrò, togliendo delicatamente le borse dalle sue spalle e prendendomi il viso tra le sue mani freddissime.

"Cazzo!" esclamai prima che potesse baciarmi, sentendo sulla mia pelle quello sbalzo termico. "Sei congelato." Gli ripresi le mani, che nel frattempo Dino aveva ritratto, imbarazzato, e me le portai dietro il collo.

"Hai aperto il vino senza aspettarmi."

"Si chiama Scorbutico."

"Come te." Mi sorrise. "Sei ancora più bella di quando sono andato via, sai."

"Ora stai zitto. Basta parlare."

"Credevo ti piacessero i compli..." non fece in tempo a finire la frase che la mia bocca aveva raggiunto rapidamente la sua, morbida, fresca, che sapeva di tante cose buone. Resistetti alla tentazione di morderla, mentre sentii Dino rispondere al mio bacio, il respiro farsi più corto. Si staccò dalla mia bocca solo un attimo, solo quell'attimo fermo, per guardarmi negli occhi e chiudere, ad una ad una, tutte le finestre di formalità che gli si erano aperte in volto:

"Ok..." annuì.

Sentii le sue mani sfilarmi in un gesto la mia felpa bianca con la scritta P!nk in rosa fluo, e subito dopo sfilarsi giaccone e maglia pesante, buttandoli a terra senza riguardo, per tornare a percorrere il mio corpo, spingendomi forte contro il muro del corridoio. Mentre mi baciava il collo, assaggiandone tutti e due i lati, passando per il mio mento sollevato, lo sentii stringermi i fianchi, spingendoli contro di sé e fondendo i suoi respiri con i miei. Mentre mi reggevo a lui, le mie mani sui suoi capelli, la mia schiena grattava il muro e avanzò in avanti, fino a colpire il manubrio della bici, facendola cadere sul pavimento. Ma il rumore della bici caduta era un rumore lontano, ovattato, indistinguibile. In un attimo, ero a terra anch'io, Dino su di me, i nostri corpi uniti in un unico desiderio, fusi insieme. Ci volevamo nello stesso momento.

Io sono innamorata. Mi prese i polsi, spostandomeli sopra la testa e schiacciandoli contro il pavimento.

Sono solo ubriaca. Sentii la sua guancia contro la mia, strofinarsi sulla mia pelle al ritmo rapido che stava dando il suo corpo su di me, come le percussioni fisse e potenti di Taylor Hawkins.

* * *

"Sei arrabbiata. Chi ti ha fatto arrabbiare?" mi chiese Dino, guardandomi dal basso, qualche sigaretta dopo, sdraiato sul letto, con i piedi appoggiati dalla parte dei cuscini. Io, seduta per il lato giusto, appoggiata alla testiera, lo osservavo fumando un'altra sigaretta, schivando il fumo negli occhi.

"Non sono arrabbiata. Sono solo delusa."

"Che è successo?" Dino si sollevò con gli avambracci, indagando i miei occhi nella luce soffusa della camera. Gli passai la sigaretta intrecciando le mie dita con le sue.

"Ho litigato con i miei amici. Non mi va di parlarne." Scossi la testa, decisa a non ripensarci troppo.

"Si risolverà presto, ne sono sicuro."

"Non lo so, Dino."

Dino mi accarezzò distrattamente la coscia nuda, mentre mi parlava. Sollevò gli occhi sul soffitto, facendosi veramente serio. Fece un tiro, aspirando piano il fumo, prima di soffiarlo verso l'alto, allungando le labbra.

"Anche io ho litigato, sai? Per poco non do di matto in sala incisioni, dovevano sedarmi l'altro giorno."

"Hai litigato con Fabio?"

Dino annuì, girandosi su un fianco, verso di me. Il debole bagliore della lampada illuminava appena la chiara peluria delle sue spalle: "Sono stati Eddie e Bea a calmarmi. Ricardo era a flirtare con una fonica."

"Perché avete litigato?"

Dino mi sorrise, scuotendo la testa: "Non mi va di parlarne."

