46- Pioggia

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21 maggio

Emilia, sdraiata sul divano di casa, scrollava annoiata la home di Instagram.

Fuori infuriava il temporale e il rumore della pioggia scrosciante di mescolava di tanto in tanto a quello di tuoni così forti che sembravano capaci di far tremare il palazzo.

Quando avvertì le chiavi girare nella toppa, sollevò lo sguardo dallo schermo.

"Ciao".

"Ciao" rispose suo padre, di rientro dal lavoro con ancora indosso la divisa. "C'è una pioggia fuori".

"Ho visto".

Emilia tornò a concentrarsi sul cellulare, rimandando il momento in cui gli avrebbe parlato. L'ansia le divorava le viscere e la riversava in quello scrollare continuo e incessante, riempiendosi la testa di contenuti futili che avrebbe dimenticato nel giro di pochi secondi, per poi guardarne altri, in un circolo vizioso.

"Papà, ti posso parlare?".

Giovanni, che era già in camera da letto, tornò in salotto con indosso una tuta. "Sì, dimmi".

La ragazza trasse un profondo respiro.

"Ho sentito la zia".

Vide il volto del padre rabbuiarsi.

"A me piacerebbe scendere giù, anche per poco" mormorò. "Sono passati un bel po' di anni dall'ultima volta che li ho visti e mi mancano".

"Non mi sembra il caso".

L'uomo di diresse in cucina, trascinando le ciabatte sul pavimento, lasciando Emilia con una manciata di parole che per lei non rappresentavano nulla.

Restò ferma in salotto, la voglia di lasciar perdere quella discussione e il bisogno di trovare spiegazioni che lottavano dentro di lei. Sentì che, qualsiasi cosa avesse deciso di fare, sarebbe stata sbagliata in egual modo.

"Perché non posso vederli? Anche loro sono la mia famiglia, papà".

"Emilia, non ho voglia di discutere".

La ragazza lo raggiunse in cucina, con il cuore che batteva all'impazzata per l'adrenalina e la paura.

"E invece ne discutiamo".

Giovanni si voltò come una furia e batté una mano sul tavolo così forte da farlo tremare. Emilia sentì il cuore arrivarle in gola.

"Tu quelli là non li vedi, punto. È inutile che rompi le palle, io da loro non ti ci mando".

"Ma perché? Io non capisco e ogni volta che provo a parlartene inizi a urlare, peggiorando solo le cose".

L'uomo alzò l'indice con fare minaccioso. "Ci sono cose che non c'è bisogno che tu capisca".

"Smettila di trattarmi come se fossi una bambina" strillò la ragazza. "Tu non hai rispetto della mia volontà, non hai rispetto di me".

"Emilia, ora non farmi incazzare sul serio" urlò il padre. "Fai sempre quello che vuoi in questa casa, esci quando vuoi, torni quando cazzo di pare, quindi ora non venirmi a dire queste cose".

"Tutti i miei amici escono, papà, cos'è, dovrei ringraziarti perché non mi tieni chiusa in casa come una suora di clausura?".

"E allora di cosa ti lamenti, Cristo santo, cos'hai da lamentarti?".

Emilia iniziò a piangere, colma di rabbia e sconforto. "A te sembra normale costringermi a non vedere la famiglia di mamma?".

"Ho i miei motivi e tu ti devi stare zitta e ascoltarmi".

"Io non ho alcuna intenzione di ascoltare uno stronzo come te".

Giovanni strabuzzò gli occhi.

"Com'è che mi hai chiamato?" domandò, la voce quieta, ma dura, di chi sta per esplodere.

"Stronzo". Emilia lo guardò con aria di sfida. "Perché è quello che sei papà".

L'uomo le si avvicinò di scatto con fare aggressivo ed Emilia corse in salotto.

"Non mi hai nemmeno lasciato andare al funerale della nonna" piagnucolò, infilandosi le mani nei capelli. "Che cazzo di persona sei? Perché fai così?".

"Tua nonna, tua nonna, ma tu che cazzo ne sai di che persona era tua nonna? Non sai un cazzo, Emilia".

"E tu che ne sai di cosa significa crescere senza una madre e non poter nemmeno vedere le uniche persone che potessero farmi ricordare di lei?".

Giovanni irruppe in salotto come una furia. "Non ti devi permettere di usare questa cosa contro di me, hai capito?".

