Capitolo 68: IL PREZZO DELL'AMORE

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Ogni anno, dopo la partenza del pullman carico di cheerleaders e giocatori di basket alla volta della Virginia, gli studenti che restano al campus, sono soliti dare una festa in spiaggia. Penn, con la scusa che dopo la sua rottura con America è a corto di amici, mi chiede di accompagnarlo. Avevo sentito parlare di questo evento, sostenuto a spada tratta dal corpo studentesco. Come si dice? Quando il gatto non c'è i topi ballano. E anche gli OUT.
In realtà, oltre alla musica emessa da casse scadenti e più rumorose che altro, gira anche abbastanza alcol. Non i classici cocktail con tanto di ciliegina dentro al bicchiere e nemmeno i beveroni carichi di zucchero e soda. Ci sono innumerevoli bottiglie di vodka liscio e chissà cos'altro comprato a discount di seconda scelta. Giro alla larga dal banchetto degli alcolici, restando in disparte davanti al falò. Questa festa non ha niente a che vedere con quelle super trendy, super organizzate, super richieste, insomma super tutto di Ed ma, nonostante la sua semplicità, è popolata di gente vera e senza puzza sotto al naso. Si parla di surf, di vacanze, di sogni, dove i più grandi sono sposarsi a Las Vegas o trasferirsi in Texas ad addestrare cavalli. Ian mi siede vicino e si gode il calore emanato dal fuoco. Un paio di individui dai capelli rasta e dagli occhi cerchiati ci chiedono se vogliamo un po' del loro mais grigliato. Rifiutiamo senza pensarci troppo. Mi fa sorridere come Ian arricci il naso e muova davanti a sé la mano per allontanare i tizi generosi. Se penso che domani sarò su un aereo al suo fianco diretta verso New York mi viene da piangere per l'emozione.

"Hai messo in valigia piumino, sciarpa e cappello?" dico con entusiasmo. "Ho intenzione di farti girare un po' per la Grande Mela, ma non vorrei che ti prendessi una polmonite..."

"Sono abituato al freddo" si difende lui, "ho combattuto sugli Appennini e ho dormito in balia di pioggia e vento per così tanti giorni che fare il turista non mi spaventa affatto..."

Una strana nostalgia mi investe in pieno, sarà l'atmosfera, il pensiero di casa o i ricordi di un paese, un intero continente, un mondo in guerra.

"Hai avuto molto coraggio a sopportare quello che hai passato" convengo. "Come può un essere umano accettare ciò che hai vissuto tu o gli altri tuoi compagni? Come può un uomo assistere a persone che muoiono, donne e uomini che perdono i propri figli? Come può superarlo?"

Ian soffia dentro le mani e poi le avvicina al falò. I suoi occhi incontrano i miei tra fiammelle di incomprensione e curiosità. "Se vuoi sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte, sai chi famoso filosofo lo sosteneva?"

Scuoto leggermente la testa, maledicendomi per la mia ignoranza in materia. 

"Sigmund Freud" afferma. "Io credo che nessuno di noi sia nato per accettare la morte, per vederla negli occhi degli altri, per infliggerla, ma ci sono persone in grado di farti il lavaggio del cervello e tu ti ritrovi a soli venti anni con un fucile carico in mano. Se non spari tu, sparano gli altri. E se ti vuoi salvare la pelle, devi soltanto avere il coraggio di premere il grilletto"

"Hai ucciso molte persone?" Non so perché lo chiedo. Non so neanche se voglio saperlo davvero.

Ian si passa le mani tra i capelli. Guarda verso il cielo e poi di nuovo su di me. "Alcune" dice.

Uno strano silenzio cala tra noi. La musica è lontana e il fuoco così vicino da colorarmi le guance per l'imbarazzante assenza di dialogo, poi, è Ian di nuovo a parlare.

"Sai, la cosa strana, quella più inquietante? È come ai miei tempi ci fosse tanta voglia di vivere. Nonostante la distruzione, nonostante i bombardamenti, nonostante la morte serpeggiasse in ogni strada, le persone tiravano fuori una forza inimmaginabile. Una forza che qui, nel tuo mondo, non esiste più. C'era un attaccamento, un'energia immensa, una solidarietà che andava oltre l'odio del nemico. In questa società c'è tutto quello per cui io, i miei compagni, i miei amici abbiamo combattuto tanto, ma è come se non interessasse a nessuno. E' tutto scontato e superficiale, come essere qui, davanti ad un falò a parlare della vita e delle sue sfumature senza la paura di un'imboscata o di un caccia che sganci una bomba dall'alto. Invece questa sera in cielo ci sono soltanto le stelle e davanti a me gli occhi di una bellissima ragazza"

Smorzo un sorriso, ignorando i brividi che attraversano le mie braccia. Non ho mai conosciuto un uomo così realistico, malinconico e romantico allo stesso tempo.

