Capitolo 31. In this shirt - The Irrepressibles

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Teresa ci accolse con un sorriso largo quanto tutta la sua casa, non appena ci vide aprendo la porta. Ero incastrata tra Alex e Melanie, mentre mia sorella teneva in braccio Giò, che smaniava per trovare i suoi regali sotto l'albero bello dei nonni. Il cappuccio peloso del suo cappottino elegante gli solleticava le guance arrossate.

"Venite dentro, qua fuori si gela. Giusto in tempo, per l'aperitivo, eh?" rise nervosamente, arrancando in cucina ed evitando di picchiare la fronte contro la colonna della sala per un soffio. Io ed Alex ci guardammo fulminei, mentre mia sorella entrava, affrettandosi a togliersi il cappotto e posare i regali preparati accuratamente per papà, Teresa e gli altri parenti. Dietro di lei, Alex mi tirò dentro casa, tendendomi la mano. La afferrai, barcollando, stando attenta a non inciampare sullo scalino d'ingresso, tenendomi con la mano libera la sciarpa azzurra, già ben fissata con due spille dorate ai lati della testa e intrecciata sulla nuca.

Mi tolsi il cappotto, cercando di trovare papà tra gli ospiti già seduti sul divano.

"Ciao Emilia, buon Natale, cara." Lo zio di Alex sollevò il calice di vino verso di me, seduto comodamente in poltrona, davanti al caminetto acceso. Mi strinsi nelle spalle, chiuse in una camicia azzurra che ricadeva morbida lungo il mio corpo, i pantaloni chiari che mi fasciavano dolcemente i fianchi, divenuti troppo ossuti. Mi arresi all'evidente sforzo di tutti di trattarmi normalmente. Vidi la mamma di Teresa venirmi incontro, aiutandosi a camminare col bastone trascinando in avanti il piede gonfio.

"Che bella gnocca che abbiamo qui, sbaglio o ti sei fatta bionda?" strizzò gli occhi, indagando tra le pieghe del velo.

"Sì, hai indovinato. Ma durerà poco, presto tornerò come prima." Le sorrisi da sotto la sciarpa, sfiorandomi i capelli, fatti in casa con l'aiuto e l'insistenza di Emma di dare una svolta definitiva alla mia immagine. Mi ero anche truccata, ma non glielo dissi, per paura di dover togliere il velo dal viso.

"Posso abbracciarti, bambina mia?" vidi le sue mani rugose aperte verso di me, come in un segno di grande affetto. Strinsi le labbra e annuii.

"Certo, Adelaide. Buon Natale." 

"Emi, puoi lasciarmi la mano, adesso? Devo andare di là ad aiutare tua sorella." Alex mi squadrò, alzando le sopracciglia, tastando il terreno. Mi lasciava da sola. Volevo papà. Dove era andato?

"Oh-oh-oh." Sentii la sua voce farsi grossa da dietro le spalle. E il buffo babbo Natale con vecchi abiti di pannolenci rossi venne verso di me, mentre camminava chino su Giò, che sventolava un pacchettino e camminava agitato e ridacchiante. 

"È arrivato babbo...Natale." Mormorai, con un sorriso a mezza via.

"Buon Natale, Emilia!" esclamò, con una vociona gioiosa.

Roteai gli occhi, tanto non poteva vedermeli.

"Tesoro? Ehm... scusa, babbo Natale, puoi aiutarmi con i vassoi? Devo liberare il piano di cucina." Teresa lo aveva chiamato, stringendo i denti in un sorriso forzato, mentre Giò aveva già raggiunto il grande albero di Natale, per tirare qualche pallina a terra, come stavano facendo gli altri bambini più grandi.

Stavo per raggiungere quei bambini in salotto, poi una risata nell'altra stanza mi bloccò.

Sentii dei brividi lungo la schiena.

Era lei.

