Capitolo 44. Arrival of the birds & Transformation - The Cinematic Orchestra

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Il male continuava a scorrere nelle mie vene. Sussultava a ogni nota, come se il mio cuore pompasse gocce di sangue solo per farle scolare sulle dita, mentre toccavano i tasti. Quei tasti si stavano macchiando di un rosso scuro, ma un rosso vivo.

Ripresi a scrivere. Dovevo mandarlo via, dovevo scacciare quel dolore che continuavo a sentire.

A volte non scrivevo niente, lasciavo che le mani si muovessero da sole sulla tastiera del vecchio Yamaha di papà, quando potevo farlo, sola nella loro casa.

Non ricordavo più niente neanche io.

Ero come Dino.

Avevo dimenticato tutto di lui. La cosa che mi faceva soffrire era proprio questa: perché una persona di cui ricordavi solo alcuni, pochi, tratti fisici, di cui avevi dimenticato l'odore nonostante i milioni di volte in cui il mio naso aveva affondato sul suo collo, e il mio corpo era stato stretto nel suo abbraccio opprimente...perché continuava a infastidirmi, a insidiarsi nella mia carne come una lama che recideva, lentamente e con precisione, la mia pancia?

Dino era come mia madre. Riconoscevo la sua voce, ma ne dimenticavo facilmente i tratti, fino a quando una rivista patinata o uno scatto sulle pagine social, filtrate e modificate, non mi ricordavano le vaghe sembianze di queste figure, eteree, finte, plastiche.

Alzai gli occhi davanti a me, fissando l'incisione sul coperchio del pianoforte di papà. Le mani continuarono la loro danza solitaria, cercando la loro risposta, senza un timone al comando.

Dove sei?

Stai bene?

Perché mi hai scritto?

Cosa hai saputo, cosa hai visto, cosa hai sentito?

Dino.

Cosa sei?

Di che materia sei fatto?

Smisi di suonare il piano. Mi tolsi bruscamente il velo di seta gettandolo a terra al mio fianco, sentendomi mancare il respiro. Il riflesso del legno lucido e nero mi restituiva l'immagine del mio volto distorta, demistificata, vera, eppure così deformata dalle pieghe del mobile. Chiusi gli occhi, sentii la pelle respirare aria limpida intorno alle parti così a lungo coperte e percepii un venticello leggero provenire dalla portafinestra socchiusa della veranda. Mi accarezzò le cicatrici come una mano dolce e amorevole. Mi alzai lentamente, e, senza alcuna protezione sul mio viso, scesi nel garage di mio padre. Cercai la scatola di Amazon Prime.

Poggiai le cornici delle nostre foto, dei nostri ricordi, sul pavimento polveroso del garage, illuminato da una lampadina scoperta appesa al soffitto. Osservai quelle foto di due giovani ragazzi spensierati, toccandole una ad una. E ogni singolo ricordo conquistò ogni cellula del mio corpo, sfidando il tempo e gli spazi che ci separavano. Vidi i miei piedi arrampicarsi sul pedale della mia bici e salire poi sui suoi, mentre le sue braccia forti mi abbracciavano nel nostro primo bacio. Osservai le sue mani muoversi sicure sulle corde della sua chitarra come se scrivessero una storia tutta loro; e le sue labbra morbide muoversi sul microfono, mentre i suoi occhi con le lunghe ciglia cercavano i miei per attirare la mia attenzione, senza sapere con certezza che loro, quell'attenzione, l'avevano sempre avuta.

Vidi le sue mani circondami la testa con la sciarpa azzurra, e il suo fiato spostarmi la stoffa sul viso mentre mi diceva che ero sola, che dovevo concentrarmi. Suonare qualcosa per lui.

E poi, ancora, vidi le mie mani sotto le sue, mentre gli insegnavo la postura corretta per suonare il pianoforte. I suoi abbracci stretti da togliere il fiato, i suoi scatti di ansia, di felicità, di generosità.

Gli abbracci tra le lenzuola arrotolate, la sensazione di felicità racchiusa in quattro mura ingiallite.

Noi sdraiati sui lati contrari del letto a confidarci e a passarci l'unica sigaretta accesa.

Lui che capiva i miei sbalzi di umore e provava a distrarmi.

Io che capivo i suoi, ma li sminuivo sempre.

"Io devo tanto a te." Dissi, nel vuoto del garage, senza nessun altro presente, a parte me e la mia solitudine: "tu hai detto che dovevi molto a me, ma era il contrario. Io ho solo preso, Dino. Non ti ho mai detto grazie." Cominciai a piangere, da sola, in un silenzio strozzato da qualche mio singhiozzo.

Accarezzai il selfie che si era fatto da solo al tavolo del mio appartamento, con il ciondolo della foglia argentata che spiccava sopra il suo petto tirato. Il volto ripreso dal basso, le mascelle leggermente tese, gli occhi bassi concentrati sullo scatto da farsi. Cosa sei diventato, adesso?

"Perché mi hai scritto un messaggio?" bisbigliai, al volto nella foto. Poi alzai gli occhi al soffitto, senza fermare altre lacrime che rigavano il mio volto segnato e polveroso.

Affonda nel dolore.

Mi aveva detto Nicla, tempo fa. Così continuai a seguire questo consiglio. Riposi tutto nello scatolone, lo spostai con i piedi alla base di uno scaffale, accanto ad altri. Tirai fuori la scatola che conteneva i regali mai indossati di mia madre, e sfilai il braccialetto rosso, insieme al suo biglietto di accompagnamento: Tendiamo nel vuoto molteplici fili di ragno per formare la tela che possa trattenere la felicità. Sperai che, da qualche parte, questa felicità fosse rimasta trattenuta, anche solo per un po', fosse stato anche per vederla una sola volta. Mi legai al polso sinistro il filo rosso che fungeva da braccialetto regolandomelo a misura perché non stringesse troppo.

"Tendiamo altri fili." Mi dissi.

Tornai dentro casa, prendendomi gli ultimi minuti di tempo per raccogliere il mio velo da terra e indossarlo di nuovo, e modificare le mie pagine del brano che avevo appena composto: si intitolava Il Velo Sul Viso.

Chissà se una voce avrebbe urlato Ego smisurato! da qualche parte, anche questa volta, mi domandai con un accenno di sorriso.

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