Capitolo 33. Thinking About You - Beck

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"Pronta?"

"Spara."

"Ho ricevuto una proposta di contratto con la produzione."

"Dai!"

"Emma, lo sto guardando. L'ho riletto mille volte e ancora non ci credo."

La sentii urlare dall'altra parte del telefono, doveva essersi allontanata dal microfono per saltare sul letto. Sorrisi, tenendo il telefono appoggiato all'orecchio destro e incastrandolo sulla spalla, mentre mescolavo la pappa per i gatti.

"Emilia sarà famosa! Emilia sarà famosa! Chi è l'amica di Emilia? Chi è chi è chi è!!!" cantava a squarciagola.

"Frena, frena." Mi abbassai per poggiare le due ciotole ai miei piedi, mentre Kobe e Oreste mi montavano addosso, zampettando dappertutto per spostarmi da lì. Raggiunsi la cucina, sfilando il lima unghie mentre Emma continuava a cantare frasi senza senso. Mi accorciai le unghie delle dita per tenerle in ordine, perché adesso dovevo fare le registrazioni. Doveva essere tutto perfetto.

"Si tratta soltanto di una base piccola per la fiction Rai che stanno finendo di girare."

"Woooooooooo. E conoscerai gente famosa! I VIP!"

"Non proprio." Mi osservai le unghie, scuotendo la polverina che si era creata sulle dita, e controllando l'arco perfetto che incorniciava la fine di ogni singolo dito.

Corte e ordinate: "devo solo registrare la mia composizione nello studio. Poi arrivederci. Mi pagano un forfait e ciao."

"Ma sarai tra i titoli di coda!"

"Sì, e molto in fondo. Se stavolta non si dimenticano anche di mettere la K iniziale al mio cognome. Ho dovuto rinviargli il contratto perché l'ultima volta era indirizzato ad Amelia Koll."

"Un piccolo errore per una notorietà più grande."

"Ma sentila Emma come sta in fissa con 'sta cosa della notorietà."

"Come la mettiamo col fatto che non hai mai suonato davanti a nessuno?" tralasciò di nominare le eccezioni.

"Registro a casa mia, invio, e i tecnici equalizzano. Posso farcela. Sono 5 minuti scarsi di musica."

"Con il velo."

"Con il velo. Tanto sono a casa. Nella Stanza."

"E il titolo?"

"Il titolo non c'è."

"Ah, come non c'è?"

"Prenderà il nome della puntata, o di tutta la fiction, credo. Non pensavo a quel genere di cose mentre lo componevo, tempo fa."

"Ma ne aveva uno, giusto? Prima di inviarlo avrai pensato a qualcosa?"

No, non ci avevo pensato. In alto ci avevo scritto solo 'Numero dodici', perché era il dodicesimo che componevo.

Non avevo alcun diritto su quel brano che vendevo alla casa di produzione. Non mi interessava, all'inizio. Avevo solo bisogno di capire cosa stesse cercando quel tipo di mondo, e cosa potevo io dare loro.

I primi contratti erano così, papà me l'aveva detto, di stare attenta.

Il mio nome non compariva sempre e se lo faceva, era proprio in fondo, come se qualcuno l'avesse aggiunto all'ultimo secondo prima che sparissero anche i titoli di coda. E, il più delle volte, su quei canali televisivi, alla fine dell'episodio, non si arrivava nemmeno a metà di quel lungo elenco, e il mio nome, se c'era, non compariva mai, sparito sotto gli strati di make-up dell'ennesimo spot pubblicitario della Clinique.

Ma io non vivevo di questo, non in quel periodo. Avevo il mio lavoro nel negozio e ogni tanto scrivevo, inviavo, e mi dimenticavo di nuovo tutto quello che avevo fatto. Ricevevo dei piccoli guadagni.

Avevo bisogno di scrivere quelle note.

Non lo facevo per la fama, lo facevo per vomitare tutto il marcio che sentivo dentro di me. Era la mia forma di sfogo, di liberazione, di sfida con me stessa. Non una vera ambizione.

Ma una corda a cui stare appesa, con cui tirarmi su quando il dolore mi voleva inghiottire così tanto fino a soffocarmi.

Nicla mi aveva chiamato, voleva propormi al suo agente. Diceva che dovevo tutelarmi, e che potevo dare molto di più. Rifiutai.

Sapevo che un solo passo in avanti, un solo , poteva spingermi troppo oltre, oltre i miei limiti di sopportazione. Avrei dovuto concedere la mia presenza, avrei dovuto concedere di stringere mani, come primo momento di stress. Forse suonare in presenza di qualcuno, e la cosa peggiore sarebbe stata mostrare il velo, prima del mio volto. Era fuori discussione, allora. Niente complicazioni. E Nicla mi lasciò stare. Per un po'.

Arrivata in fondo a quell'anno, divisa tra aperitivi del giovedì con i miei amici, ormai abituati a vedermi attraverso il velo sul viso, piccole riunioni di famiglia, i miei due lavori, i gatti sempre più grassi sotto le mie cure, un giorno mi fermai.

Ero seduta al tavolo di cucina, con le mani sudate che si facevano scivolare la birra da una parte e il cellulare dall'altra. Il velo di seta appoggiato accuratamente sulla sedia accanto a me. I capelli, tornati del mio castano naturale con le punte biondo platino, accarezzavano il mio collo, sfiorando appena le spalle. Li avevo legati con un gommino leopardato, e la divisa di lato mi permetteva di coprire il lato sinistro con le ciocche allungate.

Detti un sorso di birra, mentre scorrevo le storie. A ogni contenuto privato, ce n'era uno sponsorizzato. Poteva essere di prodotti dietetici, di guru di mindfulness, di mental coach o come si chiamavano. Poteva essere qualsiasi cosa, quel giorno, e invece era apparso lui. Premetti il pollice sullo schermo per non far scorrere l'immagine e lo riconobbi subito. Poggiai la bottiglia di birra, togliendomi con uno scatto la coperta di plaid sulle gambe, sentendo improvvisamente caldo. Non mi ero accorta che Kobe si era accomodato in collo a me. Se ne andò a coda ritta e indispettito nell'altra stanza.

Vidi l'immagine bloccata, in bianco e nero, di un volto, visibile dal naso in giù.

Il neo sul labbro.

La mano piena di anelli, quello a fascia con la scritta leggibile solo in Love is w/nces make. La mano che reggeva la collanina con il ciondolo a forma di foglia, e la catenina sollevata sul mento, che schiacciava leggermente le sue labbra di velluto. Mi portai la mano alla bocca e chiusi gli occhi.

Lascia andare, lascia andare. Passa oltre.

Ma invece continuai a guardare quei quindici secondi di follia. Il video continuava, e il viso di Dino si scopriva in tutta la sua familiare bellezza e luce: guardava da qualche parte, i capelli spettinati sulla fronte, gli occhi scuri, ancora più scuri dal contrasto bianco e nero del video, e degli arpeggi di chitarra risuonavano, lenti, non appena avevo alzato il volume del telefono schiacciando nervosa il tasto laterale con il +.

Era apparso un tasto che collegava a un link, bloccandosi con la scritta Ascolta l'intervista a caratteri speciali e una GIF di una mano che spingeva ripetutamente l'indice verso il contenuto a cui rimandava lo sponsor. In alto, la pagina ImaprettyDino con l'icona di un T-rex accanto e la spunta blu di profilo verificato. Aprii la pagina dell'intervista, che si trasferiva sul portale YouTube, rimandando l'impulso di entrare in quel suo nuovo profilo.

Misi pausa.

E condivisi il link velocemente con Emma e Alex tramite WhatsApp.

Voi lo sapevate?

Chiesi ad ognuno di loro.

Tornai a YouTube.

Dino Olivares era ospite di un programma di musica, allestito in una specie di caffè letterario, creato appositamente per permettere agli artisti emergenti di suonare, ma anche di rispondere ad eventuali domande dell'intervistatore, in questo caso, uno dei redattori della rivista Rolling Stones, che avrebbe dedicato uno spazio solo per lui. Dino era sorridente, bello come ricordavo.

Più bello di quanto ricordassi, in realtà. Era seduto in modo scomposto sulla poltroncina accanto a quella dell'intervistatore, e la sua chitarra era imbracciata alla sua spalla, inseparabile. Mentre l'intervistatore parlava, Dino si portava continuamente la mano sui riccioli ribelli, sfuggendo lo sguardo diretto, sia verso la telecamera, sia verso chi gli rivolgeva le domande. Le gambe si piegavano e si allungavano sul pavimento senza sosta. Mi scappò un sorrisetto divertito.

Cominciai a seguire l'intervista. Parlavano del suo album di esordio, del progetto che aveva costruito con un impegno che non credeva immaginabile, dell'incredulità che gli si era dipinta negli occhi quando si era ascoltato la prima volta. Mentre Dino ascoltava le domande, notai che si fermava spesso, rifletteva, annuiva, gli brillavano gli occhi di felicità quando rispondeva. Osservai morbosamente ogni cosa di lui, le espressioni, i movimenti delle mani che gesticolavano frenetiche, le spalle che ondeggiavano spesso per cambiare posizione da quella poltrona. Mi avvicinai la birra alla bocca senza smettere di guardarlo sul telefono, poggiandolo al vaso di fiori finti davanti a me, e mettendolo a schermo pieno in orizzontale.

"Ci sono voci sui tuoi numerosi flirt, Dino. Me ne sono arrivate a centinaia." Disse ridendo, di punto in bianco, saltando di palo in frasca, l'intervistatore, un certo Omar, che gli sorrise affabile e divertito. Dino guardò dritto nella telecamera, alzando le sopracciglia e sollevando gli occhi.

"Sei sicuro, Omar?" spostò di nuovo lo sguardo sull'uomo: "perché a me non sono arrivate."

"Eh, ne hanno dette tante. Ma noi vorremmo sapere quelle vere, se capisci cosa intendo."

"Cosa intendi?"

"Per rassicurare i tuoi fan. Le tue fan, soprattutto."

"Credevo di essere qui per parlare della mia musica."

Omar scoppiò una risata, che contagiò anche Dino, allentando la lieve tensione che si era venuta a creare.

Misi pausa sul primo piano di Dino, che aveva stretto gli occhi, abbassandoli sulle corde della chitarra, per far finta di riaccordarle.

Ti stai solo facendo del male, Emilia. Mi convinsi.

Perché meno lui parlava della sua vita privata, e più capivo che una vita privata ce l'aveva. E bella piena.

Ma andiamo avanti.

"Che mi dici di questa?" e premette un pulsante in cui, sullo schermo alle loro spalle, appariva una foto della scorsa estate. Due bei volti in primo piano, Dino e una ragazza. Erano molto vicini. Molto vicini. Capelli lunghi e castani, viso acqua e sapone, con una lieve spruzzatina di lentiggini a contrasto col il sole sul viso. Dino che stringeva gli occhi. Bocche sorridenti e denti pieni.

Benissimo. Adesso posso anche chiudere.

Ma non lo feci, andai avanti. Volevo sentirlo dalle sue parole.

"Olivares, ti faccio portare un bicchiere d'acqua?"

Vidi la telecamera inquadrare Dino, che si era portato la mano al mento, osservando serio la foto. Era tornato all'intervistatore.

"Dove avete preso questa foto?"

"Ah, ma allora è vero che state insieme? Tu e Marina. Che, ricordiamo agli spettatori, Marina Belloni è l'attuale campionessa di salto in alto italiana. Giovanissima, per altro, le mandiamo i nostri migliori auguri e un grande in bocca al lupo per i prossimi campionati."

"Hai finito, Omar?"

"Ah, ah ah!"

Dino era visibilmente rabbuiato. Aveva riso anche lui, ma con molto meno slancio, lasciando credere che la sua fosse solo una battuta, ma l'avevo visto che non era così. Strinsi le palpebre, prendendo il telefono con entrambe le mani, e avvicinando gli occhi allo schermo, cercando di decifrarlo, di capire anch'io qualcosa di più. Ma Dino cominciò a suonare la chitarra, rispondendo alle domande con altre domande, fino a quando si fermò, visibilmente serio e con il mento abbassato.

"Sto solo cercando di suonare la mia musica ovunque possa farlo. Non mi piace parlare di altro. Io e Marina ci conosciamo da un po', c'è un bel legame, posso dire solo questo. Non voglio parlare di lei, perché ho grande rispetto per quello che fa, come lei ne ha per me. Non avete bisogno di sapere altro, credetemi."

"Stai dicendo che siete fidanzati? Andiamo, Dino, o sì o no."

"Omar, tu mi farai spaccare qualcosa dentro questo studio. Eppure, mi conosci bene, anche tu." Dino si passò una mano sulla fronte scostando il ciuffo dagli occhi, e tornando ad afferrare il manico della chitarra per cercare altri tasti da suonare.

Un'altra risata grassa di Omar.

"Voglio solo lasciare questa intervista con un 'pezzettino di te', prima di far partire il videoclip."

"No. Non sono fidanzato. Contento?"

"Sei single?"

"Sono single." Sbuffò.

Omar tornò con gli occhi sulla telecamera, indicando il pubblico in ascolto: "Signore e signori, ascoltiamo e rifacciamoci gli occhi. Un pezzetto di te in onda." Mentre partiva la canzone, il video in bianco e nero di cui avevo visto l'inizio sulla pagina Instagram, la chiamata di Emma mi chiuse tutte le finestre che stavo guardando.

"Smettila, Emilia..." mi rimproverò.

"Non sto facendo niente." Mi difesi, alzandomi in piedi.

"Ti farai del male a guardarlo."

"Ormai l'ho fatto."

"E...?"

Sospirai, lanciando un'occhiata al velo, afferrandone un lembo: "È diverso. Ha qualcosa di diverso addosso. Uno sguardo più serio di come ricordassi."

"Sarà invecchiato anche lui, non credi?"

"A ventisei anni non sei vecchio."

"Ventisei anni sulla terra sono quarantacinque anni nella Sony." Chiusi la telefonata con un sorriso amaro.

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