Capitolo 25. Donna - The Lumineers

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Le pieghe delle lenzuola mi increspavano la parte di pelle martoriata, come le carezze di una zampa pelosa e soffice di gatto. Mi stiracchiai con estrema cautela, restando sdraiata, avendo ormai preso l'abitudine a muovermi con tanta lentezza e tanta cura, per rimettere in asse le costole, per far sì che guarissi, che potessi stendermi finalmente con la schiena, piegarla a mio piacimento. Per tornare a saltellare, anche se non avevo mai saltellato in vita mia. Ora desideravo farlo.

Mi sentivo fragile come un uccellino. Mi vedevano fragile, come un uccellino. Il dolore era fisso e costante, ormai ci stavo facendo l'abitudine, era parte di me. I suoni ovattati si stavano schiarendo giorno dopo giorno, sentivo bene. Riuscivo a sentire i rumori del mare, in lontananza, oltre il giardino di casa di papà.

La mia famiglia evitava di parlarmi troppo: le nostre comunicazioni erano fatte di gesti, premure basiche, i cosiddetti bisogni primari, queste cose qui. I miei familiari e i miei amici evitavano il contatto troppo ravvicinato. Come se, contemporaneamente all'aspetto di un uccellino, avessi assunto anche l'aria di un felino selvatico, pronto ad attaccarli. Come se fossi uno strano animale domestico, da tenere al sicuro e da proteggere, ma da cui stare anche alla larga. Non permettevo loro diversamente.

La musica a volume basso restava fissa e sintonizzata sulla radio, nella piccola cassa posta sul comodino della camera degli ospiti in casa Koll. Le vibrazioni di quelle note potevo percepirle, tra le scapole, sotto le piante dei piedi nudi appoggiati al pavimento, anche senza assordarmi le orecchie, come facevo prima.

Get back, get back,

Get back to where you once belonged

Sentii bussare alla porta. Era Dino.

"Mili?" Dino girò di scatto la maniglia, affacciandosi e trovandomi distesa su un fianco, sul letto, dalla parte opposta.

In un primo momento pensai di far finta di dormire, poi sospirai, facendo roteare gli occhi, e portandomi la mano destra sulla fronte, cominciando a strusciare con le dita sotto le garze, nel punto in cui sentivo il prurito.

"Che c'è." Bisbigliai.

"Posso?"

Lo sentii fare dei passi verso di me, potei percepire il calore delle sue mani sopra il mio corpo, anche senza toccarmi. Ero scoperta dalle lenzuola che arrivavano fino alla spalla, ingabbiata nella mia canotta bianca su cui capeggiava la scritta Silenzio ricamata con un filo rosso, in un corsivo scolastico.

"Non guardarmi, Dino." Mi misi a sedere con gesti impacciati, sentendolo indietreggiare.

"Ok, allora ci parleremo così." Lo vidi andare verso la porta socchiusa, e guardare attentamente le venature in legno massello davanti a lui, dandomi le spalle, con le mani sui fianchi. Mi venne un lieve sorriso che increspò le mie labbra secche.

Era tornato a vivere a casa dei suoi genitori, ma ogni tanto passava dal mio appartamento per controllare i gatti, alternandosi con Emma ed Alex. Si stavano tutti impegnando in questa mia fase di convalescenza, ma io non vedevo, non capivo tutto questo affannarsi per me. A quel tempo, credevo semplicemente che tutto mi fosse dovuto, e non provavo comprensione per nessuno di loro.

Non avevano la minima idea di come comportarsi con me.