Mi affacciai alla porta della cucina e la vidi. Sembrava ancora più alta, con le decolleté nere. Il suo abito nero, così sobrio, senza nessun orpello, leggermente scollato e corto fino a metà coscia. Le maniche a tre quarti si chiudevano morbide e aggraziate sulle braccia toniche. Non era un abito aderente che potesse mettere in risalto le forme armoniose del suo corpo. Era un abito dalla forma squadrata, che si piegava mansueto sui fianchi, quando la sua mano vi si appoggiava. Si era voltata verso di me, tirando il petto infuori, proprio nel momento in cui il calice di champagne si era poggiato sulle sue labbra. Aveva bloccato per una frazione di secondo il movimento, ma poi aveva cambiato idea e aveva bevuto un bel sorso, prima di venirmi incontro a salutare.

"Ciao, Nicla."

"Ciao, Emilia." Mi lisciò le spalle, dandomi leggeri strizzotti per constatare che fossi sempre lì, sotto quei vestiti: "buon Natale." Il suo lungo ciuffo biondo era accuratamente pettinato all'indietro in un'onda morbida, i capelli corti dalla rasatura non eccessiva sulla nuca, il resto del collo era libero da collane. Nessuna collana, nessun orecchino a illuminare il suo viso, c'era già lei a illuminare se stessa di una luce propria. Era sempre stato così. Mi sorrise dolcemente. Gli occhi verdi con un accenno di trucco illuminante sulle palpebre, il naso così uguale al mio.

"Beviamo qualcosa." Quella voce sempre dolce e pacata, dall'intonazione impostata e dalla dizione perfetta in ogni parola che pronunciasse.

"Perché sei qui?" Mi rabbuiai, chiudendo il collo tra le spalle, sentendo strusciare la sciarpa sul mio naso.

"Te l'avevo detto che sarei rimasta. Il tour è finito poche settimane fa. Non ho avuto il tempo per pensare a un regalo da spedirti. Poi l'ho trovato, ho avuto l'idea giusta."

"Sai che non devi per forza..."

"Ecco qua, un brindisi a oggi, che siamo finalmente tutti insieme." Teresa ci interruppe, porgendomi un calice. Poi guardò Nicla con una impercettibile smorfia di disagio, e le sorrise forzatamente, prima di voltarsi di scatto per servire gli altri ospiti. Nicla la seguì impassibile con lo sguardo, inclinò il viso e abbassò leggermente le palpebre, con la bocca socchiusa in un sorriso appena accennato. Le guance tirate sulle labbra protese come se stesse per baciare l'aria.

Il pranzo a tavola fu un susseguirsi di passaggi di piatti, brindisi, e chiacchierate su temi più o meno di attualità. Nessuna domanda sul mio velo, arrotolato sulla punta del naso per poter mettere qualcosa tra i denti, nessuna vera intenzione morbosa nei miei confronti, nessuna domanda su Dino, il musicista diventato fantasma. In parte era dovuta alla presenza di Alex al mio fianco, che ogni tanto mi stringeva la mano, per farsi salvare dai nonni, che non lo lasciavano in pace un attimo, schizzando tutti i resti del sugo di carne sulla sua camicia bianca mentre gli parlavano. In parte perché Nicla era letteralmente accerchiata da tutti gli ospiti, calamitava tutti, e tutti si facevano selfie con lei, le chiedevano l'autografo sul segnaposto, un pupazzo di neve decorato con coriandoli fatti con carta di giornale, le parlavano, le chiedevano qualsiasi cosa sul mondo dello spettacolo, di cui lei faceva parte da sempre.

La vera stella che brillava a quel tavolo, più di qualsiasi stella di qualsiasi presepe, era lei.

