Capitolo 29: ANDRA' TUTTO BENE

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La sera stessa lo staff dell'hotel Clarke impiega meno di due ore per ripulire la stanza. Quando è tutto di nuovo in ordine e gli operai se ne sono andati, Ian propone di prendere cibo indiano da asporto. Ha visto l'insegna fuori dal ristorante all'angolo della strada e sembra molto entusiasta.

"Non ho mai mangiato pollo al curry e neanche pollo tandoori" legge il volantino del menù. Poi compone il numero di telefono del locale e mi lancia uno sguardo: "ordino anche delle polpette di patate?"

Annuisco, lasciando a lui la scelta del cibo.
Mi siedo sul letto con in mano il libro di biologia. Cerco di concentrarmi sulla vita riproduttiva dei topi da laboratorio, ma non è affatto un gran bel argomento, almeno non affascinante abbastanza da portare la mia testa lontana da tutto quello che mi sta accadendo intorno. I miei pensieri viaggiano come un treno sulla direttissima, facendomi continuamente perdere la concentrazione.

Quando il fattorino ci porta i piatti ordinati, finalmente chiudo il libro divenuto soltanto una tortura. Mi siedo di fronte a Ian al tavolino della camera e spilucco la mia porzione.
Ian si gusta la carne speziata e le patate, emettendo ogni tanto suoni gutturali di apprezzamento. Tra un boccone e l'altro mi lancia uno sguardo un po' per studiare il mio umore un po' per assicurarsi che mi piaccia il cibo. Durante la cena non accenniamo a quello che è successo, non parliamo del pendolo, di chi possa cercarlo. Niente riferimento a Tom. E benché mi risulti difficile riesco ad accantonare anche l'immagine di Melinda e Ian. La mano di lei sul fondoschiena di lui non è stata affatto piacevole.

A fine serata sintonizziamo il televisore su uno di quegli stupidi programmi dove un comico si sforza in ogni modo di far ridere il pubblico, ma nessuno di noi due sembra divertirsi. Evidentemente siamo troppo stanchi anche solo per ridere. Restiamo in silenzio, con gli occhi incollati allo schermo per una buona mezzora, poi le labbra di Ian si aprono in uno sbadiglio, rompendo la strana quiete che si è venuta a creare. 

"Quali sono i tuoi programmi per domani?" chiede.

"Ho lezione fino all'ora di pranzo" stiro in alto le braccia. Siamo entrambi distesi sul letto con una buona quantità di cuscini sotto alla testa; io leggermente raggomitolata, Ian dritto con un piede incrociato sull'altro.

"Come vanno le cose al campus?" indaga con voce incerta. "Hai rivisto Ashley e il tuo...il tuo ragazzo...?"

Annuisco con un semplice cenno della testa. Non ho molta voglia di affrontare l'argomento, ma capisco che Ian voglia sapere come stanno andando le cose. In fondo glielo devo, è stato lui a salvarmi dall'alcool e dalla disperazione. E tutta questa storia della stanza messa a soqquadro non ci ha dato modo di parlarne.

Distolgo lo sguardo dal programma e lo rivolgo al suo profilo. La penombra della stanza lo rende decisamente attraente. I suoi zigomi alti e il lieve accenno di barba che gli sta ricrescendo sul mento mi provocano una strana sensazione allo stomaco che si irradia fino al basso ventre, come un buco o un formicolio.

"Come è andata?" insiste, voltandosi a sua volta verso di me.

"Ecco..." La nostra vicinanza è sottile, i nostri respiri sembrano viaggiare in simbiosi. Cerco di non pensare che siamo sullo stesso letto. Cerco di non pensare ai nostri volti così a pochi centimetri di distanza e, soprattutto, provo a distrarmi dalla confusione che ho dentro. Il mio corpo è agitato e ansioso e mi manda segnali più che chiari per farmi capire che sono attratta da questo ragazzo. Ma non posso ascoltarlo. Non è giusto. Non è neanche logico e sensato. La frase di circostanza che cerco di ripetermi da qualche giorno: Ian è un uomo sposato, non è più sufficiente per tenere a bada il mio cuore perché sento che batte così forte che pare voglia esplodermi nel petto.