Pensai che l'unica persona che avesse veramente capito cosa fare era stata Nicla, la quale, non appena aveva verificato quanto fossi in grado di stare in piedi, vestirmi da sola, mangiare, lavarmi, era tornata alla sua tournée, riprendendo da dove aveva lasciato, riprendendo la sua vita. Non poteva fare altro, in realtà. Non lo aveva mai fatto prima, quell'altro che tutti noi possiamo intendere, figuriamoci se avrebbe cambiato adesso. La rispettai per questo. Era una persona coerente. Certo, mi mancava la sua presenza, come mi era sempre mancata, ma Nicla mi aveva fatto capire che ero sempre io, ero sempre Emilia, una ragazza normale e non un mostro, che stava cucendo le sue ferite e che ce la stava comunque facendo, ci sarebbe riuscita, sarebbe arrivata in fondo, anche a toccarlo, quel fondo.

Per gli altri, no. Per gli altri ero un essere fragile, una fine scultura di cristallo pronta a rompersi.

Per gli altri ero diventata il mostro che vedevo ogni giorno allo specchio.

Io stessa mi sentivo semplicemente come una cosa rotta.

Mi detestavo.

Mi detestai dal giorno in cui, uscita dall'ospedale, avevo inforcato i grossi occhiali neri di Nicla, ignorando Dino che mi stava aspettando in un angolo, dietro Emma ed Alex. Avevo percepito i loro sguardi bloccati su di me, le bocche semiaperte, gli occhi tristi e compassionevoli.

Mi detestai quando, tornata a casa Koll, non avevo lasciato mai la stanza degli ospiti, dove dormivo, se non per andare a lavarmi.

Sapevo che Dino era spesso a casa, quei lunghi pomeriggi estivi, e detestai anche lui. Lui, che, invece di essere in uno studio ad incidere il suo album, adesso era costretto in casa della famiglia di una donna per un senso di commiserazione nei suoi confronti. Non doveva prendersi il tempo per riflettere su noi due?

Stava riflettendo? Aveva riflettuto? Che cosa stava facendo tutto quel tempo, veramente?

"Sono tornato a casa tua per recuperare alcune cose che mi servivano." Mi disse, come se mi avesse letto nel pensiero, come per rompere la patina di ghiaccio fra me e lui.

"E perché sei venuto qui?" mi barricai dietro la mia nube di ostilità.

"Tuo padre mi ha chiesto di rimanere per cena." Continuò, lui, parlando con la porta.

"Non devi sentirti obbligato..."

"Ma non sono obbligato. Mi piace tuo padre. E mi piace anche Teresa."

Sbuffai, lasciando andare una risata amara sottovoce, strozzata.

"Mi fa piacere che abbiate fatto amicizia." Dissi, senza alcuna nota di colore, nella voce.

"Pensavo che... magari tu..."

"Pensavi male."

"Non mi hai lasciato finire."

"So cosa vuoi chiedermi. E la risposta è no, Dino. Non mi unirò a quella tavola, stasera. Né stasera, né altre sere. Non me ne frega un cazzo se ci sei o non ci sei. Se là fuori c'è Gesù. Hai capito?" trattenni il respiro, sperando di convincerlo.

"Non puoi stare chiusa qui dentro per sempre, lo sai, vero?"

"E invece posso. Cos'è, devo uscire perché me lo stai chiedendo tu?" sibilai, stringendo le lenzuola con le dita. Lo vidi sospirare, abbassando la testa, guardandosi i piedi. Volevo che se ne andasse, che sparisse.

Ma volevo anche essere abbracciata da lui, baciata dappertutto da lui.

"Ehi!" ringhiai. Sbattei la cassa bluetooth sul mobile e Dino sobbalzò.

"Che c'è." Mormorò.

"Ti ho fatto una domanda."

"Non hai fatto una domanda." Mi contraddisse lui, alzando leggermente la voce: "hai cominciato una discussione."

"Non voglio discutere."

"Nemmeno io."

"Ok, Dino." Socchiusi gli occhi, stringendo ancora di più le lenzuola sui miei fianchi. Mi sentivo in una trappola senza uscita, mi mancava il respiro.

"Per me è difficile parlarsi così." Poi alzò la fronte al soffitto e si grattò la testa a lungo: "Puoi aspettarmi un momento lì?"

"E chi si muove." Aggrottai le sopracciglia sentendo tirare quello sinistro, fino a provocarmi una smorfia.