"Vaffanculo".

Il padre alzò una mano ed Emilia si rannicchiò per terra, coprendosi la nuca come poteva.

Lo schiaffo non arrivò. La mano restò ferma a mezz'aria e Giovanni la ritirò con lentezza, osservandola come se fosse un oggetto sconosciuto, scollegato dal suo corpo.

Senza dire una parola, tornò in cucina, mentre Emilia era riversa sul pavimento e piangeva così forte da urlare.

L'uomo restò immobile di fronte al lavello, il petto che si alzava e si abbassava seguendo il suo respiro affannoso, l'espressione pensosa e sofferente.

"Io me ne vado".

Quando Emilia si alzò da terra, Giovanni pensò che si stesse dirigendo in camera.

Invece, sentì la porta di casa chiudersi con un tonfo.

Emilia si precipitò di corsa giù dalle scale del palazzo e, quando raggiunse l'androne, sentì la voce del padre dal piano in cui vivevano.

"Torna indietro, Emilia! Dove cazzo vai?".

La ragazza ignorò quel richiamo. Uscì in strada e la pioggia le cadde addosso con la forza di una secchiata. Iniziò a correre senza nemmeno vedere dove stesse andando, le urla del padre dietro di lei.

Pioveva così forte che le vie non si distinguevano, sembravano un unico groviglio senza senso nel quale sarebbe stato impossibile non incastrarsi.

La voce di Giovanni si fece sempre più distante. Emilia correva, come mai aveva fatto prima d'ora, le lacrime che si mescolavano alla pioggia, sferzandole la pelle del viso.

Quando sentì il fiato mancarle e i polmoni bruciare, arrestò la sua corsa e si accucciò sui gradini di un palazzo, sotto una tettoia in plastica.

Era spaventata come mai in vita sua. In quella Torino che mostrava il suo volto più ostile, si sentiva persa, senza un posto in cui andare, ma troppo arrabbiata per tornare indietro.

Lo scroscio della pioggia copriva il suo pianto disperato. Per strada non c'era un'anima e iniziò ad essere angosciata dalla solitudine che avvolgeva quella via stretta e buia incastrata tra i palazzi di San Salvario.

Fu l'istinto a farle prendere il telefono in mano. E a cercare quel nome in rubrica.

I secondi che passarono prima di sentire una voce dall'altro capo del telefono furono i più lunghi ed esasperanti della sua vita.

"Pronto?".

"Fede, ciao" mormorò la ragazza, la voce rotta dal pianto.

"Tutto bene?".

"Sì". Soffocò un singhiozzo e aggiunse: "No, in realtà no, per niente. Posso venire a casa tua?".

Il ragazzo restò in silenzio alcuni istanti.

"Emilia, sono le nove di sera, domani c'è scuola".

"Fede, te lo giuro, non te lo chiederei se non fossi nella merda" rispose la ragazza, scoppiando a piangere. "Sono in mezzo alla strada sotto la pioggia, non posso tornare a casa né andare da nessun'altra parte, ti imploro, non so dove andare, ti supplico".

"Ok, ok". La voce di Federico era incerta e preoccupata. "Via Piana 8, il citofono è Anghilante- Del Boca".

Emilia balzò in piedi e si coprì la bocca con una mano.

"Non so come ringraziarti, arrivo, grazie, grazie".

Si guardò attorno per orientarsi e riprese la sua corsa.

Nonostante la pioggia fitta e la testa annebbiata, riuscì a scorgere il nome della via su una targhetta. Era una viuzza residenziale in cui condomini si susseguivano tutti uguali l'uno dietro l'altro e, dopo alcuni metri, il numero 8 le comparve davanti.

Si aggrappò ai citofoni, con la stessa forza di chi sta per cadere nel vuoto e si aggrappa all'appiglio più vicino, e cercò il cognome di Federico tra le decine che vi campeggiavano, illuminate da una luce fioca.

Quando lo trovò, però, sentì una fitta allo stomaco e si immobilizzò, il dito fermo sul pulsante e il petto che si abbassava su e giù seguendo il ritmo scomposto del suo respiro.

L'istinto primordiale di autoconservazione le diceva di premere quel pulsante e mettersi al sicuro, ma la razionalità la frenava. Si sentì all'improvviso una stupida, una pazza, e pensò che solo i pazzi possono presentarsi a casa di estranei in tarda serata, senza alcun preavviso, grondanti d'acqua da capo a piedi e in fuga dal proprio padre, forse senza un vero valido motivo.

