49- Il rumore della sorellanza

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29 maggio

"Niente, Elia non mi risponde".

Emilia scosse il capo delusa e infilò il cellulare nella tasca posteriore dei jeans.

"Merda" mormorò Andrea, incrociando le braccia sul petto. "Se non risponde neanche a te siamo messi male".

Ruben sbuffò prese a camminare nervoso, scuotendo le mani come se stesse suonando un tamburello.

Il corridoio del secondo piano, affollato dagli studenti intenti a godersi il quarto d'ora d'intervallo, sembrava vuoto. Davanti agli occhi dei ragazzi era calato un velo, fatto di mancanza, preoccupazione e interrogativi, intrecciati in un'unica matassa.

Né Elia né Rebecca si erano presentati a scuola il lunedì mattina e il loro silenzio li teneva in agitazione.

"Qualche novità?" esclamò Denisa, comparsa alle loro spalle insieme ad Alessia.

Emilia scosse il capo. "No, tu?".

"Niente, Rebi ha spento proprio il telefono".

Nessuno aggiunse nulla, ognuno perso nei propri pensieri, alla ricerca di una risposta che da soli non avrebbero mai trovato.

Sabato sera una miccia era stata lanciata in mezzo a loro e aveva innescato un'esplosione, colpendo alcuni maggiormente di altri, ma lasciando in tutti almeno una piccola ferita.

"Ciao ragazzi".

Simone si unì al cerchio e abbracciò Ruben. "Che si dice?".

"Nessuno dei due ci risponde" rispose Emilia, lo sguardo rassegnato.

Il ragazzo sorrise aspro. "Mi dispiace, cavolo".

Di fronte al silenzio degli altri, aggiunse: "Tu Emi come stai? Parodi ti ha messa nei guai?".

Emilia non smetteva di torturarsi le mani, sulle nocche della mano destra le sbucciature provocate dal pugno. "Siamo rimasti che ognuno si fa i cazzi propri. Che poi, se lo senti in giro, dice di aver fatto a botte con uno sconosciuto e si vanta pure di avergliele date".

Le risate timide e composte degli altri allentarono la tensione che aleggiava nel gruppo.

Andrea le rivolse di sottecchi uno sguardo fiero. Aveva assistito alla scena terrorizzato, giudicando in un primo momento quello scatto d'ira come scellerato; ma a mente lucida, dopo due giorni dall'accaduto, si era accorto di ammirarla.

"È stata tutta colpa mia". Alessia era l'unica a non ridere. Aveva lo sguardo basso e grave, il corpo mummificato.

Denisa le passò una mano tra i capelli. "Ale, che dici?".

"Cazzo, Denisa, se non l'avessi invitato tutto questo non sarebbe mai accaduto". Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma si sforzava di non farle scendere lungo il viso. "È tutta colpa mia".

"No, no, shh, shh, shh". Simone la abbracciò, tenendole la nuca premuta contro il proprio petto. "Se non fosse accaduto alla tua festa, sarebbe sicuramente accaduto in un altro momento, magari però senza che nessuno di noi fosse presente. Sarebbe stato peggio, non credi?".

Alessia parve calmarsi.

"E poi" aggiunse il ragazzo, ridendo. "Se fosse accaduto senza che noi ci fossimo, Emilia non avrebbe mai rimesso al suo posto quel coglione".

Anche Alessia rise e si liberò dall'abbraccio, asciugandosi gli occhi con il dorso delle mani. "Scusatemi raga per tutti i casini che ho combinato, meno male che i diciott'anni si festeggiano solo una volta nella vita".

Il suono della campanella li costrinse a interrompere i loro discorsi e a ripiombare alla realtà.

"Dai, torniamo in classe" esclamò Simone, prendendo Ruben sotto braccio. Il ragazzo si fece trascinare come un pupazzo. Aveva lo sguardo vacuo e la mente persa chissà dove. "Ci vediamo dopo, teneteci aggiornati".

Andrea annuì, per poi rivolgersi ad Emilia. "Aspettiamo domani? Non so".

"Non c'è la finale della Mole Cup?".

"Sì, ma a questo punto non so se verrà".

Emilia rimase in silenzio alcuni istanti, assorta.

"Elia non può perdersi un evento del genere" decretò, infine. "È la punta della squadra e non vi lascerebbe mai nella merda".

"Lo spero". Non c'era convinzione nelle parole del ragazzo, ma decise di non controbattere. "Io provo ancora a scrivergli stasera, chissà che cambi qualcosa".

Si rivolse alle altre. "Vi saluto, buona giornata ragazze, fatemi poi sapere se riuscite a contattare Rebecca".

Si congedò con un sorriso timido ed Emilia seguì con lo sguardo la sua figura finché non fu entrato in classe.

"Raga, che facciamo con Rebi?" domandò Denisa, poggiando severa i pugni sui fianchi.