"Anche nel mio mondo ci sono agguerriti nemici, sono diversi dai tuoi, assumono aspetti impropri, non hanno un fucile in mano e neanche bombe pronte da far esplodere, ma ci sono. Te lo garantisco" La mia attenzione si sposta sui ragazzi che ballano e buttano giù un bicchiere dietro l'altro. "L'alcol è il nemico del nostro tempo; la droga e la depressione. Li vediamo come una via di fuga ma sono soltanto un tunnel dritto verso la morte. Il cielo è pieno di stelle, ma sotto niente luccica come dovrebbe"

Tra la gente vedo Penn, che non sembra affatto troppo lucido e coordinato. Barcolla tra i ragazzi che ballano, sbilanciandosi ora verso uno e ora verso un altro, dando piena dimostrazione alla teoria che ho appena esposto. 

"Credo che il mio amico abbia bisogno di aiuto" faccio presente a Ian.

Il tempo di arrivare tra la folla che qualcuno ha afferrato Penn da dietro la giacca e lo ha scaraventato a terra, sulla sabbia.

"Vatti a smaltire la sbornia lontano da mia sorella, razza di pervertito!"

Una ragazzina dai capelli biondi e gli occhi scuri osserva la scena quasi con dispiacere, per poi venir trascinata via in malo modo dal ragazzo che a quanto pare è suo fratello.

"Ma cosa stai combinando?" mi accoccolo vicino a Penn, aiutandolo a rialzarsi.

"Ashley, quella è Ashley!" grida lui, indicando la biondina, ormai dileguata tra la gente.

"Ashley è in Virginia!" lo sprono a tornare in sé. "E quella che stavi importunando è soltanto una sconosciuta!"

"Io non importuno le sconosciute" singhiozza. "Ashley! Ashley!"

"Forza, andiamocene da questo caos" Ian prende Penn come ha già fatto in precedenza con Daren, sorreggendolo come un sacco di patate. Quando arriva nei pressi del falò lo lascia cadere a terra.

"Vuoi spiegarmi cosa ti è preso? Perché hai bevuto così tanto? L'alcol non riporterà Ashley da te, ma ti allontanerà ancora di più da lei. L'hai appena confusa per una matricola!"

Penn si rigira su sé stesso, insabbiandosi la giacca e i capelli. "Ho una nausea pazzesca" si lamenta.

Ian osserva il ragazzo agonizzante a terra. "Penso che abbiamo soltanto una possibilità di farlo stare meglio" afferma. 

Lo studio, aggrottando la fronte per cercare di capire. Ian mostra indice e medio e fa il gesto più palese che esista, quello di ficcarsele in gola.

"Non io!" esclamo, mettendo i palmi avanti.

"E' tuo amico, non mio. Se vuoi farlo stare meglio dovrai farlo vomitare"

Senza stare troppo a pensarci, eseguo il consiglio di Ian. Non ho mai ficcato due dita in gola a nessuno, ma non sembra esserci altra scelta. Penn vomita fuori tutto l'alcol e lo schifo che ha ingurgitato poi si butta di nuovo a terra, esausto.

"Vado a prendergli dell'acqua. Sempre che ne abbiano!" dice Ian, muovendosi verso il bancone delle bibite.

Le grida di alcune ragazzine che si rincorrono, scivolando sulla sabbia, si sovrappongono ai lamenti di Penn.

"Non sei un tipo da bottiglia alla mano, cosa ti è preso?"

Penn si piega su se stesso. Le sue braccia raccolgono le ginocchia, stringendole al petto. Non dice niente. Mi guarda con l'espressione di un cucciolo abbandonato.