Guardò il telefono e vide due chiamate perse da suo padre.

Si sentì in colpa, ma era arrabbiata, triste e fu il dolore a decidere per lei. A farle schiacciare quel pulsante.

"Emilia?".

La voce di Federico risuonò nella notte, ovattata e metallizzata.

"Sì, sono io".

"Terzo piano, sali".

Il portone si aprì con uno scatto e, prima di entrare, la ragazza strizzò la felpa e i capelli, come se questo potesse servire ad asciugarsi. Salì le scale lasciando dietro di sé una scia d'acqua e se ne vergognò da morire.

Arrivata al secondo piano, si fermò e si guardò indietro.

Che cosa stava facendo?

Sarebbe potuta tornare indietro, era ancora in tempo. Avrebbe evitato di fare una figura umiliante e di portare i propri casini nella vita di altre persone.

"Emilia, ancora un piano".

Federico si affacciò dalle scale ed Emilia lo guardò piena d'angoscia. Anche lui aveva lo sguardo preoccupato; Emilia non lo aveva mai visto così.

Arrivò al terzo piano con lentezza, le gambe pesanti come se avesse delle zavorre attaccate alle caviglie.

Una volta lì, restò immobile con le braccia lungo i fianchi, mentre gocce d'acqua scivolavano dal suo corpo e schioccavano a terra, formando attorno a lei una pozzanghera.

"O mio Dio, cosa ti è successo?".

Il ragazzo le si avvicinò e la scrutò turbato.

Alle sue spalle, sulla soglia della porta, fece capolino una signora di mezz'età, con indosso un pigiama in raso e i capelli biondi sciolti.

"Cosa succede?" domandò la donna, guardando Emilia con preoccupazione. Aveva la voce roca, ma elegante, che trasmetteva sicurezza e austerità al contempo.

"Io" disse Emilia, ma la voce le si spezzò. Abbassò lo sguardo per la vergogna. "Sono mortificata, sono venuta qui senza riflettere, scusatemi".

Fece per voltarsi, ma Federico le prese per il polso, costringendola a fermarsi.

Non disse nulla. Si limitò a voltarsi verso la madre e i due si scambiarono uno sguardo d'intesa.

"Intanto fatti dare dei vestiti asciutti" rispose la donna, premurosa. "Così ti ammalerai".

I due scomparirono dentro casa, per poi tornare con dei vestiti e un grande asciugamano.

"Ecco qua". Esclamò la donna, avvolgendo Emilia con quest'ultimo. "Le scarpe lasciale qui".

"Grazie mille, davvero".

"Ora prendi questi vestiti e vai in bagno a cambiarti. Federico, accompagnala".

Quando entrò in casa, Emilia si sentì subito accolta dai colori caldi del salotto. Le pareti color ocra, il legno dei mobili e le lampade dalla luce fioca sapevano di casa, anche se quella non era casa sua. La libreria occupava una parete intera ed era colma di volumi, alcuni semplici e impilati uno sopra l'altro, altri dalle costine intagliate e ricamate, disposti con un'accuratezza maniacale. Il cognome "Marx", scritto a caratteri cubitali su un manuale di dimensioni enormi, spiccava in mezzo agli altri, così come la Bibbia, le cui copie si susseguivano una dietro l'altra occupando tutto uno scaffale.

"Il bagno è qui". Il ragazzo le accese la luce e le rivolse uno sguardo triste e confuso.

Emilia aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole le morirono sulle labbra. Ricambiò quello sguardo e i loro occhi restarono incatenati per alcuni istanti.

"Grazie" disse, infine, per poi entrare in bagno e chiudersi la porta alle spalle.

Il freddo le penetrava nelle ossa e si tolse i vestiti tremando, cercando di asciugarsi meglio che poteva. L'acqua le aveva inzuppato anche le mutande e le strizzò nel lavandino, sperando che questo potesse migliorare la situazione.

Le indossò di nuovo, ancora bagnate, e sentì la vergogna attanagliarle le viscere. Poi si mise i pantaloncini e una maglia che doveva appartenere a Federico, dato che le arrivava alle ginocchia.

Raccolse i vestiti da terra e, prima di uscire, guardò il proprio riflesso nello specchio.