Emilia e Alessia si scambiarono un'occhiata perplessa, alla ricerca di una risposta l'una nello sguardo nell'altra.

"Forse è un'idea un po' drastica" disse Emilia "Ma io proporrei di andare direttamente a casa sua dopo scuola".

"Ci sto" rispose Denisa, senza riflettere un solo istante e indietreggiando verso la propria classe. "Vi passo a prendere alle tre".

Sparì nella propria aula, lasciando le ragazze sole nel corridoio ormai vuoto.

"Andiamo anche noi, vah". Emilia cinse le spalle dell'amica con un braccio e la guidò verso la loro classe. "Altrimenti la prof ci incula".

Alessia non sembrava preoccupata dalla prospettiva. La sua mente era lontana dalla scuola e dalle vicende che le accadevano intorno.

"Ma tu te lo aspettavi che Elia fosse gay?".

Emilia scosse il capo. "Assolutamente no. Comunque non è detto che sia gay, magari è bisessuale o pansessuale, che ne so".

"Ma sì, certo, era per dire che personalmente non mi aspettavo affatto che potessero piacergli anche i ragazzi, non dopo tutte le sparate omofobe che ha sempre fatto".

"Forse non abbiamo mai provato a capirlo davvero".

Alessia non aggiunse altro. Il suo mondo era in bianco e nero e non ammetteva sfumature, amava la precisione e che tutto fosse incasellato in specifici scompartimenti, come in un laboratorio.

Odiava gli interrogativi, le persone ambivalenti, gli equivoci. L'incoerenza degli esseri umani la faceva sentire sopraffatta.

Rientrarono in classe in silenzio, l'insegnante già seduta in cattedra che controllava il registro elettronico con gli occhialetti calati sul naso.

Il suo fu l'unico sguardo a non squadrarle felino mentre andarono a sedersi al proprio posto.

A scuola erano girate alcune voci sul pugno a Parodi e sul bacio di Elia e Ruben e molti dei loro compagni speravano di poter carpire qualche informazione che placasse la loro morbosa curiosità semplicemente guardandole negli occhi.

"Emi" sussurrò Alessia, allungandosi verso di lei. "Visto che ci sei, potresti tirare un pugno anche a quella faccia da cazzo di Jessica? Se continua a guardarmi così giuro che do di matto".

Rebecca viveva nella periferia benestante di Torino, in una villetta in collina che si affacciava sul parco del Valentino. Percorrendo quei tornanti, incastrati tra boschi fitti e rigogliosi, di tanto in tanto facevano capolino ville gigantesche, circondate da giardini curati e regali.

Denisa parcheggiò l'auto in uno spiazzo e le tre ragazze si avviarono timorose all'imponente cancello d'ingresso.

"E se ci caccia via?" domandò Emilia, il dito sul bottone del citofono.

Denisa sbuffò spazientita. "Dai, suona".

Dopo alcuni istanti sentirono una voce dall'altra parte della cornetta.

"Chi è?".

Emilia, ignara di essere osservata dall'interno dalla telecamera del videocitofono, si voltò verso le altre, come una vittima d'amnesia alla ricerca della propria identità, e Denisa si fece avanti scansandola bruscamente.

"Salve signora, siamo delle amiche di Rebecca, frequentiamo anche noi il d'Azeglio. Rebecca è in casa?".

La donna tentennò. "Sì, ma non si sente molto bene".

"Immaginavamo" proseguì la ragazza, che aveva tirato fuori il suo tono più cordiale e ammaliante. "Eravamo preoccupate per lei e abbiamo pensato di venire a trovarla. Se disturbiamo, però, passiamo in un altro momento, non c'è alcun problema".

"No, no". La voce della donna era incerta. "Entrate pure".

Il cancello si aprì di fronte a loro e percorsero il vialetto una dietro l'altra, come una fila ordinata di soldatini. Emilia non aveva mai visto tanta opulenza: la villa si stagliava di fronte a loro come una Casa Bianca di dimensioni ridotte, le colonne sinuose a presidiare l'ingresso e alcune statue in stile greco a decorare il porticato.

"Comunque tu non stai bene" sussurrò Denisa divertita, accostandosi ad Emilia. "Non puoi prendere a cazzotti uno e poi vergognarti di rispondere al citofono a casa di una tua amica".

Emilia non rise. Nell'ultimo periodo aveva l'impressione di vivere incollata ai citofoni delle case delle persone; immobile davanti a portoni e cancelli chiusi, inseguendo affetto, bisogno di dimostrare gratitudine, bisogno e basta.

La donna che le accolse sulla soglia era la versione adulta di Rebecca. Lo stesso naso appuntito, gli stessi capelli ricci e biondi, lo stesso sguardo malinconico.

"Prego, entrate".

I movimenti del suo corpo erano timidi, sembrava timorosa di occupare lo spazio attorno a lei, nonostante quello spazio fosse di sua proprietà.