"So come ci si sente, Penn, so cosa significa soffrire e tenere tutto dentro. Si ha voglia di urlare, di sfogarsi ma non si riesce neanche a gridare. L'alcol anestetizza il dolore, ma non lo sconfigge. Quando l'ebrezza finisce si è più uno schifo di prima" 

Ian torna con un bicchiere di acqua, che Penn utilizza esclusivamente per sciacquarsi la bocca. Il falò diviene sempre più piccolo, fin quasi a spegnersi. Il calore generato dal fuoco scompare così come la sua luce. Riprendiamo la strada verso il dormitorio. Dobbiamo accompagnare Penn nella sua stanza prima di andare all'hotel Clarke. E' in fase post sbornia e non ce la sentiamo affatto di farlo salire su un pullman da solo.

Quando raggiungiamo la fermata, Penn si siede a terra e appoggia la schiena contro il muro, in attesa dell'arrivo del nostro mezzo. La stazione è deserta, se non per un paio di clochard distesi su una panchina.

"Vado a fare i biglietti" Ian si allontana verso la macchinetta automatica qualche metro avanti. Il suo passo è inconfondibile, un leggero dondolio. Le mani dentro le tasche della giacca di pelle e la testa appena piegata di lato.

"Sai che ti dico? Sareste una bella coppia tu e il tuo amico, avete mai pensato di..."

"Penn!" lo rimprovero. Il cuore mi va a mille.

Lui emette un paio di colpi di tosse e si prende la testa tra le mani. "Non gridare, mi scoppia la testa" farfuglia.

Guardo Ian e guardo di nuovo Penn quasi steso a terra. Anche se ubriaco si è accorto che c'è qualcosa tra noi, forse non sono poi così brava a nasconderlo.

"Non ti piace? E' un ragazzo così gentile..." riprende a parlare con voce impastata.

"Penn, possiamo cambiare argomento di conversazione, per favore!"

Lui muove una mano avanti a sé come a scacciare uno sciame di moscerini. "Possiamo parlare di tutto quello che vuoi"

"Oppure potreste stare in silenzio!" interviene una voce alle mie spalle. Una voce nota, fredda, decisamente glaciale. Una voce che riconosco all'istante e che mi fa balzare il cuore in gola. Mi volto di scatto. Tom Felton è a pochi passi da me, mi scruta con sguardo sottile e cattivo. Un'occhiata veloce a Ian, ancora preso con i biglietti. Sembra avercela a morte con la macchinetta, a giudicare da come la sta prendendo a calci. Torno di nuovo sul biondino perfido che ho di fronte.

"Vuoi uccidermi qui, in un luogo pubblico? Non sai che ci sono telecamere in ogni angolo della stazione?" lo minaccio.

Felton stringe i pugni. Le sue braccia cadono dritte lungo il corpo, mentre le sue dita tirano fuori dalle tasche il solito, terrificante coltello. Indietreggio di un passo, quasi inciampando sulle gambe stese di Penn, che mi guarda decisamente confuso. Ian non è più alla macchinetta. All'istante il cuore mi balza in gola. Intanto Penn tenta di alzarsi, farfugliando qualcosa in mia difesa, o almeno credo.

Tom Felton stringe gli occhi contro la mia persona. Non riesco a staccare lo sguardo dalla lama del suo coltello. Il mio cuore è a mille, i battiti neanche riesco più a contarli. Indietreggio, ancora e ancora, fin quando non vado a sbattere contro qualcuno.

"Quando finirai di importunarci?" La voce di Ian, appena sopra la mia testa, mi rassicura.

Felton ride di gusto. "Che domanda sciocca! Non credevo che fossi così testardo, Somerhalder"

Ian si posiziona di fronte a me, facendo in modo che io resti alle sue spalle. "Davvero credi di essere in grado di uccidere un uomo?" lo affronta a muso duro.

Felton solleva il mento, le sue labbra si piegano in una smorfia di mero odio. "Io sarò in grado di uccidere" dice. E non sembra affatto stia bleffando. Lo farà. Prima o poi lo farà davvero.

"Non pensi al senso di colpa con il quale dovrai convivere per tutta la vita?"

"Il senso di colpa non esiste"

Ian si stacca da me e affronta il biondino faccia a faccia, incurante del coltello che ha puntato contro.

"Il senso di colpa esiste, Felton. E ti assicuro che non è affatto qualcosa di piacevole. Farci fuori ed entrare in possesso del pendolo non ti renderà felice! Avrai l'amore? Forse lo avrai, ma a quale prezzo?"