* * *

4 and 20 years ago

I come into this life

The son of a woman and a man

Who lived in strife

He was tired of being poor...

Le note di Crosby, Stills, Nash and Young risuonavano nella Stanza della Musica, e la voce di Dino riempiva le pareti con il suo timbro così unico: sporcato e ruvido, con delle sfumature vibrate che scaldavano il cuore.

Dino Olivares era l'ultimo di quattro. Due sorelle e un fratello più grandi che avevano lasciato la sua casa, poco prima che Dino cominciasse il liceo. Dino era sempre stato un cocco di mamma: il più piccolo, il più coccolato, ma soprattutto il meno controllato di tutti i suoi fratelli cresciuti prima di lui. La libertà di poter uscire all'ora che voleva, e rientrare, forse, sano e salvo a casa senza rigidi coprifuochi non gli aveva impedito tuttavia di assorbire i buoni valori e i buoni esempi che i suoi genitori gli mostravano ogni giorno, in qualsiasi gesto. Lui si sentiva amato, proprio perché lasciato sempre libero.

Gli Olivares erano stati una famiglia di lavoratori, la mamma impiegata contabile comunale e il papà ragioniere per il settore commerciale di un'azienda. Due signori che, mi raccontava Dino, erano ormai in pensione da tempo e dal cui sangue non aveva estratto nessun siero scientifico-tecnico che li accomunava. Non sapeva da chi avesse preso la sua vena artistica e creativa, a tratti disordinata, ma era grato ai suoi di avergli sempre permesso di esprimere se stesso attraverso la sua chitarra, pur non navigando nell'oro o in infinite possibilità economiche.

Scavando più a fondo, nel tempo che passavamo insieme, mi ritrovavo a scoprire un Dino polistrumentista, che amava suonare le percussioni, se la cavava al pianoforte, utilizzava le bacchette del sushi per ritmi più tropicali, soffiava dentro i colli di bottiglie di vetro vuote per intonare un motivetto famoso, il tutto con una naturalezza e una capacità magnetica che non ti scollava le orecchie da tutti i suoni che produceva. Aveva imparato tutto da solo e senza alcun esempio calzante in famiglia. Il suo era un vero e proprio talento da fuori classe che era stato capace di nutrire con tanto studio e volontà.

Non mi stupiva che Fabio lo avesse voluto fortemente come suo braccio destro nel gruppo. Si poteva criticare tutto di Fabio, ma non che non avesse gusto musicale, e fiuto per la chiave del successo.

La curiosità di conoscere i motivi del loro litigio era dura da tenere a bada.

Ero seduta a gambe incrociate sul panchetto del pianoforte, dando le spalle al mio strumento, mentre, nell'ascoltarlo, giocherellavo con la sua sciarpa azzurra, utilizzandola come una specie di mantellina.

"Vuoi provare?" Dino sollevò gli occhi, senza staccare le mani dalla sua chitarra, osservandomi, seduto a terra. Aveva solo un paio di jeans addosso, gli stessi del video, quelli strappati, pescati dalla borsa sotto mia tassativa richiesta e io impazzivo a vederlo così.

"Sì, ovvio."

"Vieni, allora." Mi fece cenno di sedermi davanti a lui, mentre si sfilava da dietro il collo la cinghia della chitarra, facendomi spazio fra lui e lo strumento. Mi circondò con le braccia, aiutandomi a posizionare le mani nei punti giusti, la sinistra sul manico e la destra sul corpo, sinuoso, che faceva da cassa di risonanza.

"Oddio, mi sono già persa." Buttai indietro la testa, contro il suo collo.

"No, è facile, guarda. Questo qui è il DO." Mi guidò le dita verso i tre tasti dell'accordo, mentre con l'altra mano mi circondava la destra per far vibrare le corde: "Fai così." Sentii il freddo dei suoi anelli a fascia larga sulle mie nocche e un brivido lungo la schiena.

"Ma sono tutti uguali, non me li ricorderò mai."