Papà era troppo impegnato a grattarsi il collo, nervoso, per l'effetto di quella vecchia stoffa sulla sua pelle, rimasta troppo a lungo negli scatoloni a far nidificare gli acari. Ora che si era tolto il vestito di babbo Natale, era sempre stordito dalla reazione allergica che gli aveva arrossato un po' alcune parti del corpo scoperte. Era troppo preso da questo piccolo fastidio per accorgersi degli occhi languidi di Teresa, che si spostavano da lui a Nicla, da Nicla agli altri ospiti, in cerca dell'indizio di un qualsiasi inganno. Si stava sicuramente chiedendo dove fosse l'imbroglio, che cosa stesse sbagliando. Si guardava le mani un po' callose, per i lunghi pomeriggi di lavori in giardino, le unghie rosse di uno smalto dato con troppa fretta quella mattina, prima di mettersi al lavoro per noi e forse sbaffato, e probabilmente le confrontava con quelle di lei, curate e dalla forma a mandorla, smaltate di un rosso vivo, acceso ed uniforme. La vidi bere tanto, a Teresa. Come se un demone dentro di lei la stesse disidratando, e chiedesse altro alcol. La imitai.

"A Nicla Rogers!" cominciò qualcuno.

"A Nicla Rogers! E buon Natale a tutti!" si unì qualcun altro. Alzammo i calici, chi per noia, chi per felicità, chi per sfinimento, chi per trovare semplicemente un'altra scusa per bere. Io e Nicla ci guardammo a lungo, dalle parti opposte del tavolo, dietro i bicchieri. Lei voleva trovare i miei occhi dietro il velo, decifrare la mia anima. Ma sapevo che, in realtà, non aveva bisogno di vedere i miei occhi per farlo. Anche lei in fondo lo sapeva, questo. Lei sapeva già tutto di me. Mi sentii come se una mano calda mi passasse sulla pancia con una carezza, la sua mano calda. Me la immaginai così bene che il mio sorriso si allargò spontaneo senza che potessi controllarlo, e lei se ne accorse, senza mai distogliere lo sguardo da me. Restando chiusa nella sua espressione fredda e glaciale, con sopracciglia distese e guance leggermente rosee dal calore della stanza.

L'amore era questo?

Era sentire il calore dal petto, come se il cuore fosse un sole, e la bellezza di sentirsi bene, i suoi raggi. Era sentirsi sospesi in una sensazione di benessere e luce dove tutto intorno c'era il vuoto, il buio, il dolore.

Era stare a un passo dal baratro.

Spalancai gli occhi, cacciando indietro le lacrime, e bevvi un altro sorso di vino.

Aiutai Teresa a sparecchiare, mentre gli altri si spostavano in sala per imbastire i vari tornei di giochi da tavola. Sondai il terreno con molta cautela.

"Grazie per questo bellissimo pranzo, Teresa."

"Sì, sì." Borbottò lei, affannata ad arrotolare la tovaglia per scuoterla nel giardino. Si voltò di scatto, mentre tenevo l'asciughino in una mano: "tu come stai, tesoro mio?"

"Bene." Annuii. Venne verso di me, allungando una mano sulla sciarpa, per farmi una carezza: "sono davvero felice che tu abbia deciso di venire, oggi. Mi saresti mancata come l'aria, come..."

Come una figlia mia. Sembravano dire i suoi occhi.

Le presi la mano delicatamente, appoggiandomela alla guancia, sentendola respirare per trattenere un singhiozzo. Era così sensibile. 

"Anche tu mi saresti mancata." La rassicurai.

Non volevo che credesse che la distanza fra noi fosse così insormontabile. Per lei, la mamma che era diventata per me per tutta la mia vita. Quella su cui avevo costruito una barriera, ma a cui volevo bene come se anche lei, oltre a Nicla, mi avesse partorito, spingendo dal suo corpo il mio piccolo corpo, con atroci sofferenze.

Ma io ero Nicla. La mia mamma biologica si era impossessata di me, adesso, a partire dal colore dei capelli. Avevo bisogno di essere lei, non potevo lasciarmi sopraffare da quelle sensazioni che mi avrebbero stordito, annientato, cancellato. Alzai il mento cercando la mia borsa appoggiata alla sedia, per prepararmi una sigaretta, e la lasciai in piedi, senza indugiare in conversazioni superflue.