"Tu non sai quanto mio padre abbia lottato per cercare quel pendolo e adesso che io posso venirne in possesso non me lo lascerò sfuggire"

Ian si fa avanti e Tom pure. Un senso di inquietudine mi assale, mi investe in pieno e mi attraversa tutta, dalla punta dei capelli alla pianta dei piedi. I ricordi della lama sulla mia pelle si riaffacciano all'istante. Non ci vedo più, l'odio e la rabbia si impossessano della mia volontà, facendomi balzare avanti come una guerriera pronta alla battaglia. Lancio un grido e mi getto addosso al corpo di Tom.

"Holland, no!"

Ignoro il richiamo di Ian, ignoro la sua presa sulla mia spalla e persevero nel mio intento. Sono nera, infuriata, stanca morta per tutta questa situazione. Il biondino di fronte a me si fa colpire al volto un paio di volte, sorpreso dalla forza dei miei pugni. Non ho mai picchiato qualcuno, ma adesso mi sembra la cosa più naturale del mondo.

"Holland, fermati! Ti prego fermati!"

Non sento Ian, o meglio, non voglio sentirlo. Colpisco Tom con un calcio, facendolo rovinare a terra. Il biondino emette un lamento di dolore, ma il suo corpo sembra fatto di gommapiuma, una molla pronta a schizzare e rialzarsi. Con uno slancio sorprendente si getta contro di me. Il braccio alzato e il coltello dritto contro il mio petto, ma prima che arrivi anche solo a sfiorare la stoffa della mia giacca, la mano di Ian afferra saldamente il polso del ragazzo, fermandolo di colpo. Il coltello cade a terra ed io scivolo via più in fretta che posso. Torno in piedi e riprendo fiato. Tom stringe i denti e si avventa contro Ian. Nel frattempo io resto un passo indietro e mi metto a gridare come una pazza sull'orlo di una crisi di nervi.

"Aiuto! Qualcuno mi aiuti!"

Penn, che fino a questo momento è rimasto a terra, a guardare ciò che gli succedeva intorno, tenta di alzarsi. Fa un paio di passi incerti, barcolla e finisce di nuovo al tappeto.

Tom e Ian si prendono a pugni e calci. Il coltello brilla vicino ai due ragazzi che si colpiscono a vicenda. Ogni botta inflitta sul corpo di Ian è percepita anche dal mio. I suoi lividi sono anche i miei. Il suo dolore anche il mio. Di nuovo.

All'improvviso, quando Ian sembra avere la meglio sulla pazzia di Tom, stendendolo a terra e riempiendolo di pugni in faccia, il biondino riesce a rimpossessarsi della sua arma e, con una violenza inaudita, la ficca dietro ad una coscia di Ian. Non riesco a fare niente per fermarlo né ad urlare a Ian di stare attento. Giusto il tempo di vedere la lama riflettere le luci al neon dei lampioni che scompare dentro ai jeans di Ian. A quanto pare, il ragazzo, reduce dai combattimenti sul fronte di guerra, ha abbassato la guardia e il nemico gli ha sferrato un notevole colpo basso. Il dolore della ferita mi arriva dritto dritto allo stomaco. Quindi è così che si è sentito Ian ogni qual volta Tom ha tentato di uccidermi? E' così che si prova dolore, senza riceverlo direttamente? Sento del sangue caldo scendere lungo la gamba. Appiccicoso. Fastidioso. Penn sbatte i suoi occhi grandi e scuri contro il mio arto inferiore. Le mie mani, imbrattate di sangue, cercano di tamponare l'emorragia.

"Ma che diavolo...?" Penn farfuglia tra ubriachezza e sobrietà.

Un colpo allo stomaco e uno alla spalla. Ian è a terra adesso ed io con lui.

"Ian! Ian!" Gridare il suo nome mi fa svuotare i polmoni, ossigenarli di nuovo e mi consente di rialzare le gambe. Mi avvicino a Tom e tento di fermarlo.

"Vai via, Holland, vai via!" grida Ian, mantenendo la mano armata di Tom lontano da sé stesso.

Non ascolto la sua richiesta. Non la ascolto affatto. Mi aggrappo ad un lembo della giacca di Tom e cerco di tirarlo via dal corpo di Ian, ma naturalmente non ci riesco. Non lo smuovo neanche di un centimetro. Presa dallo sconforto più totale riprendo a gridare. E, proprio quando Tom sta per sferzare il colpo decisivo sul corpo della sua vittima e di conseguenza, inevitabilmente, anche sul mio, un paio di voci ben distinte si avvicinano.
Due guardie. Due agenti che vigilano la zona. Al momento giusto e nel posto giusto.

