Capitolo 22: UN VECCHIO AMICO

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La serata al cinema trascorre piacevolmente. America e Penn sono simpatici e gentili con me, mi permettono di scegliere il film da vedere e mi fanno sentire a mio agio. Per qualche ora dimentico tutti i miei problemi, tutti gli schemi da sostenere e mi sento la ragazza qualunque di un tempo. Quando l'auto di Penn imbocca il viale che porta al college sono ormai le undici passate. America sbadiglia, facendo una smorfia così buffa da lasciarmi sfuggire un sorriso. Non avrei mai pensato fosse possibile un lavoro simile, la sua bocca si allunga fino alle orecchie, mostrando le tonsille. Penn accosta vicino all'entrata dell'edificio.

"E' stata una serata magnifica" America, nonostante la stanchezza, non ha ancora perso la sua immancabile euforia. "Grazie, Holland per essere uscita con noi"

"E' stato un po' come tornare alle...origini" scendo dai sedili posteriori, indossando la borsetta a tracolla.

"Ci vediamo presto" si spinge in uno dei suoi abbracci quasi soffocanti.

Accedo al dormitorio in punta di piedi, sperando che Ashley sia a qualche stupida festa insieme a Phoebe. Già immagino il suo interrogatorio sul dove e con chi sono stata. Quando sono uscita non era in stanza ed io mi sono limitata soltanto a scriverle che avrei passato un paio di ore fuori. Purtroppo, non appena giro la chiave, le mie speranze vanno in fumo. La luce è accesa. Chiudo gli occhi e trattengo il fiato, come se dovessi buttarmi da un trampolino alto dieci metri. Il mio cervello si mette subito in moto per elaborare la scusa più credibile.

"Sei una bugiarda!" La voce di Ashley mi fa spalancare le palpebre, strappandomi via dallo stato di apnea nel quale sono piombata. "Ti ho vista sai? Sei scesa dall'auto di quello sfigato di Penn, e hai abbracciato quella brufolosa di America, tu sei uscita con quei due rammolliti!" mi punta contro il suo indice lungo e snello. "Tu, una cheerleader, compagna di stanza di Ashley Benson e amica intima di Phoebe Tonkin, hai trascorso una serata con gli OUT, ma ti rendi conto di quello che hai fatto?"

Dentro di me sento appiccare il fuoco; una fiamma debole che però si ingigantisce ad ogni respiro che faccio. Mi sento prudere le mani, incendiare le orecchie e il volto. Nella testa vedo tutto nero e le parole mi escono senza che possa gestirle.

"Sono uscita con Penn e America, è vero, e mi sono pure divertita un sacco!" esplodo.

Ashley spalanca la bocca, non so se definirla indignata o semplicemente allibita dalla mia risposta.

"Ho passato una serata tranquilla, semplice, finalmente normale"

"Tu hai la febbre, tu non stai bene, sì, sono sicura che non stai affatto bene. Dovrei chiamare un dottore, credo proprio che dovrei farlo..." si muove, alla ricerca della sua agendina con i numeri telefonici.

"Ahley! Ashley!" la blocco, trattenendola per un polso. "Sto bene, non ho bisogno di nessun dottore"

Lei però non sembra intenzionata a fermarsi, apre il cassetto del comodino poi quello dell'armadio, si sposta come una trottola impazzita, facendomi salire il nervoso.

"Ashley, fermati per favore!" grido.

Finalmente si immobilizza, di spalle, con i pugni stretti e le braccia afflosciate lungo il corpo.

"Tu non puoi uscire con quella gentaglia" dice freddamente. "Se continuerai a farlo, noi due non saremo più amiche. Devi scegliere, cara Holland Roden, o America o me"

Il mio cuore ha un sussulto. Davanti agli occhi mi appare il viso sorridente di America e quello semplice e buono di Penn, l' hotdog preso alla bancarella e la doppia razione di popcorn. Mi appare di nuovo tutta la mia vita da bambina. Mia madre, le strade trafficate e chiacchierate del Bronx. Il caos, la gente, i vestiti sporchi e quelli appena comprati da custodire come fossero oro.

"Non ho bisogno di scegliere" sputo fuori, "io non sono una IN non lo sono mai stata"

Quello che mi ero prefissata, tutti i miei programmi di buona condotta vanno improvvisamente in frantumi, bruciati da quel fuoco tanto potente che mi incenerisce l'anima. Le mie mani tremano insieme alle labbra e a tutto il resto del corpo.

"Mia madre è morta per strada, mio padre è un semplice operaio e sta crescendo da solo quattro figli, ho una borsa di studio che mi permette di frequentare questa scuola. Vengo dal Bronx e ho finto di essere quella che non sono solo per non avere problemi con gente del tuo rango sociale"

Le spalle di Ashley si abbassano, mentre si volta per guardarmi finalmente in faccia. Il suo volto è segnato da una ruga profonda al centro della fronte.

"Tu vieni dal Bronx..." farfuglia, "tu non sei...tu non sei..." Ashley scuote la sua fluente chioma bionda. Il suo balbettare è più eloquente di mille altre frasi.