Mentre ero fuori a fumare, mi cullai tra le note del pianoforte che si irradiavano dal soggiorno al giardino.

Papà stava suonando, come d'abitudine, qualche brano tradizionale natalizio.

Io e Alex, seduti al nostro tavolino, cominciammo a canticchiare la canzone Have yourself a merry little Christmas, stonando di diverse tonalità quella originaria, leggermente sbronzi.

"Lasciatelo dire, Emilia Koll. Sei stonata come una campana."

Gli lanciai la noce di cocco che usavo come portacenere.

"Tu invece sei peggio di una cornacchia, Alex Valenti."

"Mi hai fatto diventare questa camicia peggio di un quadro di Kandisnkij." Scoppiai a ridere, mentre Alex si passava le mani sulla sua camicia, peggiorando ulteriormente la situazione.

"Peggio di così."

"Forse le giacche di Dino..." cominciò, poi sembrò mordersi la lingua.

"Già." Annuii, portandomi istintivamente la mano sul viso: "Dio, se sono orribili."

"Un disastro." Confermò, dandomi una leggera pacca sulla spalla, vedendomi persa nei miei pensieri.

"Tutto bene, Emi?" sembrò chiedere scusa. Aveva spento il mio sorriso.

"Io non sono stonata." Esclamai, scuotendo la testa, e dandogli uno spintone, virando il tono della conversazione.

Quella voce decisamente non lo era. Ci voltammo simultaneamente nella direzione della sala, da cui usciva un suono avvolgente, caldo e ipnotico.

Nicla.

Stava cantando.

Mio padre stava continuando a suonare al pianoforte. Ci alzammo lentamente, afferrai la mano di Alex, per sostenermi, per muovere quei passi, per spostare il mio corpo, attratto da quelle note.

La scena in sala era una suggestione di immagini fatte musica. Papà aveva mosso le sue dita, unendo Have yourself a merry little Christmas a Girl from Ipanema, come se avesse semplicemente sfilato un paio di guanti per indossarne altri. E Nicla cantava sulle sue note, in perfetta sintonia con le armonie evocate da quei tasti. Poi una pausa, un sospiro.

Un'improvvisazione jazz fatta praticamente con gli occhi chiusi. Entrambi avevano gli occhi chiusi, Nicla dondolava il collo e sorrideva a labbra serrate, mentre papà si dedicava solo alla parte strumentale.

Cioè? Stavano facendo esattamente il contrario di ciò che papà mi aveva consigliato tempo addietro.

Si stavano perdendo. Che cosa stavano facendo esattamente?

Quando Nicla riprese a cantare, spalancò gli occhi, guardando la piccola platea che aveva formato, accogliendo tutti gli sguardi attoniti, uno per uno. Non poté mai cogliere il mio, nascosto dal velo, la mia bocca spalancata, gli occhi lucidi. Spostai lo sguardo su Teresa, tesa su una sedia, ad ascoltarli attenta. Cercai Alex, tirandolo a me con uno strattone.

"Emi..." bisbigliò, avvicinandosi al mio viso: "è tutto semplicemente meraviglioso." Anche lui era rimasto talmente affascinato da non vederlo.

Erano come due abili incantatori. Credo che quella fosse la prima volta che li sentii esibirsi insieme. E ne fui sconvolta più di quanto immaginassi.

Raggiunsi a passi frettolosi la camera degli ospiti, chiudendo con uno scatto secco la porta dietro di me, mentre finivano di suonare la canzone. Respirai ampiamente, poggiando le mani sul comò, abbassando la testa. Poi mi tolsi il velo dal viso, gettandolo a terra insieme alle spille.