"Ehi, le urla provengono da là!" grida uno.
"Corri, corri!" lo esorta l'altro.

Tom individua i due uomini e abbassa l'arma. Si mette in piedi, lasciando perdere la sua vittima. Grugnisce sommessamente e mi spinge indietro, prima di fuggire a gambe levate. Le guardie ci raggiungono.

"Cosa è successo? Chi era quel ragazzo?" chiedono, senza preoccuparsi affatto di inseguirlo.

Boccheggio senza dare una risposta. La carne della mia coscia sembra voler esplodere dal dolore. Cerco di nascondere il sangue con il lembo della giacca.

Ian zoppica fino al mio fianco, indica la mia coscia e mi chiede: "Stai bene?" La sua voce è appena un sussurro e i suoi occhi mi fermano il cuore.

Annuisco.

"Dunque? Volete spiegarci cosa è successo?"

Ian mi sorprende, passandomi un braccio attorno al collo.

"Stavamo tornando da una festa in spiaggia, quando siamo stati sorpresi da quel ragazzo, infastidiva la mia fidanzata e allora sono intervenuto per difenderla" Le labbra di Ian mi sfiorano i capelli con un bacio sottile.

Deglutisco. Il vigilante studia Ian e anche me, che mi limito ad annuire. Essere stata appena definita la compagna del tipo per il quale ho letteralmente perso la testa mi fa smettere di provare qualsiasi genere di dolore, fisico e morale. E' stupefacente, elettrizzante, un sogno vero e proprio.

Il secondo vigilante si avvicina a Penn. "Lui è con voi?" chiede, trascinando il giovane al nostro fianco.

"E' con noi" intervengo.

"Non sembra molto sobrio, dovrei chiamare la polizia, lo sapete?"

Ian si sobbarca del peso di Penn, tenendolo saldamente per un braccio.

"Non sono ubriaco!" biascica quest'ultimo, letteralmente infastidito.

I due uomini ci studiano ancora per un paio di secondi. Il nostro pullman arriva ed apre le porte.

"Andatevene tutti e tre a casa" dice infine una delle due guardie. "E cercate di non cacciarvi nei guai!"

Penn singhiozza un grazie ed io lo aiuto a salire sul mezzo. Stringo i denti e mi lascio cadere sul sedile come se fossi un peso morto. Il sangue ha smesso di uscire. Sento i lembi della ferita bruciare e non vedo l'ora di poterla disinfettare e chiudere con un cerotto.

Ian si siede nel sedile di fronte. Allunga le gambe nel seggiolino di fianco e posa la nuca contro il vetro. Chiude gli occhi e respira profondamente. So a cosa sta pensando. So cosa gli sta passando per la testa. Siamo stati fortunati, ci è andata bene. Per questa volta.

L'autista parte. La carrozzeria sobbalza passando sulla strada appena disconnessa. Penn si stropiccia gli occhi e mi guarda attentamente. Non so cosa ci trovi di tanto strano o diverso nel mio volto, ma sembra sbiancare molto più di quanto non lo sia già. Mi volto verso la mia destra, cercando nell'alone del vetro i miei occhi. Sono cerchiati di nero. Uno in particolare. Un livido che sta divenendo sempre più scuro. Un rivolo di sangue mi scende dalla tempia. Ian mi osserva. Ha lo stesso occhio livido e la stessa ferita superficiale alla testa.

"Sarò pieno zeppo di vodka, sarò fuori come un terrazzo, ma non sono bacato di testa. Voi due avete le stesse ferite, diamine! Come è possibile?" Lo stupore nella voce e nella faccia di Penn mi fanno capire che sta tornando alla lucidità.

"Ti spiegheremo tutto" prende parola Ian. "Domani, quando avrai smaltito la sbornia e ci saremo rimessi in sesto"

Penn posa la testa contro il sedile e annuisce. Forse non si ricorderà niente o forse penserà che sia stato soltanto un sogno.

Gli occhi di Ian raggiungono i miei. Sembrano così dispiaciuti e premurosi nei miei confronti come mai prima di adesso. La luce che nascondono appare nuova, speciale, diversa da sempre. E' lo stesso Ian, ma non lo è affatto.
E' difficile da capire. I suoi occhi mi osservano con la stessa dedizione che farebbero quelli di un uomo innamorato, ma so bene che non è possibile perché di amore Ian non ha niente, non per me, almeno. Sospiro e mi abbandono anche io con la testa indietro.
Sogno New York. Sogno casa.

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