Parte 1 - Risveglio traumatico

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Dormiva.

Il respiro era profondo.

Un suono indistinto proveniente dalla strada lo destò.

Come conseguenza aprì gli occhi che parevano fissati con degli spilli. Per lui il risveglio era sempre traumatico. Ogni mattina doveva rifocalizzare e riordinare le idee. Capire chi fosse, dove fosse.

Guardò l'ora riflessa sul soffitto e si irritò.

Aveva dormito meno di cinque ore e si sentiva stanco più della sera prima. Gli ansiolitici che aveva assunto lo avevano lasciato stordito e disorientato, catapultandolo in uno stato di dissociazione in cui i ricordi apparivano frammentati e i pensieri confusi. Una nebbia densa avvolgeva la sua mente.

Gli psicofarmaci facevano parte della sua routine quotidiana, una consuetudine che si ripeteva inesorabile con il calare della notte. Prenderli era diventato un modo per colmare il vuoto che provava dentro, per alleviare l'angoscia che gli procurava la sua esistenza vuota. Stava affrontando un periodo difficile, un viaggio nell'intimità delle sue paure più profonde che lo portava a farsi domande sul senso della sua vita e sul significato del suo stare al mondo.

Dalle persiane chiuse filtrava una luce fioca che tracciava i contorni di un ambiente semplice e disadorno. La stanza era uno spazio circoscritto. Spiccavano alcuni oggetti, tra i quali un armadio, un tavolo, un divano, una poltrona, un grande televisore, la consolle dei videogiochi, la zona cucina e un letto da una piazza e mezza. Era un monolocale situato in una zona semicentrale della città. Un microcosmo che per lui rappresentava sia un rifugio che una prigione.

Allungò una mano e accese la luce.

All'istante ogni cosa acquistò forma e colore.

Da sopra al tavolo giungeva il ronzio della ventola del suo portatile. Quel dispositivo conteneva tutto il suo mondo. Non lo spegneva mai, perché lo spazio virtuale dava un senso alla sua esistenza, lo faceva sentire vivo e integrato, gli forniva il nutrimento che alimentava il suo cervello. Chiudere su quel mondo avrebbe significato perdersi nel nulla. Senza quella connessione la sua essenza sarebbe collassata, inghiottita come dentro a un buco nero.

Sospirò e a fatica si alzò. Mosse il mouse e lo schermo si illuminò mostrando la pagina di un forum su cui ultimamente aveva focalizzato la sua attenzione e su cui sfogava i suoi pensieri e le sue frustrazioni scrivendo.

Trovò una risposta al suo ultimo messaggio.

«La vita è per chi sa vivere».

Nulla di più.

«Che frase del cazzo!», sbottò con la bocca impastata.

Quindi andò in bagno. Quando passò davanti allo specchio tirò diritto, senza nemmeno guardarsi. Il suo riflesso gli faceva male. Osservarsi era una violenza alla sua autostima. Una conferma al giudizio negativo che aveva di sé.

Tuttavia, quando tornò indietro e si fermò a lavarsi il viso alzò gli occhi. Un movimento di disappunto con la testa avvalorò la sua certezza.

Nulla era cambiato rispetto alla sera prima.

Era brutto come sempre.

Il viso era contornato da un leggero accenno di barba che cresceva tra crateri di brufoli esplosi e imperfezioni. Il naso a becco di falco - con setto deviato - accentuava una pelata ai cui bordi crescevano capelli mossi di colore castano. La fronte era divisa da due spesse sopracciglia al di sotto delle quali vi erano due occhi marroni. Le labbra erano sottili e il mento retruso, la corporatura robusta e la sua altezza al di sotto della media.

Con quegli occhi scrutava il mondo che di riflesso non lo guardava. Per gli altri lui semplicemente non esisteva. Quella constatazione gli stringeva il cuore e lo portava a vivere come un recluso in casa. Non ricordava più il giorno in cui aveva deciso di interrompere i suoi rapporti col genere umano, di quando si era stancato di fare da sfondo al divertimento altrui. Aveva provato a uscire, a essere attivo, ma ben presto aveva capito che soltanto i belli recitavano sul palcoscenico della vita, mentre per gli altri restavano solamente ruoli da comparsa o di secondo piano. Ripeteva spesso che al di sotto di una certa soglia estetica non c'era vita. Quella considerazione lo aveva portato all'allontanamento dagli altri e dai luoghi di svago. La casa era diventata un porto sicuro che lo proteggeva dal giudizio e dalla sofferenza, da quella sensazione sempre presente di esclusione e disagio.