Le venne da piangere, ma aveva ormai consumato tutte le lacrime. Aveva gli occhi e le labbra gonfie, i capelli fradici appiccicati alla pelle, l'angoscia scolpita in volto. Odiò così tanto il suo aspetto da non riuscire a riconoscersi e uscì subito dal bagno, rifiutandosi di credere che l'essere spregevole che aveva visto riflesso nello specchio fosse proprio lei.

Chiuse la porta cercando di fare il minor rumore possibile e sentì le voci di Federico e sua madre bisbigliare in salotto. Rimase ferma con la mano sulla maniglia e il cuore che sembrava essersi fermato, incapace di ignorare quel discorso.

"Federico, ma almeno lo sai perché è qui?".

"No, ma sono sicuro che c'è un motivo va....".

"Lo so, lo so, non lo metto in dubbio, però prima vorrei capire cosa le è successo".

La donna tirò su col naso rumorosamente.

"Povera stella, era conciata in un modo... Spero non sia nulla di grave".

Emilia diede un colpo di tosse e si avviò a timidi passi in soggiorno. La donna, in piedi accanto alla penisola che divideva il salotto dalla cucina, le andò incontro.

"Fede, i vestiti bagnati mettili di là sullo stendino" ordinò al figlio. "E portale anche un paio di ciabatte".

Mentre il ragazzo obbediva, invitò Emilia a prendere posto sul divano.

Lei, un po' titubante, si sedette sul bordo, la schiena così dritta da rendere la sua posizione innaturale e l'asciugamano sotto le natiche per non bagnare i cuscini.

"Tu sei Emilia, giusto?" domandò la donna, dopo alcuni istanti di silenzio.

La ragazza annuì. "Sì, sì".

"Ah, la ragazza che interpreta la coprotagonista nello spettacolo di Simone". Sorrise e aggiunse: "Federico mi ha parlato tanto di te negli ultimi mesi".

Aveva i lineamenti duri, la mascella scolpita e due occhi piccoli e azzurri, che trasmettevano una certa soggezione. C'era qualcosa di androgino in quella donna dalla voce profonda, ma un corpo snello che si muoveva con eleganza, perfettamente posizionato nell'ambiente circostante.

Federico tornò e si sedette sul divano opposto, di fronte ad Emilia.

Madre e figlio la guardavano confusi, gli occhi indagatori alla ricerca di qualcosa.

"Non so davvero come ringraziarvi" esordì la ragazza, consapevole di dovere delle spiegazioni. "Poco fa ho avuto un bruttissimo litigio con mio padre su una questione molto delicata, ho avuto paura mi alzasse le mani, così sono uscita di casa, ma c'era un temporale assurdo e non sapevo dove andare. Non conosco nessun altro che abiti in San Salvario e non ho parenti qui".

Guardò prima Federico, poi sua madre: "Sono davvero mortificata per essere venuta a disturbarvi a quest'ora della sera, signora, non so cosa mi abbia detto la testa, ma vado subito via".

Si alzò di scatto dal divano e la donna si alzò con lei.

"Innanzi tutto, chiamami Patrizia" rispose, la voce e l'espressione addolcitesi. "Comunque non dai alcun disturbo, se stanotte hai bisogno puoi stare qui da noi".

"No". Lo sguardo di Emilia vagava frenetico tra Federico e Patrizia. "Non posso accettare, no".

"Emilia, se vuoi tornare a casa va benissimo, ti accompagniamo noi in macchina". Le posò una mano sulla spalla e le sorrise affettuosa. "Ma se non ti senti al sicuro e hai bisogno di un posto dove stare stanotte, casa nostra è aperta".

Emilia sentì l'imbarazzo abbandonare il suo corpo e una sensazione di calore espandersi nel petto. In quella casa c'erano tutta la calma e la pazienza che sapeva non avrebbe trovato a casa propria e la parte più intima di sé le urlava di mettersi al riparo da altra rabbia e altri litigi.

"Davvero?".

"Certo". Rispose Patrizia. "Però forse prima è meglio se rispondi al tuo papà".

Indicò con lo sguardo il telefono che Emilia teneva in mano, l'ennesima chiamata di Giovanni in arrivo.

"Sì... Sì, ha ragione".

Si alzò e si sistemò in un angolo del salotto, rivolgendo la schiena ai suoi ospiti.