"Io non sono parte del tuo mondo e tu non lo sarai mai del mio" termino la sua frase.

Il mio respiro è agitato, mi sento lo sterno alzarsi e abbassarsi a ripetizione. Ogni parte del mio corpo trema, ma al contempo si sente più leggera. Ho detto la verità, quella che fa male, quella che mi porto dentro da quando sono arrivata in questa scuola. Adesso non mi resta che aspettare la volontà del destino.

Ashley supera il momentaneo stato di shock e riprende a muoversi compulsivamente. "Dunque mi hai mentito per un anno intero, hai mentito a Phoebe, alle ragazze della squadra, ad Hunter, a tutti!" sbraita, "adesso si spiegano molte cose, capisco perché hai aiutato America in spiaggia e perché non ti intendi affatto di moda, sei un'infiltrata ed io ci sono caduta come una maledetta stupida!"

Il calore che ho dentro divampa furibondo, come una miccia in un bosco erboso, esplode e si diffonde ovunque. La testa mi scoppia e gli occhi mi si riempiono di lacrime. E' tutto finito. Da questo momento la mia vita al college non sarà altro che un inferno e tutto questo per colpa mia, mia e di nessun altro. Sentimenti contrastanti ribollono dentro di me come carne al fuoco. Odio la mia vita, odio la vita degli IN, odio pure me stessa.

Ashley non muove più un muscolo mentre io afferro la valigia che tengo sotto al letto e inizio a riempirla con le prime cose che trovo sotto mano. Afferro calzini, slip e magliette e butto tutto quanto dentro a caso; il mio pigiama e gli stivali messicani. Con gli occhi velati dalle lacrime corro in bagno, getto i miei effetti personali in un sacchetto e torno a metterlo nella valigia.

E Ashley ancora non si muove. Con la coda dell'occhio la vedo solo sedersi sul letto, affranta e al contempo molto arrabbiata, mentre io me ne vado, sbattendo brutalmente la porta. Tiro il trolley lungo il linoleum, il rumore ovattato delle piccole ruote è l'unico suono che si sente dentro l'edificio semivuoto, oltre ai miei singhiozzi naturalmente. Non so dove sono diretta, sto ancora tremando e ho la faccia che è un vero e proprio pasticcio, ma faccio di tutto per uscire da questo buco. Ho bisogno di aria. Devo, voglio respirare.

Vago per il cortile come un fantasma. Io e il mio trolley. Mi asciugo gli occhi e soffio il naso un paio di volte, fin quando non raggiungo lo Starbucks. La luce giallognola dei suoi faretti minimali mi fa capire che è ancora aperto. Cerco di dare una ripulita ai miei zigomi ricoperti di rimmel. Procedo verso l'entrata a grandi passi ma, più sono vicina, più mi rendo conto che c'è qualcosa che non va. O meglio qualcuno che non va. Phoebe. Riconoscerei il suo accento e la sua odiosa risata anche a chilometri di distanza. Mi acquatto dietro un cespuglio per non farmi vedere. Non passerà molto tempo perché sappia chi sono veramente e inizi a torturarmi o, perlomeno, a farmela pagare, ma fino a quel momento preferisco evitarla.

"Non avevo mai fatto quel belllissssimo gioco...hi..." singhiozza, barcollando sui suoi tacchi alti.

Dietro di lei c'è un ragazzo, nel buio posso scorgere i suoi capelli biondi e la sua luminosa camicia bianca. Mi faccio un po' di posto tra i rami per vedere meglio. Improvvisamente il mio cuore sobbalza. Sento lo stomaco salire e scendere in picchiata, come una montagna russa un attimo prima del giro della morte. Hunter. Il ragazzo con Phoebe è proprio Hunter.

"Stai attenta, rischi di farti male" accorre a prenderla sotto braccio.

Phoebe si avvinghia a lui, continuando a ridere e a parlare di un gioco, di whisky e di quanto il mondo sia bello e su misura per lei. A un tratto addirittura canticchia una canzoncina, poi lei e Hunter scompaiono in fondo alla via, diretti al dormitorio. Impiego alcuni istanti per tornare a pensare e agire come una normalissima persona. Dov'è Zac? Perché Hunter è con Phoebe a quest'ora di notte? E quale gioco hanno appena fatto? E poi, mi interessa davvero sapere tutto questo? Mi interessa sul serio Hunter? Non ho una risposta a nessuna delle domande, mentre ho davvero tanta voglia di piangere e dimenticare questa brutta giornata.

Mi porto dentro il locale con le poche energie rimaste. Mi siedo e ordino un'aranciata, ma poi ci ripenso e opto per qualcosa di più forte. Scaccio la voce dentro la mia testa che mi dice di non bere alcool e chiedo un Long Island.

Il cameriere, un ragazzo sulla trentina, sbarbato con un vecchio taglio di capelli, di quelli con la divisa in parte, si pone di fronte al mio tavolo con le mani dietro la schiena e mi domanda: "Mi fa vedere i documenti, signorina?"