Vidi sullo specchio il mio mascara colato leggermente sulle guance, i capelli biondi che sfioravano la fronte e le sopracciglia con un morbido ciuffo, delle ciocche ondulate ad accarezzarmi dolcemente i lati della testa. Erano loro i miei genitori. Io ero questa. Perché si erano lasciati? Perché mi avevano privato di questa felicità per tutta la vita? Perché adesso mi sentivo così smarrita in me stessa da non riuscire a ritrovarmi?

Come richiamata da una voce sottile, Nicla era entrata silenziosamente nella stanza, lasciando papà a suonare altre canzoni tipiche natalizie con i suoi parenti. Mi sorprese alle spalle, mentre mi fissavo nello specchio. Mentre fissavo i miei lineamenti sfigurati, che non si riuscivano a mascherare nemmeno con un po' di fard. Si vedeva chiaramente che ero una figura torta, una sua pessima brutta copia. Il mio viso era torto. Era asimmetrico come quando pieghi un foglio a metà, e, mentre una di queste metà la lasci stare, l'altra te la accartocci sulla mano.

"Ho il tuo regalo, qui." Mi sussurrò, senza smettere di fissare la mia immagine nello specchio. Mi poggiò entrambe le mani sulle spalle, prima di prendere il suo pacchetto morbido, incartato in una fine velina color carta da zucchero. Guardai mia madre allo specchio, scrutandone l'espressione di attesa che le si era dipinta in volto.

"Aprilo tu, per me." Tirai su con il naso, tenendo le mani ben salde al piano del mobile, continuando a fissarla, e a fissarmi, nel riflesso.

"D'accordo, Emilia." Mi bisbigliò.

Le lacrime cominciarono ad asciugarsi sul mio viso come seccate dal sole.

Nicla scartò il pacchettino. Sollevò i lembi di una fascia di pura seta azzurra, cucita appositamente per le mie esigenze. La aprì completamente, e potei notare che nella parte centrale era cucita un'anima rigida interna, flessibile quanto bastasse perché potessi adattarla alla forma del mio naso, lasciando scoperta la bocca. Alzai la testa per osservarla meglio, mentre lasciavo che Nicla me la facesse indossare.

"L'ho fatta realizzare apposta per te da un sarto milanese."

I due spazi liberi per gli occhi erano sufficienti a rendermi autonoma e libera, senza ogni volta dovermi spostare i lembi della sciarpa. Mi osservai allo specchio, incapace di esprimere la mia gratitudine a parole. Quindi mi voltai di scatto, e vidi Nicla in attesa, mento alzato, sguardo soddisfatto.

"Mi piaci, Emilia Rogers Koll." Disse soltanto: "sembri un essere venuto da un altro mondo."

"Un po' come te." Sussurrai, sentendo quella specie di maschera aderire perfettamente alla forma del mio viso: "come fai?" dissi a un certo punto.

"Come faccio che cosa?" chiese, senza smettere di fissarmi.

"Come fai a venire qui, a cantare con papà, a prenderti i momenti belli tra noi, e non esserci mai nella vita reale. Nicla, perché sei venuta qui?"

"Sono venuta qui perché potevo farlo."

"Potevi o volevi? Le altre volte non potevi o non volevi?" insistei. Nicla chiuse un attimo gli occhi.

"Ok, sediamoci."

"Ho bisogno di saperlo, mamma. Perché io..." sollevai le mani in aria, senza sedermi accanto a lei, per cercare le parole, sopraffatta da tutte quelle che non ero mai riuscita a dirle: "... non ho mai capito. Non credo di capire. Tu mi hai abbandonata! Mi hai lasciato sempre da sola, ad affrontare qualsiasi cosa." mi tappai la bocca, soffocando un gemito.

"Non eri sola. Eri con papà e Teresa." Disse soltanto, calma. Seduta sul letto. Restai in piedi, davanti a lei.

"Non era la stessa cosa. Tu avevi di meglio da fare? Davvero devo credere che hai rinunciato a me, per la tua carriera? Non sono mai riuscita a chiedertelo! Credevo che fosse normale, che fosse il naturale corso delle cose. Ma adesso che tu sei qui, e sei così vicina a me da non crederti ancora reale, io sto esplodendo, mamma. Mi stai facendo impazzire!"