Tremava così forte da non riuscire quasi a rispondere alla chiamata.

"Papà?".

"Emilia, dove cazzo stai, perché non mi rispondi?". La voce del padre era disperata. Urlava così forte che l'audio del telefono gli distorceva la voce. "Che cazzo c'hai in testa, dove sei?".

"Sono a casa di Alessia" mentì la ragazza, abbassando la voce per non farsi sentire. "L'ho chiamata e sua nonna è venuta a prendermi".

"Ma come da Alessia". Seguirono alcuni istanti di silenzio. "Che cazzo fai Emilia, ti vengo a prendere subito".

"No".

"Tu sei pazza, come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere?".

Emilia scoppiò a piangere. "Papà, ti prego, non ce la faccio più a sentirti urlare, mi fai stare male. Non voglio tornare a casa con te adesso, perché so che urlerai ancora e io non ce la faccio, fammi stare qui stanotte, domani mi portano loro a scuola e tu mi vieni a prendere all'uscita, ma per stasera basta, ti supplico, basta".

Patrizia si era volutamente allontanata in cucina, mentre Federico, che era rimasto sul divano, si voltò a guardarla.

Giovanni non rispose subito. Emilia lo sentì respirare e, dal rumore in sottofondo della pioggia sulla carrozzeria, capì che era in macchina.

"Sei davvero da Alessia?".

"Sì papà, se vuoi ti mando anche una foto così stai tranquillo".

L'uomo tirò su col naso. "Va bene, ti vengo a prendere domani all'una".

"Grazie" rispose la ragazza, ancora in lacrime. "Scusami".

Riattaccò e si scattò una foto a mezza faccia, senza inquadrare gli occhi, in modo che si capisse che si trovava in una casa. Gliela mandò su Whatsapp e bloccò il telefono.

"Grazie mille per l'ospitalità, non so davvero cosa dire" disse, tentando di asciugarsi le lacrime con il dorso della mano. "Mi metto anche sul tappeto".

Federico scattò in piedi. "Non esiste, ti lascio il mio letto".

"No, Fede, non ce n'è bisogno".

Patrizia rientrò in soggiorno con una tazza fumante. "No, no, no, Emilia, non fare storie, ora vado a metterti delle lenzuola pulite". La porse alla ragazza, poi si rivolse a Federico: "Prendete l'autobus insieme domani mattina?".

"Certo, sì".

"Perfetto". La donna rivolse un ultimo sguardo gentile a Emilia. "Io ti saluto, perché domani devo andare a lavorare e ho la sveglia presto. Per qualsiasi cosa chiedi a Federico. Buonanotte ragazzi".

"Buonanotte, Patrizia" rispose la ragazza. "Non so davvero come ringraziarla per tutto questo".

"Non ti preoccupare, stella".

Scomparve nel corridoio, lasciando Emilia e Federico da soli.

Emilia posò la tisana sul tavolino. Aveva lo stomaco chiuso e non riusciva a ingurgitare nemmeno un goccio d'acqua.

"Hai ancora i capelli bagnati" esclamò Federico.

"Sì, ma fa nulla".

Il ragazzo scosse il capo e si alzò in piedi. "Non puoi andare a dormire così, vieni".

Emilia lo guardò perplessa, poi lo seguì in bagno, con la stessa sicurezza di chi conosce un posto da sempre. Non si sentiva impacciata come lo si è di solito nelle case in cui si entra per la prima volta, quell'ambiente aveva qualcosa di familiare.

Federico infilò la spina del fon nella presa e, in piedi alle spalle della ragazza, di fronte allo specchio, iniziò ad asciugarle i capelli.

Emilia sorrise nel riflesso, commossa da quel gesto inaspettato.

Federico ricambiò il sorriso, per poi continuare il suo lavoro, e tra i due cadde un silenzio che non sapeva di imbarazzo. Erano stanchi, con la testa affollata da pensieri, e l'uno rispettò lo stato d'animo dell'altra.

Emilia si voltò e appoggiò la testa sul petto del ragazzo, sul collo l'aria calda e la mano di Federico, che le spostava i capelli per asciugarli meglio. Chiuse gli occhi, cullata da quel rumore bianco, che sembrava affievolire il malessere che si portava dentro. Di tutti i momenti che avevano costellato la sua vita da un po' di mesi a questa parte, quello fu uno dei più sereni.