Lo sguardo di Ian mi incoraggia a rispondere alla sua domanda ed io faccio uno sforzo enorme per restare con i piedi per terra e farneticare: "Ho seguito la stessa lezione di Ashley, lei...noi...noi ci siamo guardate ma non abbiamo parlato. Non ci siamo dette niente, credo che sia tremendamente arrabbiata con me. Lo è, ovvio che lo è..."

Ian allunga la mano a sfiorare il mio viso, sposta la ciocca di capelli che lo coprono e mi sorride. Il suo gesto, la sua bocca, la punta delle sue dita mi mandano in un nuovo mondo fantasioso. Inutile cerchi di restare con le suole incollate a terra, la forza dei suoi movimenti mi trascina ancora una volta in un orbita sconosciuta.

"Dalle tempo, fa sì che metabolizzi tutte le informazioni che le hai confessato"

L'espressione ferita, superficiale e al contempo altezzosa della mia compagna di stanza mi toglie ogni speranza di riappacificazione. Sono ufficialmente fuori dal suo mondo e non ci sono vie di mezzo.

"Sono stata anche espulsa dalla squadra delle cheerleaders" aggiungo con voce piatta, come se fosse solo una banale comunicazione.

"Phoebe" Ian solleva le sopracciglia mentre pronuncia il nome della capo cheerleader, "quella ragazza ha qualcosa di diabolico in corpo. Mi ricorda il mio caporale maggiore!"

La sua allusione mi strappa un sorriso. Le lunghe gambe di Phoebe e il suo sedere perfettamente rotondo non hanno molto a vedere con l'immagine di un soldato, ma il suo autocontrollo, la sua ferrea disciplina lo sono eccome.

"Lei e Hunter sembra proprio che abbiano stretto una bella amicizia" punto gli occhi al soffitto, rammentando la notte allo Starbucks. "Questa mattina li ho trovati in un atteggiamento che faceva pensare a ben più di un semplice abbraccio tra conoscenti"

"Te l'ho detto, tu meriti di più di un ragazzo come Hunter. Credo che i suoi muscoli assorbano quasi tutte le energie, anche quelle necessarie per far lavorare il cervello!" mi strizza un occhio.

Sorrido.

Il comico lascia posto allo spazio pubblicitario. Le dita di Ian si avventurano sulla coperta fino a raggiungere le mie. La sua stretta mi fa volare e al contempo planare in un sonno leggero. Ci addormentiamo così, mano nella mano, alla giusta distanza e sullo stesso letto. La televisione accesa.
***

Al mattino seguente quando entro al campus trovo l'intera squadra delle cheerleaders riunita in cortile. Non ho altra scelta se non quella di trattenere il fiato e passare davanti alle ragazze. Scorgo Ashley con il telefonino in mano, vedo che solleva lo sguardo e lo riabbassa immediatamente sullo schermo non appena mi vede. Phoebe è intenta a tirarsi i capelli in una coda di cavallo ed una matricola le tiene davanti uno specchietto, spostandosi a destra e a sinistra in base alle sue richieste.

"La regina delle OUT" sghignazza qualcuna mentre attraverso l'aiuola.

Percepisco gli occhi di Phoebe spostarsi su di me, li sento premere sulle mie spalle, infuocati e perfidi.

"Ehi, Holland, dove hai preso quegli stracci? Al mercatino degli scout?" si leva una voce.

"Vacci piano, amica, ha una fondina nascosta sotto allo zaino" ribatte un'altra.

Stringo i denti e cerco di non ascoltarle, ma la voce di Phoebe si fa spazio tra tutte e mi arriva dritta alle ossa. Proprio in fondo alla pelle, sotto ai pori. "Dove vai? Scappi a piangere dalla mammina?" La sua bocca sputa fuori un sorriso che sa di acido e cattiveria.

Mi volto di scatto, con il cuore rotto a metà. Possono darmi di stracciona o emarginata. Possono dirmi che non sono alla loro altezza, ma nessuno deve tirare in ballo mia madre.