Dino uscì dalla stanza. Aspettai. Lo vidi rientrare indietreggiando, sempre di spalle.

"Tieni. L'ho recuperata dal cassetto. Fortuna che tieni la casa così ordinata." Sbuffò ironico, e mi lanciò la sciarpa azzurra come se lanciasse dietro le spalle una monetina in una fontana. La sciarpa atterrò sopra il dorso della mia mano. La afferrai delicatamente, e cominciai a rigirarmela tra le dita.

"Questa cosa ti ha fatto andare fuori di testa." Cominciai, mentre mi posavo la sciarpa accuratamente sulla testa, facendone scivolare i quattro lembi lungo tutta la lunghezza del viso.

"Posso girarmi, adesso?" Dino chiuse la porta della stanza. Io annuii, guardandomi intorno.

Era possibile.

Questo sì, era possibile, era accettabile, per me.

"Sì, Dino."

E allora Dino, finalmente, si voltò.

Lo guardai dritto in viso, attraverso i sottili fili del tessuto. Lui non poteva vedere la parte di me che più odiavo, ma poteva guardarmi adesso. Poteva avvicinarsi. Fece qualche passo verso di me, timoroso di una mia qualsiasi reazione. Restai immobile, ad osservarlo, ancora diffidente. Mi irrigidii con le spalle e tutto il resto del corpo.

"Eccoti, Mili."

Mi portai istintivamente le mani all'altezza del collo e vicino al viso, per bloccare la sciarpa, ma Dino si era già avvicinato a me, invadendomi con il suo profumo di fresco e di cose sane. Si era seduto accanto a me, e sollevato le mani per tenere ben stretto quello scialle sopra la mia testa, sfiorandomi la spalla ferita con le sue labbra. Chiusi gli occhi, trattenendo il respiro. E le mie mani a poco a poco si abbassarono lungo i fianchi, lasciando che le sue dita si abbassassero per intrecciarsi alle mie.

"Sono stato a casa tua per riprendermi anche questa. Ma ho deciso che adesso è tua, sai?" Mi sussurrò, piano. Lasciai che mi abbracciasse, che il suo calore mi invadesse di nuovo, che la sua pelle entrasse in contatto con la mia, attraverso le braccia, le mani che si appoggiavano al mio corpo cercando di contenerlo e di non farlo volare via, le labbra sulla mia spalla, divisa a metà da un solco profondo, come un'ala spezzata.

Ma c'era un dolore più profondo, adesso, che né io né lui riuscivamo ad allontanare. Questo dolore era ciò che non mi permetteva di ricambiare il suo abbraccio, ero intrappolata in questo dolore, ero intrappolata così a fondo in me stessa da non riuscire a riemergere.

Ero arrabbiata.

"Che mi dici di Londra? Riuscirai a finire l'album?" sibilai.

Riuscirai a riflettere su di noi, adesso, Dino?

"Non voglio pensarci, adesso."

E invece doveva pensarci.

Non poteva credere che un velo sul mio viso fosse la soluzione a tutto quello che ci aveva travolto. Io non avevo né il tempo né l'anima giusta per dedicarmi a lui, adesso. Mentre sentivo le sue braccia circondarmi, tremanti e incerte, pensai che più Dino restava qui, portando i suoi casini e la sua vita sempre in bilico, meno tempo mi restava per dedicarmi a me stessa, a guarire dentro e a guarire fuori.

La mia concentrazione si disperdeva in lui, nel suo essere sempre a un passo dal cadere nella frana. La sua carriera stava letteralmente appesa un filo, e io non volevo esserne la causa, non volevo che in futuro potessi essere colei a cui puntare il dito per una vita rovinata.

Mi sentii così persa, che lasciai che le lacrime mi rigassero il viso, ignorando il dolore sulla pelle irritata dalle cicatrici ancora fresche, e sperando che Dino non si accorgesse del mio pianto silenzioso e immobile.

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