Dalle medie in poi, a causa della sua natura, aveva subìto continue umiliazioni. Una mortificazione che lo aveva fiaccato nel corpo e nello spirito. Lentamente si era trasformato in un disadattato dal carattere remissivo. Quasi nessuno aveva piacere a relazionarsi con lui. Era il classico sfigato che non piaceva né alle donne né alle persone comuni. Per questo non aveva mai avuto una fidanzata, né fatto sesso, né baciato una ragazza.

I soldi per vivere non gli mancavano. Per procurarseli non aveva bisogno di interagire con gli altri o di lavorare in modo tradizionale. Aveva trovato il suo sistema, sfruttando il trading online, e ci sapeva fare. Era ancora iscritto all'università, ma non frequentava più. Aveva scelto scienze bancarie, e il sistema finanziario era il suo forte, ma i libri non li apriva da tempo.

Mentre stava per vestirsi il telefono posato sul tavolo squillò.

Si sorprese.

Era talmente isolato dal mondo che spesso si dimenticava della sua esistenza. Lo prese e vide che era Ismaele. L'unica persona con cui interagiva ancora.

Ismaele era un ragazzo che conosceva dalle elementari. Il suo primo compagno di banco e unico amico. Loro due avevano tanto in comune. Erano entrambi appartenenti alla stessa categoria di persone: quella dei brutti e degli invisibili, quasi degli esseri immateriali utili solo a mandare avanti il sistema.

«Ciao Cobra, come te la passi?», domandò Ismaele.

Cobra era il suo nome. Un nome pesante che gli avevano lasciato in eredità i suoi genitori appassionati di yoga. Gli si stringeva il cuore quando pensava a loro, gli unici che gli avevano voluto bene e che il destino gli aveva strappato via troppo presto in modo drammatico. Quel nome non lo entusiasmava particolarmente, anche perché per quella stranezza onomastica era stato ridicolizzato sia dai bulli a scuola sia da quelli a cui lo riferiva quando lo doveva dire. Ogni volta che lo comunicava era un susseguirsi di sorrisini e di imbarazzi. E poi del cobra non aveva preso proprio nulla, né la bellezza, né l'eleganza, né la forza di stare al mondo. «Al solito... come una barca in mezzo al bosco», rispose, lasciando emergere quella sensazione che lo proiettava in uno stato di perenne malessere. «E tu?».

«Siamo qua a combattere», dichiarò Ismaele spavaldo.

«E dove combatti?», chiese Cobra, abbozzando un sorriso forzato.

«Oggi in posta a pagare un bollettino».

«Ah ecco, grande battaglia allora», lo sfotté bonario.

«Sì, ma non un bollettino qualsiasi, una multa. Una merda di multa presa perché a un autovelox ho superato di soli tre chilometri orari la velocità massima. Da non crederci».

«Accidenti che sfiga», osservò Cobra, mentre apriva il frigo per prendere il latte. Lui un'auto nemmeno ce l'aveva, la vedeva come un mezzo inutile e non necessario.

«La cosa assurda è che ho visto che c'era quel cazzo di controllo sulla strada, ma credevo che il limite fosse settanta e ho rallentato abbastanza per starci dentro, e invece mi hanno fregato lo stesso. E sai perché?».

«No, dimmelo tu».

«Perché il limite era cinquanta su un rettilineo di un chilometro».

«Caspita», considerò Cobra, notando che tutte le tazze erano buttate nel lavello ancora da lavare.

«Che bastardi. Devono morire tutti», sbottò Ismaele infuriato.

«Come darti torto. Sono degli infami, pensano unicamente a fare cassa, altro che sicurezza. Bisognerebbe fargliela pagare bruciandogli il culo con un lanciafiamme», lo supportò Cobra, prendendo in mano una tazza sporca.

«Hai ragione da vendere, viviamo in un mondo di vessazioni continue. Se tirano troppo la corda andrà a finire come dici tu», argomentò Ismaele, manifestando la sua irritazione crescente. «Senti, cambiando discorso... che ne dici di fare colazione insieme? Magari nel bar all'angolo sotto casa tua? Così non ti devi nemmeno sbattere».

Quell'invito lo colse di sorpresa.

Le sue uscite erano sempre più sporadiche e quando le faceva erano unicamente per necessità e sicuramene la colazione al bar non vi rientrava. Fu tentato di dire di no, ma lo stomaco brontolava e di lavare quella ciotola non aveva proprio voglia.

«Ma sì, va bene, dai», concordò con indolenza. «Mi do una sistemata e tiraggiungo».

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