"Oh, che stupida, scusami tanto, non ricordavo che fosse...morta"

Stringo lo sguardo sulle mani di Phoebe falsamente posate sul petto. Tutta la rabbia repressa nei suoi confronti esplode in meno di un battito di ciglia. Dallo stomaco si espande ai polmoni, alla gola, alle tempie fino ad entrarmi dentro il cervello. Comandata dal semplice impulso della sopravvivenza mi scaglio contro di lei, urlando. La folla delle ragazze in gonnellino verde si scansa, mettendosi a semi cerchio. Anche Ashley si allontana, la vedo con la coda dell'occhio mentre abbassa il braccio con il telefonino e fa un paio di passi indietro. Intanto Phoebe mette le mani avanti, gridando cose incomprensibili.

"Ti odio, ti odio" La mia voce è un grugnito indistinto.

Mi libero dello zaino che cade a terra in un tonfo. Mi aggrappo ai capelli della regina indiscussa del campus e li tiro come se volessi strapparli di netto. Tutta la mia frustrazione si sfoga con la sua chioma bruna. Le sue urla di dolore mi scivolano addosso, come se non esistessero e le mie dita stringono più forte la presa.

"Hai mentito a tutte e hai tradito Hunter, puttana!" grida lei. Le sue braccia si muovono a vuoto, arraffando soltanto l'aria circostante.

"Non ho tradito nessuno" mi difendo. Il mio viso è a un centimetro del suo. Posso vedere benissimo ogni singolo segno di dolore fisico che prova.

"Hai una bella faccia tosta! Dove hai lasciato il tuo amichetto dagli occhi blu?" ringhia, "Hunter non merita tutto questo, non merita te, brutta bugiarda!"

Il mio sguardo si stringe sul suo e il mio respiro aumenta insieme alla rabbia.

"Ian è solo un amico! Se una di noi due è una puttana non sono di certo io. Hai sempre avuto un debole per Hunter e adesso ne stai approfittando, tradendo Zac! Sai cosa ti dico? Non mi importa niente, né di te né di lui, né di tutta la tua squadra di oche giulive!" Le parole mi escono dal profondo dello stomaco, rotolano fuori con forza, provocando un chiasso generalizzato.

Phoebe grugnisce. Un vero e proprio suono gutturale che non ha niente a che fare con la voce di una donna. Poi le sue gambe iniziano a muoversi, mollandomi repentini calci che, per fortuna, riesco a schivare con un'abiltà sorprendente.

La pressione esercitata dalle mie dita sui suoi capelli però cede, lasciando a Phoebe modo di sfuggire. E' un istante. Fa un passo indietro, poi un altro, prende la rincorsa e gridando, come se avesse un demone in corpo, si scaglia contro di me. Finisco a terra di schiena, sbattendo un fianco. Reprimo un lamento e schivo i pugni che la bruna mi tira addosso. Un paio mi colpiscono sul seno, facendomi addirittura lacrimare gli occhi.

"Ma cosa sta succedendo qua?"

Qualcuno afferra la furia sopra di me, allontanandola dal mio corpo.

"Lasciami, lasciami!" urla Phoebe continuando a scalciare e a muovere le braccia in modo del tutto sconclusionato.

Una mano mi aiuta ad alzarmi. I miei occhi finiscono su quelli scuri della sorridente America, che al momento però non sembra affatto serena. Le sue labbra sono contratte in una smorfia di disappunto e preoccupazione.

"Holland, stai bene?" Le sue mani mi passano sulle braccia e sul viso per constatare che non ci sia qualcosa di rotto. "Dimmi che stai bene, per favore"

Lancio uno sguardo a Phoebe, tenuta ferma da Penn e torno a guardare America. "Sto bene" la tranquillizzo.

Alcune delle ragazze mi passano davanti arricciando il naso e alzando il mento.

"E comunque nessuna di noi è un'oca giuliva. Volevamo che tu lo sapessi!" dice l'ultima della fila, puntandomi un indice contro.

Ashley guarda le compagne di squadra e poi guarda me. I suoi occhi sembrano dispiaciuti ma anche arrabbiati da tutta questa assurda situazione. Hanno sfumature di tristezza e segni di solitudine. In un piccolo angolino sembra esserci anche voglia di riappacificazione, ma forse è solo una mia impressione. I suoi piedi indietreggiano di qualche passo per poi fuggire via.

Penn allenta la presa contro Phoebe, restando tuttavia in allerta.

"Me la pagherai, Holland! Me la pagherete tutti e tre, stupidi OUT!" ringhia la bruna, tentando di ricomporsi.

La minaccia di Phoebe si perde nel cortile, mentre scappa via, seguendo le orme di Ashley.

Pian piano anche gli studenti in cortile si allontanano, tornando alle loro attività ed io finalmente non mi sento più osservata. Raccolgo il mio zaino da terra e guardo Penn avvicinarsi. America mi posa un braccio intorno al collo e sembra non volerne sapere di abbassarlo.

"Ma che ti è preso?" chiede il ragazzo.

Mi limito a fare spallucce. America mi abbraccia e Penn posa una mano sulla mia spalla.

"Ho capito. Benvenuta nel nostro mondo, Holland" dice.

I miei occhi incontrano le sue iridi nere. Le parole di Phoebe rimbalzano nella mia testa. Bugiarda e puttana. Per un attimo penso che lei abbia ragione. Ho mentito a tutti quanti e, soprattutto, sto provando qualcosa per Ian. Qualcosa che non dovrei. Il solo pensare a me e a lui insieme mi manda il cervello in pappa. Non riesco a respirare, non riesco proprio a farlo. Il mio cuore scoppia di dolore, di nuovo.

"Phoebe ha ragione" biascico, "ha maledettamente ragione"

Il mio sguardo adesso è nel vuoto. Lontano dagli occhi scuri di Penn e da quelli buoni di America.

"Holland, va tutto bene" America mi stringe contro il suo petto prosperoso.

Una lacrima mi solca la guancia mentre il dolore scava a fondo. Per quanto America mi dimostri tutta la sua comprensione, il suo volermi bene non è sufficiente. Un nodo in gola sempre più forte e il desiderio di fuggire lontano, da questa scuola, da questa gente, da questa vita si impossessano di tutta la mia anima. Al diavolo il college, al diavolo le lezioni del professor Wilder e quelle dei suoi assistenti. Voglio tornare a casa. Ho bisogno di mio padre, di sapere che sono sempre la sua bambina. In un impeto di rabbia e paura mi scosto bruscamente da America. Corro via ignorando il loro richiamo. I miei piedi si muovono veloci, un passo dietro l'altro mentre i miei occhi si riempiono di lacrime. Esco dal cortile piangendo, non bado a niente e nessuno, ignoro un paio di auto che mi passano vicino e attraverso la strada. Sono confusa, concitata, completamente fuori di me e non vedo affatto la moto che sta arrivando. E' un istante. Un piccolo, brevissimo istante.

Il clacson suona e i freni stridono. I miei occhi pieni di sofferenza si sbarrano contro quelli dell'uomo alla guida. La ruota del ciclomotore non riesce a fermarsi in tempo e urta contro il mio fianco provocandomi una enorme fitta di dolore. Cado in avanti e ruoto sull'asfalto.

Il motore emette un paio di rombi e si ferma.
L'uomo dice qualcosa venendomi incontro, ma non riesco a capire cosa. Il mio cervello è focalizzato solo e soltanto sul dolore alla gamba e alle mani piene di sangue.

"Oh mio Dio, cosa ho fatto, Holland sei tu!"

Una voce familiare, un cappellino con la tesa spunta fuori da sotto il casco. I due occhi azzurri del mio amico mi guardano preoccupati, impauriti. Il ragazzo mi si accoccola vicino e mi dice di non muovermi. Arraffa il telefono e chiama i soccorsi. Il rosso del mio sangue si mescola al grigio dell'asfalto. L'anca pulsa e la testa sembra scoppiare da un secondo all'altro.

"Evan..."sussurro.

"Shh, andrà tutto bene" La sua voce mi culla, ammortizzando il male che penetra in ogni singolo poro della mia pelle.

"Tutto bene"

Percepisco le sue mani tra i capelli, poi perdo i sensi.

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