Le ragazze salutarono e restarono in silenzio, composte e sorridenti in quel salotto così grande e moderno da risultare asettico. Tutto era così bianco e minimale da snervare anche la più rigorosa delle menti.

"Vado a chiamare Rebecca". La donna aveva lo sguardo vacuo, parlava e si muoveva con lentezza.

Sole in quello spazio freddo, le ragazze si scambiarono alcune occhiate eloquenti, comunicandosi vicendevolmente preoccupazione, imbarazzo, ma anche speranza.

"Potete andare in camera sua". La mamma di Rebecca era ferma in cima alle scale, sospese al centro del salotto e curve.

Le ragazze la seguirono, muovendosi con attenzione in quella casa borghese, arredata senza amore, che non aveva alcuna personalità.

La donna indicò una porta socchiusa in fondo al corridoio, un sorriso stranito impresso in volto.

"Grazie mille" disse Denisa, per poi avviarsi per prima nella stanza.

Rebecca era seduta sul letto a baldacchino, in pigiama, i capelli raccolti in modo disordinato sulla nuca e gli occhi segnati da profonde occhiaie.

"Rebi, amore". Denisa le si sedette accanto e la strinse in un abbraccio. "Ci sei mancata oggi".

La ragazza non rispose, si limitò a lasciarsi stringere da quelle braccia che trasmettevano sicurezza, il profumo di marca familiare e deciso indossato dall'amica a pizzicarle le narici.

Alessia si lasciò cadere sulla sedia girevole della scrivania, mentre Emilia prese posto sul piccolo divano foderato in pelle.

La stanza era ampia e mansardata, tinta di bianco, arredata da mobili antichi in legno scuro che catapultarono le ragazze in un'atmosfera ottocentesca.

"Come stai?" domandò Denisa, carezzando la schiena dell'amica con la dolcezza di una mamma.

Rebecca si limitò a fare spallucce, lo sguardo basso e le mani in grembo.

Le ragazze tennero lo sguardo fisso su di lei, preoccupate, cercando ognuna dentro di sé le parole meno sbagliate da dire, perché in fondo sapevano che non ce n'erano di giuste.

Emilia si sporse verso di lei, puntellando i gomiti sulle ginocchia. "Ti va di parlare di quello che è successo sabato? O preferisci fare altro?".

Rebecca le rivolse uno sguardo affettuoso. Emilia era stata l'unica persona con cui in passato avesse condiviso aspetti oscuri della sua vita e della sua anima: non ne amava l'impulsività, l'irruenza, a volte l'incoerenza, eppure lei riusciva a tirarle fuori cose come nessun altro aveva fatto prima.

"Tanto non ha senso tenere nascoste le cose, è solo peggio" mormorò, abbassando di nuovo lo sguardo.

Le ragazze restarono in attesa, rispettando i tempi dell'amica. Erano consapevoli che parlare di ciò che era accaduto le costasse fatica.

"È dalla gita che Alberto prova a voler andare oltre il bacio, solo che io non volevo".

Emilia sentì il dolore della ragazza sulla propria pelle, come se fosse suo. In fondo apparteneva anche a lei.

"E sabato l'ennesimo No ha fatto succedere quel che è successo".

Le ragazze si guardarono sconvolte e schifate.

"Cristo, che pezzo di merda" disse Alessia, sputando quelle parole come se fossero veleno.

Rebecca disegnava cerchi immaginari sul materasso con la punta dell'indice. "Me lo aspettavo diverso".

Non pianse e non aveva gli occhi gonfi di chi ha pianto da poco. Parlava quasi con apatia, rassegnata di fronte all'accaduto. Vederla in lacrime sarebbe stato meno doloroso: l'impassibilità la rendeva inconsolabile.

Denisa la abbracciò di nuovo. "Mi dispiace tanto, che stronzo, davvero".

Alessia si mordicchiava nervosa le unghie. "Scusami Rebi, non avrei mai dovuto invitarlo al mio compleanno, mi sento troppo in colpa".

"No, è colpa mia" si intromise Emilia, portando la mano sul petto. "L'ho incoraggiato a provarci con te, ma se solo avessi saputo che tipo era... Scusami, ti prego".

"No, non fate così". La voce di Rebecca si fece d'improvviso decisa. "Se c'è una cosa che mi avete insegnato, soprattutto tu, Emilia, è che quando un ragazzo si comporta così il colpevole è solo uno, lui".

Le ragazze sorrisero, soprese e consapevoli che avesse ragione.

Restarono alcuni minuti in silenzio, un silenzio sereno che non sapeva di imbarazzo.

"Dai, diglielo".

Alessia si rivolse verso Emilia, indicandole Rebecca con un cenno del capo.

Denisa tentò invano di nascondere un sussulto, mentre Rebecca guardò preoccupata l'amica.

Emilia abbassò lo sguardo. