Capitolo 36. Divenire - Ludovico Einaudi

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"Vittoria."

"Eccone un'altra."

"Alex, sei un essere totalmente privo di empatia."

"Emma, sei tu che non ti dai pace nella vita. Due mesi fa ti vedevi con Giacomo, poi sei passata al suo migliore amico Alessandro e adesso sei di nuovo lesbica. Credimi, io faccio davvero fatica a essere empatico con te."

"Lesbica, etero... sono solo parole."

"Era per dire che vai in fissa per generi diversi senza un vero criterio di selezione."

"Il criterio c'è."

"Dicevo per semplificare la tua complessità. Va bene se lo esprimo così?" Disse Alex con un brillio di soddisfazione negli occhi mentre stupiva se stesso di quell'affermazione, e contemporaneamente addentava un cornetto vegano ai mirtilli, pescato direttamente dalla confezione per l'asporto.

"Vittoria è veramente bella."

"Certo, Emma. Questo sì che è un argomento forte." Alex si era girato verso di me, dandomi un colpetto sul braccio: "ERK, sei tra noi?"

"Sì, ragazzi, sto solo rileggendo delle cose." Mi piegai sul piano del tavolo, a casa di Emma, per rileggere i miei spartiti.

"Come fai a leggere tutti quei pallini neri sulle righe? Dal telefono? E con la maschera?" mi sbraitò Emma, sfiatandomi sul collo. Me la scollai di dosso, infastidita, ma dandole uno schiaffetto affettuoso sul sedere per rimetterla al suo posto. Il suo Au! divertito e ammiccante non si fece attendere.

"Ok. fatto." Poggiai il telefono sul tavolo, toccandomi lievemente la fronte all'altezza della tempia sinistra: le nuove operazioni non avevano dato esattamente l'effetto sperato. Erano tentativi, come mi avevano già detto, ma la nuova pelle non aveva aderito perfettamente e adesso quella parte del viso era di due colori nettamente diversi. Stavo diventando una specie di Frankenstein, là sotto.

O almeno era quello che vedevo io. Ero sempre stanca, sotto pressione per il nuovo lavoro, continuamente in ansia durante le registrazioni per paura che qualcuno entrasse all'improvviso. Ma Alessi con il mio agente erano stati rassicuranti: mi chiudevo la porta alle spalle, lasciavo Andy fuori sbattendogli la porta in faccia e mettendo una sicura per evitare che entrasse, anche se dubito che sarebbe entrato. Non era esattamente la tipica persona interessata a farsi i fatti degli altri. Svolgeva semplicemente le sue mansioni e basta.

Una volta dentro la sala, indossavo delle cuffie sulla testa, azzerando il volume su quella sinistra, mi strofinavo le mani contro le cosce, arricciando poi, in aria davanti a me, le dita, alternativamente come se fossero ragni intrappolati in procinto di scapparmi via dai palmi e mi isolavo dal resto del mondo, anche da quella stanza, cominciando a suonare, con la musica fuori e dentro di me. Quella stanza era diventata il mio punto di chiusura e di apertura. Durante il weekend, quando cioè non lavoravo in negozio, chiedendo il sabato libero a Ignazio, partivo per gli studi di Roma, raggiungevo la Alessi Production, passando per la portineria dove tutti ormai ed inevitabilmente mi riconoscevano, e mi facevo chiamare Andy per le chiavi della sala.

"Ciao Shaharazad." Mi diceva senza voltarsi ma camminando al mio fianco verso i piani superiori, facendo roteare il mazzo di chiavi.

Ignoravo la sua provocazione senza rispondere al saluto, roteando gli occhi al cielo, e sfilando davanti a lui con un grazie, soffiato via con grande sforzo, quando mi apriva la porta dello studio: "So dove sono le luci, faccio io." E avanzavo davanti a lui, chiudendogli l'anta e spingendo forte, sperando di schiacciargli un piede. Prima di chiudere lo sentivo spesso borbottare: "Prego, principessa." A denti stretti.

Emma mi riscosse dai miei pensieri, togliendomi l'iPhone dalle mani e mostrandomi il suo:

"Guarda cosa ho visto..." buttai l'occhio sul display. Era un reel di un'intervista di Alessi con una musica di archi di sottofondo che copriva le sue parole: aveva appena concluso una conferenza stampa, alle sue spalle il grande pannello della sua produzione e il titolo del film che troneggiava come un logo ripetuto su ogni angolo della parete.

"Che ha di sconvolgente, c'ero anche io a quella conferenza, so cosa ha detto." Mormorai, pensierosa.

"Aspetta, guarda ora." Sventolò l'immagine che appariva dopo. Un disegno creato con la modalità stop motion, che ritraeva un foglio e inquadrava una mano che disegnava abilmente e a velocità accelerata un velo con una maschera azzurra. Strinsi gli occhi, togliendo il telefono dalle mani ad Emma.

C'erano altri video con immagini fatte ad arte per riprodurre il mio velo.

#velosulviso era l'hashtag. Ci cliccai, sentendo Emma ridere sotto i baffi. Mi alzai, camminando per la stanza.

L'hashtag conteneva più di cento post con immagini sfocate del team di produzione, io ero tra loro. L'attenzione era sulla donna con il velo azzurro. Trovai persino dei tutorial di giovanissime influencer che spiegavano alla telecamera, con tanto di ring light sparaflashato negli occhi, come creare un velo sul viso con la propria sciarpa, come dargli la forma che aveva il mio. Poi un'altra ragazza parlava ai suoi followers lanciando un sondaggio su chi fosse la misteriosa ERK nascosta dietro il velo. Un altro sondaggio sulla mia nazionalità. Poi c'erano post razzisti, com'era ovvio che fosse, altri che si mettevano la kefiah bianca e azzurra e lanciavano messaggi per difendere i diritti umani #dirittiumani #velosulviso #donnavelo.

Il mio agente mi aveva avvisato: sarebbero circolate le voci da una semplice goccia nel mare. Non dovevamo fare niente, non ancora. Era bastata la foto del team di Alessi, postata ad hoc dal consulente di Galli in un'inserzione con l'hashtag #velosulviso per dare inizio al processo di repost e creazioni di contenuti basati su una singola foto.

Dopo. Solo dopo. L'esperto SMM avrebbe provveduto a crearmi un profilo autenticato. Io non dovevo fare niente. Dovevo solo comporre.

Camminai avanti e indietro nella stanza, osservando alternativamente Emma, telefono e Alex. I miei amici mi stavano fissando un po' divertiti, un po' ansiosi.

"Non sapevi niente, eh?" mi disse Alex, sorridendo dietro la mano.

"Non ti senti un po' usata? Dico, in senso buono eh." Aggiunse Emma, con una luce sfavillante negli occhi.

"Dico solo una cosa." Scossi la testa, per scrollarmi di dosso quel senso di ansia che stava cominciando a fare capolino e mi voltai verso la mia amica: "nessuno riuscirà mai a emulare questo bellissimo velo veneziano, creato dal sarto milanese. O a indossarlo come lo indosso io."

"Alla faccia della modestia." Esclamò Emma, con una risata, sbatté le mani sul tavolo, finendo di bere il suo caffè, poi riprese: "non ti posso nemmeno chiedere di fare una foto insieme, adesso, immagino. Per postarla sulla mia bacheca?"

"Non se ne parla." Strusciai indice e medio contro il pollice: "io valgo." E imitai una nota marca di shampoo.

"A proposito di shampoo..." Emma mi tolse di nuovo il telefono dalle mani e cercò una foto che si era salvata in galleria: "che mi dici di Capello Biondo, qui?" e puntò il dito su Andy, immortalato con le braccia conserte in un angolo, nella foto che era stata scattata alla conferenza stampa. Non credo immaginasse di essere parte del team, anzi, credo proprio che in quel momento si stesse facendo gli affari suoi.

"È quello che gestisce l'impianto fonico delle sale registrazioni."

"Mmmhhh sembra interessante. Fonico... sento già le mie zone erogene attivarsi."

"Non ti illudere. È l'addetto alla sala registrazioni o una cosa del genere. Mi apre la stanza e poi la chiude."

"Certo, ti apre la stanza. Partiamo già bene. Quindi vi conoscete?" Emma si rigirò la foto tra le mani, usando indice e pollice per zoomare al massimo la figura di Andy che risultò essere sgranata ai massimi livelli. L'espressione annoiata sul volto e la smorfia delle labbra piegate all'ingiù.

Non conoscevo molto altro che potesse descriverlo al meglio, ma Alex notò un mio lieve tentennamento dal rispondere alla nostra amica e si intromise subito:

"Devo preoccuparmi, sorella? Hai la bocca aperta da mezz'ora." Sghignazzò.

"Mi chiama principessa. Ma in modo dispregiativo. E poi è sempre sudicio." Mi ridestai con una voce piatta, scuotendo il velo dietro le mie spalle e alzando il mento.

"Eh, vabbè. Ho già capito tutto." Mi sussurrò Emma, sorniona, lisciandosi i capelli piastrati, lungo il collo. Cominciò ad arrotolarsi una ciocca attorno all'indice, osservandola: "Ecco il tuo Harvey."

"Il mio chi?"

"Il tuo Harvey!" ripeté, come se stesse dicendo una cosa scontata e banale: "la pianista che si fa chilometri e chilometri per andare a casa di Harvey Keitel, così può suonare il pianoforte. Lui è questa specie di bifolco ignorante che però fa un patto con lei: la donna potrà suonare il suo adorato piano in cambio di favori sessuali."

"Stai facendo un sacco di confusione." Roteai le mani a destra e a sinistra davanti al suo viso, provando a bloccarla. Alex si era grattato le tempie, defilandosi da quella conversazione.

"Prima di tutto, Emma. George, e sottolineo, George, non scambia favori sessuali con esercizi di piano. Ma scambia lezioni di piano con l'opportunità per Ada di suonare il suo pianoforte a suo piacimento."

"Ma poi cominciano a spogliarsi."

"Ma cosa c'entra? Dopo nasce un'attrazione. Cioè ti pare che io mi faccia chilometri e chilometri per Harv... per il tecnico del suono? Ho un lavoro. Anzi, due." Asserii, con convinzione. E cominciai a rollarmi una sigaretta, facendo cadere quintali di tabacco a terra.

"Sì. E io sono la Madonna di Loreto."

"Non siamo tutte in fissa con le scopate come sei tu, Emmina cara."

"Stronzate." Emma batté le mani, scuotendo la testa: "noi lo siamo. Alex lo è." Disse, indicandolo. Lui si limitò a incrociare le braccia, come discolpandosi, e Emma continuò: "sei tu che ti stai trasformando in una specie di monaca con la cintura di castità fatta di ghisa al posto delle mutande di pizzo fucsia."

"Stiamo seriamente parlando della mia vita sessuale?" mi accesi la sigaretta, allontanando la fiamma dal mio velo giusto un attimo prima che prendesse fuoco. Mentre scuotevo nervosamente la sigaretta sul lavello, proseguii: "non potete capire, e come potreste?" mi voltai guardando ognuno di loro con un'espressione di disprezzo. Ma non era verso di loro. Era verso me stessa:

"Io non farò la vittima, né qui davanti a voi, né davanti a nessun altro; quindi, lo dirò una sola volta e non tornerò mai più sull'argomento." Presi fiato: "non voglio essere compatita. Ma dovete provare a mettervi nei miei panni. Io mi faccio schifo. Non mi riconosco, non ci riesco. Non provo niente, solo disprezzo per il mio corpo. Tu, Emma, lo dovresti comprendere più di tutti. Non vedo la bellezza che avevo prima, non riesci a capire quanto possa essere frustrante per me? Non lo capisci il disagio che provo?"

"Emi, io ci provo a capirti. Credimi. lo faccio ogni giorno, e ogni giorno quando mi alzo penso a te. Alex pensa a te. La tua famiglia pensa costantemente a te. Ma devi essere tu la prima ad accettare questa cosa. Perché per noi tu sei bellissima. Non sei uguale a prima, è vero. Ma credimi, se ti dico che se la tua bellezza si è trasformata è solo in meglio."

"Non ce la faccio, Emma." Mi sedetti accanto a lei, portandomi la mano sul volto, che aveva iniziato a bruciare. Era ora di prendere gli antidolorifici e gli antibiotici prescritti per le nuove cicatrizzazioni.

"Un'altra notte di baruffe per il maledetto." Ruppe il silenzio, Alex, leggendo il titolo sul giornale online che stava consultando sul suo tablet.

"Come se non ne avessimo già abbastanza, di maledetti, qua. Che roba è? Fa' vedere." Emma si alzò per sedersi sulle gambe di Alex e nel passare mi dette una leggera culata. Si portò le mani alla bocca, stirando al massimo la sua schiena:

"Uuuhhhhh."

Entrambi si voltarono verso di me. Che cosa volevano ancora?

Mi avvicinai, infilando la testa in mezzo ai loro corpi, chinandomi sul tavolo, per leggere l'articolo che parlava di lui. Sulla prima pagina del giornale online, un'emblematica foto scattata poco prima di chiuderlo in cella, capelli celesti sbattuti sul viso, uno zigomo rotto con sangue secco sulla pelle, occhi cerchiati di nero che guardavano fisso l'obbiettivo con aria di sfida. Bocca morbida, ma stretta dalle mascelle tirate al massimo. Il piccolo neo sul labbro inferiore. Mi sollevai di scatto. Non volevo perdere un minuto di lettura per conoscere le nuove gesta del vero artista di questa città. Era solo un acchiappa click.

Dino.

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