"Non è vero che sono tutti uguali." Ribatté con un tono comprensivo, come si fa con i bambini.

"Ma tu pensi davvero di possedere tutta questa pazienza con me?"

"Io ho sempre pazienza con te." Rimarcò, appoggiando il mento sulla mia clavicola e guardando la sua chitarra, le nostre mani intrecciate che suonavano a ritmi sregolati quell'accordo pieno di note strozzate.

"Prima o poi ti canterò una canzone con il solo accordo del DO. La chiamerò DO-lore." Sentenziai, fermando le dita, intrecciate alle sue, e ispirando l'odore della sua pelle, appiccicata a me.

"Che mi dici invece di questo?" sfilò il mio quaderno pentagrammato da sotto il sedere, parandomelo davanti agli occhi.

"Tu sei un ficcanaso. Ridammelo!" Feci per alzarmi, ma Dino mi aveva anticipato. Era scivolato all'indietro, mettendosi subito in piedi, e facendomi cadere di schiena, recuperando la sua chitarra con un gesto secco della mano e mettendola sdraiata nella sua custodia già aperta. Prese posto velocemente al panchetto, davanti alla tastiera del piano, e ci piazzò la pagina che avevo scritto in fretta e furia quel giorno in negozio.

"Togli subito le mani dal mio piano!"

"Allora..." si sfregò le mani, ignorandomi, e fissando le note scritte a penna, un po' cancellate e un po' scarabocchiate: "Devo purtroppo constatare che hai una pessima grafia."

Balzai in piedi, abbassandomi i pantaloncini che mi erano saliti fin dentro le natiche, e posando poi le mani sui fianchi, indispettita.

"Grazie."

"Prego. Che titolo gli diamo alla tua pagina di successo?" sfilò una penna dalla mia borsa a tracolla, finita in quella stanza chissà come, anche se un'idea ce l'avevo, e poi mi guardò, in attesa, con la mano appoggiata sulla parte alta del foglio.

"Non lo so." Alzai gli occhi al soffitto, cercando un titolo qualsiasi: "Direi...Emilia. Titolo: Emilia."

"Mh." Scrisse il mio nome a mo' di titolo sul foglio: "E-M-I-L-I-A. Un po' di ego ne abbiamo?" disse poi con una risata, confusa con la mia. Gli poggiai le mani sulla sua spalla nuda e tirata, mentre le sue dita cominciavano a battere sui tasti. Si strusciò le labbra con la mano, e riprovò.

"Sembra davvero carina, come inizio."

"Solo carina?" gli premetti la mano, spingendogli il palmo in alto: "Se continui a schiacciare sui tasti come si fa quando si schiacciano gli insetti sul balcone, il suono non esce. Vieni qua, impariamo le basi, toh. Guarda che mani piatte. Come le tieni male." Borbottai, sedendomi di nuovo davanti a lui, spingendo il mio sedere contro il suo corpo, in uno stridio di mattonelle, rigate sicuramente dalle zampe del panchetto.

"Se ti metti così sarà qualcos'altro ad essere schiacciato."

"Sta' zitto e seguimi."

"Ma non vedo niente con il nido di rovi che ho davanti." Mi spostò i capelli arruffati con il suo naso.

"Zitto! Ascolta il tuo corpo."

"Lo sto ascoltando." Mi infilò la mano libera sotto la mia maglietta, ma gliela tolsi subito con una manata.

"Il pianoforte non è indulgente. Devi essere preciso, lo devi corteggiare, adulare, e lasciare correre."

"Anche con la chitarra..."

"Non stiamo parlando di lei, ora." Lo zittii. Gli presi delicatamente la mano destra, poggiandogliela nuovamente fra i tasti.

"Questi via." Gli sfilai ad uno ad uno gli anelli che aveva alle dita, poggiandoli sul ripiano vicino al leggio, osservando l'ultimo che mi era rimasto in mano. Aveva una scritta impressa sul metallo, me lo rigirai per leggere la frase Love is when differences make no difference, lo misi al mio indice.