"Dovrebbero essere asciutti" esclamò Federico, spegnendo il fon.

Emilia sorrise. "Grazie".

"Dai, ti accompagno in camera".

Il ragazzo la guidò nella sua stanza e accese l'abat jour vicino al letto.

La stanza era ordinata e minimale, con le pareti tinte di verde e mobili scarni che contenevano pochi oggetti. Sulla scrivania erano sparpagliate delle penne e il libro di latino aperto, sottolineato a matita.

"Stavi studiando?" domandò la ragazza, curiosando.

"Ripassando, più che altro, domani ho l'interrogazione di latino".

Emilia strabuzzò gli occhi. "Merda, se lo avessi saputo non ti avrei mai disturbato".

"Sh sh sh". Federico chiuse il libro e la spinse con delicatezza verso il letto. "Non ci pensiamo".

Si sedettero sul letto e restarono per alcuni minuti zitti, godendosi un altro piacevole silenzio.

"Stai un po' meglio ora?".

Emilia annuì. "Sì, grazie".

"Mi dispiace per quello che è successo con tuo padre".

La ragazza abbassò lo sguardo. "È una storia complicata. Da quando mia madre è morta mio padre si è allontanato dalla famiglia materna ed è sempre stato contrario al fatto che io la frequentassi". Nemmeno si chiese perché gli stesse raccontando quelle vicende così personali, le parole le uscivano dalla bocca d'istinto. "Quando ero piccolina ogni tanto li vedevo, c'erano i miei zii, i miei cugini e mia nonna, tutti della Basilicata, e lei per un periodo è stata a casa nostra qua a Torino. Le volevo bene, ma poi è tornata giù e da quel momento mio padre non me l'ha fatta più vedere. Non sono potuta nemmeno andare al suo funerale".

Federico aveva lo shock dipinto in faccia.

"Tua mamma è morta?".

"Sì, ma ero così piccola che non ho ricordi di lei".

Il ragazzo era come pietrificato.

"Quindi i problemi con mio padre ci sono da sempre, a causa di questa storia, ma oggi abbiamo litigato di brutto perché mia zia mi ha invitato una settimana giù e lui non vuole assolutamente mandarmi. Non capisco perché, ma è così ingiusto".

Federico cercò la sua mano. "Dio, Emilia, è terribile, mi dispiace così tanto".

Emilia scosse il capo. "Scusami, non volevo ammorbarti con i miei problemi".

"Non dirlo neanche per scherzo". La strinse in un abbraccio e le lasciò un bacio sulla nuca. "Se hai bisogno di sfogarti io ci sono".

Restarono incatenati in quell'abbraccio a lungo, senza dirsi altro, il silenzio che parlava al posto loro. Per la prima volta da quando lo conosceva, Emilia si sentì davvero al sicuro con lui. Quella notte tutto il resto scomparve: c'erano solo loro due e quella vicenda così particolare e difficile le fece pensare che lui potesse davvero volerle bene.

"Che dici, andiamo a dormire?" domandò Federico.

"Certo".

La ragazza si infilò nel letto, un po' imbarazzata, e il ragazzo le sistemò le coperte.

"Buonanotte, Fede".

"Buonanotte Emilia".

Si scambiarono un ultimo sorriso, poi Federico spense la luce e uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.


Spazio autrice:

Ehilà lettori, mi scuso con voi per il mancato aggiornamento di venerdì, ma sono stati dei giorni davvero pieni e in più questo capitolo mi ha creato non poche difficoltà. L'ho scritto diversi mesi fa e questa scena era ben chiara nella mia testa dal primo momento in cui iniziai questa storia, tuttavia, nel momento in cui mi sono ritrovata a rileggerlo prima della pubblicazione, mi sono sentita insoddisfatta, sia per la scrittura in sé sia per il contenuto stesso. Ho provato ad apportare alcune modifiche, a stravolgere le dinamiche, ma alla fine l'istinto mi portava sempre lì, a questa corsa sfrenata di Emilia verso Federico, come se la mia volontà non contasse più nulla e fossero i personaggi a decidere al posto mio.

Spero, quindi, che questo capitolo, partito da un'idea primordiale che non mi ha mai abbandonata, vi sia piaciuto. In caso contrario, sono sempre disponibile per ascoltare critiche o consigli.

Un abbraccio, ci risentiamo (spero) venerdì❤️

Baby Rose

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