Frugo nella borsetta e trovo soltanto il libretto del college.

"Non ha ancora ventun anni, non posso portarle un Long Island" me lo restituisce, "se vuole posso farle una coca alla spina o un frullato di frutta fresca"

Rivolgo al povero cameriere uno sguardo truce. "I due ragazzi che sono appena usciti, loro avevano preso del whisky" gli faccio presente.

Il giovane, anche se dall'aspetto sembra decisamente un mio vecchio antenato, resta composto nel suo ruolo di moderatore di animi. "Il signore che è appena uscito aveva ventun anni compiuti" dice.

"Il signore che è appena uscito è il mio fidanzato ed era insieme alla mia amica-nemica Phoebe, dunque credo di meritarmi un Long Island, non trova?" sbatto una mano sul tavolo, totalmente fuori di me.

Il cameriere fa un passo indietro. "Penso che lei debba calmarsi, altrimenti dovrò chiamare la sorveglianza"

Mi lascio cadere con le spalle indietro sulla poltroncina. Il senso di inquietudine e di agitazione mi divora. Sembra che tutto il dolore che sono riuscita ad appiattire e a neutralizzare torni di nuovo a galla. Si fa posto, a gomitate, per pizzicarmi malvagiamente il cuore.

"Non c'è bisogno di alcuna sorveglianza" scatto in piedi. Afferro il mio trolley e mi dirigo verso l'uscita. "Me ne vado da sola!"

Prima di lasciare il locale però mi sporgo sul bancone e afferro una delle bottiglie presenti. Lascio una banconota sul piano e fuggo via.

Il cameriere mi viene dietro. "Non può andarsene con quella, lei non può prenderla!" grida.

Scappo via nella notte, lasciando il ragazzo sull'uscio dello Starbucks a chiedersi se chiamare o meno le guardie.
Mi allontano di qualche metro correndo e, solo quando imbocco il viale alberato, riduco il passo. Mi sento uno schifo. Il trolley è un impiccio e la bottiglia che ho preso allo Starbucks è solo piena per metà. Una vera fregatura. Proprio come tutta la mia vita, tutte le mie scelte.

Sono da sola, fuori dal college ed è ormai notte inoltrata. L'aria si è raffrescata e inizia a pizzicare sulla pelle delle mie braccia nude. Decido di fermarmi su una panchina in prossimità del giardino. Poso la bottiglia accanto e mi prendo la testa tra le mani. Forse dovrei chiamare la mia analista, ma a quest'ora potrebbe impaurirsi. Non è piacevole ricevere telefonate quando è troppo tardi. Oppure potrei andare semplicemente a chiedere ospitalità ad America. Già. Potrei fare proprio così, è la soluzione migliore. Solo un momento. Solo un altro piccolissimo momento.
Ed è l'attimo fatale.

Guardo la valigia ai miei piedi e poi la bottiglia. Il liquido trasparente di quello che pare alcool puro mi attira nella sua acre e potente trappola. I ricordi si fanno vivi. I ricordi dei miei giorni più bui, quando quella sostanza liscia, chiara, decisamente forte faceva parte più che mai della mia vita. Allungo il braccio e, senza la minima esitazione, svito il tappo.

L'alcool è stato il mio migliore amico, non importa se mi ha tradito, se mi ha fatto stare male, finché c'era lui vicino a me io non avevo paura. O forse ne avevo più di quanta credessi. 

Bevo dapprima con incoscienza, senza assaporare, senza ascoltare la lingua che brucia e la gola che va a fuoco, poi con maggior consapevolezza. Bevo per ritrovare quell'amico che ho perso, per non sentirmi di nuovo da sola. Bevo pensando a mia madre, a Ian, a Ashley e a Hunter. Bevo perché spero di annegare tutti quanti in fondo al cuore.

Mio padre o la mia psicoanalista non sono qui per fermarmi e neanche Daniel c'è. Daniel Radcliff. Quello strano ragazzo conosciuto alla festa in spiaggia. I suoi occhi buoni e sinceri, dietro le lenti spesse, mi strappano un sorriso. Le sue parole mi offuscano decisamente la realtà. C'è sempre una scelta, sempre. Ma non in questo caso. Altri hanno scelto per me ed io non posso fare altro che rintanarmi nelle mie sicurezze.

Pian piano l'acool che ho in circolo inizia a fare il suo effetto. Ogni cosa, albero o mattone dell'edificio si sfuoca di fronte alla mia vista. Mi gira la testa e capisco che ci siamo. E' il momento più insito di questa vecchia amicizia.

Mi stendo sulla panchina, rabbrividendo appena. Il vetro scivola a terra, mentre il mio braccio penzola di sotto. La spirale di vuoto si riempie pian piano, affievolendo il dolore. Chiudo gli occhi e aspetto soltanto che questa notte senza luna finisca. E io con lei.

NOTE AUTRICE:

Sera lettori!!!
Da dove state leggendo questo capitolo?
Sono curiosa!
Mare, montagna o semplicemente la propria cameretta?

Buona serata
Baci ;)
Serena

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