Capitolo 2. Riptide - Vance Joy

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"Quindi che gli hai detto?" mi chiese Emma, tra una masticata di chewing gum e l'altra.

"Gli ho detto di sì."

"E quando vi vedete?" mi urlò Melanie, dalla cucina, mentre preparava la pappa a suo figlio.

"Più o meno alle dieci, credo. Stasera. In centro."

"Quindi tra due ore?" si allarmò Emma, sputacchiando gocce di acqua allo zucchero. "E gli hai risposto di sì."

"Sì"

". Solo ? Nient'altro?" mi guardai intorno, nervosa, rollando una sigaretta.

"Sì, grazie. Va meglio?" replicai.

"Cosa stai facendo, Emilia?" mi chiese sospettosa Melanie, osservandomi dall'alto e ignorando i lamenti del piccolo Giò sul seggiolone.

"Mah, ci siamo scambiati i numeri di telefono, come fanno le persone normali. Mi scriverà su WhatsApp appena esce."

"No, dico. La sigaretta. Non vorrai accenderla qua, vero? Lo sai che non si fuma."

"Ma stai scherzando? Certo che non l'accendo, andavo in terrazza."

"È per il bambino, e poi sai benissimo quanto fa male." Disse quella che trovarono svenuta vicino a un fosso a trecento metri dalla discoteca.

"Lo so." Presi in braccio il mio nipotino, che cominciò a ridacchiare tirandomi qualche ciocca di ricci, scivolati dal fermaglio.

"Quando ho smesso, mentre aspettavo Giò, mi sono sentita..."

"Rinascere."

"Rinascere." Ripeté. "Come..."

"Come un fiore che spunta dai cespugli secchi... " mi seguì in coro Emma, con la quale mi scambiai uno sguardo.

"Ok." Dissi, alzandomi e portando Giò al suo seggiolone. "Un giorno di questi prenderò in considerazione l'idea, ma per adesso vorrei un attimo concentrarmi su Dino."

"Hai portato un cambio per dopo? Una piastra? I trucchi? Vabbè, quelli ce li ho io." Mi strizzò l'occhio mia sorella.

"Un cambio sì. I trucchi ce li ho. La piastra no."

"Perché?"

"Cosa hanno i miei capelli?"

Emma si avvicinò e molto delicatamente mi liberò i capelli dalla pinza che li teneva generosamente a bada. Fece una smorfia e mi guardò con distaccata dolcezza.

"Fammi indovinare, Emi, vuoi uscire con i capelli così? E... " rufolò nella mia borsa "una maglietta di Los Pollos Hermanos? Sul serio? Con Dino?"

Mi sistemai i capelli all'indietro e raddrizzai fieramente mento e spalle. "Non ho intenzione di piastrarmi i capelli, sembrerei davvero una trentenne arrapata e triste."

"Arrapata e triste! Questa è bellina! Comunque ne hai trentadue, per essere precise."

Cominciai a imboccare Giò, che smaniava con le manine cercando di rubarmi cucchiaino e piattino con l'intruglio meraviglioso di omogeneizzati. Non avevo intenzione di cedere alla provocazione.

"Per quanto riguarda la maglietta di Breaking Bad, ho pensato che fosse una cosa simpatica." Mi giustificai.

"Che dolce." Disse, ironicamente, Melanie. "Con quella, lo conquisterai di sicuro."

"Non mi interessa conquistarlo. E poi, a essere sinceri, credo di averlo già fatto, non credi? Mi avrebbe chiesto di uscire, sennò?"

"Ok. Ma lui, che è bellissimo e lo abbiamo capito tutti, che tipo è?"

"Normale, credo. Lo scoprirò."

Poco dopo entrò Alex, mio cognato, che dopo aver baciato mia sorella e Giò, fu ragguagliato sulla situazione imminente. Mancava ancora mezz'ora. Le farfalle nello stomaco mi si erano trasformate in calabroni giganti.

Alex era il mio migliore amico, quello delle scorribande, delle confidenze, il mio compagno di classe, di banco, delle prime canne e delle prime sbornie. Un ragazzo dolce e intelligente, forse un po' timido, molto bravo con i computer. Un programmatore di software per aziende. Ero stata io ad aiutarlo a prendere coraggio e chiedere alla mia sorellina di uscire, qualche anno prima, e adesso erano lì, sposati, con un bambino. Ero fiera di loro.

Alex sprofondò sul divano insieme a me, mentre rollavo un'altra sigaretta, e le altre riordinavano la cucina. Mi guardò con un'alzata di sopracciglia.

"Fanne una anche a me, va'. Ti faccio compagnia, sister."

Mentre eravamo in terrazza a fumare, guardai in basso, nella corte interna del loro palazzo.

"Carino come hanno sistemato il giardinetto. Quelli del Comune hanno a cuore i loro cittadini."

"Veramente quelli del Comune non c'entrano un cazzo. Sono state le mie manine, e le manine di altri signori qua dentro a darci da fare tutta l'estate per avere uno straccio di manto erboso." Sospirò "Ho pensato di mettere uno scivolino e un'altalena, sai. Per Giò e per gli altri bambini." Gli misi un braccio intorno alle spalle.

"E bravo, papà."

"Sei nervosa?"

"Io? No!"

"Sicura?" cercò i miei occhi con i suoi, nella luce bassa e aranciata del tramonto estivo ormai passato da un po'.

"È solo una bevuta." Minimizzai. "Non so nemmeno se mi piace." mentii. "Come posso essere nervosa se a fatica lo conosco?"

"Già. Infatti, quando i Fabio erano a suonare in qualche locale, tu evitavi sempre di andarci. Anzi, non eri proprio minimamente al primo tavolo sotto al palco, imbambolata, ad ascoltare i loro pezzi, mentre il tuo mojito diventava acqua. Non eri nemmeno minimamente a conoscenza che avevano prodotto un singolo ed era salito di otto posizioni sulla classifica di I-Tunes. Ben più in alto di Elisa."

"Sei un cretino."

I Fabio era il nome del suo gruppo. Era Fabio, cantante e chitarrista, il frontman. Narcisista, fanatico ed estremamente carismatico figlio degli avvocati più rinomati della città. Aveva la mia età, e credeva talmente tanto in questo progetto musicale da aver tralasciato gli studi di giurisprudenza fino ad essere fuori corso di circa sette anni. Nel tempo libero, lavorava da Euronics come cassiere.

"Emilia, messaggio!" dal vetro della terrazza, osservai il display del mio telefono sventolato da Emma, dove appariva un laconico:

Sto uscendo ora. Pub di Simone?

Era Dino, ovviamente.

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