"Questo lo prendo in prestito, però." Dino acconsentì, con un ghigno divertito.

"Fai pure."

Tornai su di lui.

"I tuoi polpastrelli devono poggiare più su di così, in alto, e scendere. In alto e scendere. Ripeti. Bravo. Se colpisci i tasti sul bordo, il pianoforte non suonerà. Senti." Gli feci vedere la maniera non corretta, e scossi la testa: "La tua mano non deve spiaccicarsi sulla tastiera. La tua mano deve essere il corpo di un ragno, arcuare la schiena. Tieni il dorso arcuato, non rigido, morbido. Polso morbido. Non moscio. Sei moscio." Gli scossi il polso robusto.

"Non sono moscio." Si lamentò lui, sensuale, sul mio collo. "E tu parli troppo." Mi sussurrò, sfregando le labbra morbide dietro al mio collo. Sentii la pelle arricciarsi in un piacevole brivido. Ma lo ignorai.

"Le tue dita sono zampe di ragno, adesso. Arcuate e mobili. Raggiungono tutto." Mi alzai dal panchetto, chinandomi su di lui per correggergli la posizione dei gomiti, poi gli lasciai provare lo stralcio di brano che avevo abbozzato su quella pagina.

***

"Che mi dici di quella canzone che avevi scritto e che non mi hai ancora fatto ascoltare?" Gli chiesi, mentre rimettevamo a posto tutto il casino che avevamo fatto lì dentro.

"Ah, non ricordo. Boh." Glissò, dopo essersi riagganciato i pantaloni e aver chiuso la cerniera della custodia. Rovistò sotto qualche mobile alla ricerca della sua felpa grigia con il cappuccio.

"Come non ricordi? Hai detto che l'avevi scritta in treno."

"Giusto, ora ricordo. Quella, dici?" ancora quello sguardo sfuggente. Scosse la testa, grattandosi dietro la nuca, e fissando la porta: "La ascolterai. Dopo il lancio. È nel nostro album di esordio."

"Ma questa è una notizia fantastica!"

"Già."

"Perché invece ho la sensazione che per te non sia così?" gli chiesi, abbracciandogli i fianchi, e costringendolo a fermarsi. Dino si divincolò, immusonito.

"Dino. Avanti, che ha quella canzone."

Dino chiuse gli occhi, stringendo le labbra, mostrando le deliziose pieghe che facevano le sue guance quando le ritirava per trattenere il fiato. Finalmente, tirò fuori quel nodo alla gola che sentiva:

"Non sarò io a cantarla." Bisbigliò, sconfortato e arreso.

"Ma è la tua canzone, la tua voce. Te la sei scritta per te."

"Già. E quando l'ho fatta sentire agli altri, a Fabio è piaciuta così tanto da... da..."

"... appropriarsene. Farne una traccia per il vostro album. Per il suo album." Scossi la testa, inorridita: "Non puoi farti trattare così, come un galoppino al suo servizio."

"E invece è quello che sono, Emilia."

"Come puoi dire così!"

"Abbiamo un contratto firmato. Fabio non lascia niente al caso credimi, conosce bene la natura legale di ogni singola riga su cui c'è la mia firma. Ci tiene per le palle, in poche parole. E io non posso lasciare i Fabio prima di un anno legale, perché dovrei vendere la casa dei miei genitori, per tutti soldi che dovrei pagare come penale." Tirò su un sospiro, scosso da tremiti. Tremiti di rabbia, che faceva fatica a controllare.

"Ma il pezzo è tuo. L'hai scritto tu. Ci deve essere un altro modo." Mi annodai la sciarpa azzurra sulla fronte, buttando indietro i capelli.

"Sì, che c'è, Dino. Guardami." Gli presi le spalle, spingendo le punte dei piedi al massimo per sollevarmi, e piegai il collo all'insù.

"Scrivi altri pezzi."

Gli occhi di Dino si allargarono in una frazione di secondo. Le sue pupille scintillarono, in una luce mescolata di ammirazione e speranza.

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