"Le cose non sono così semplici da spiegare, tesoro."

"Allora comincia da qualcosa. Dammi qualcosa mamma, non ti ho mai chiesto niente in vita mia!" cominciai a singhiozzare senza accorgermene: "Io avevo bisogno di te..."mi tappai la bocca, mordendomi i palmi.

"Anche io... avevo bisogno di te..." Nicla abbassò gli occhi sulle sue ginocchia, senza alcuna incrinatura nella voce. Era salda, coerente, un'ancora per una nave che tuttavia sta affondando. Si alzò, portandosi la mano sul fianco, raggiungendo lo specchio e fissandosi a lungo, come per cercare il coraggio di trovare le parole giuste.

"Emilia. Quando sei nata, il cuore mi è letteralmente esploso di gioia. Eri la creatura più bella che una mente umana potesse mai concepire. Io e papà eravamo le persone più felici su questa terra, ci emozionavamo ad ogni tuo progresso. I tuoi primi sorrisi, tu sorridevi così tanto, eri sempre felice, avvolta nella nostra felicità. E nella nostra musica." Fece una pausa, come per riprendere fiato: "ma io stavo lavorando in giro per il mondo, e papà aveva paura che tutti questi viaggi ti avrebbero destabilizzato. Tu così piccola, indifesa. Io volevo trovare il modo di mettere insieme tutti gli amori della mia vita. Volevo portarti sempre con me, ma sapevo che non era giusto." Fece un sospiro, sbattendo le ciglia completamente asciutte. Non c'era niente che la scalfisse, eppure credevo ad ogni parola. Si voltò su di me:

"Sono solo una donna. Non mi era possibile fare tutto. Potevo scegliere di stare a casa, mentre papà lavorava, oppure..." deglutì: "lasciare che papà si occupasse di te, rinunciando lui al suo sogno, lasciando che io inseguissi il mio. Lui mi ha permesso di volare. E a te di crescere."

"E che mi dici di Teresa?"

Nicla fece spallucce: "Io sapevo che aveva Teresa già molto prima che me lo confessasse. Si era rotto qualcosa."

"Come hai potuto convivere con questa rabbia, mamma? Perché hai lasciato che mi portassero via da te!" gridai.

"Non ti hanno portato via da me." Mi prese le mani, catturando il mio sguardo dietro la maschera: "era il tuo futuro migliore. Il migliore che tu potessi avere. Io l'avevo capito allora e non mi pento di nulla, di quello che ho fatto per te. Perché quello che hai avuto dopo, e quello che ho avuto io, e che ha avuto papà, è molto più grande di quello che forse saremmo riusciti a darti restando insieme."

"Posso non essere d'accordo con te?" borbottai, asciugandomi le lacrime.

"Certo che puoi. Ma è così che si cresce, che si vive. Con la pienezza del vuoto. Con il dolore."

"Con il dolore?"

"Sì, con il dolore. Che è un'altra forma di amore. È un amore che si è trasformato."

"Non capisco, Nicla." Mia madre strinse le mie mani ancora più forte.

"Emilia, voglio che tu capisca che l'amore tra due persone non finisce mai. Può cambiare. Io e papà ci amiamo e ci ameremo sempre, ma in modo diverso. L'amore non finisce."

"L'amore non finisce." Ripetei.

"L'amore si trasforma in qualcos'altro."

"Qualcos'altro." ripetei, di nuovo, ancora più confusa: "nel dolore."

"Nel dolore." Confermò: "prendi questo dolore, Emilia. Prendilo tutto e affondaci dentro. Mettici le tue mani, e quando le risolleverai, solo quando sarai pronta, vedrai che quello che hai raccolto saranno le pietre più pesanti e più preziose che tu abbia mai avuto."

Poi mi tenne stretta nel suo abbraccio un altro po', prima di salutarmi.

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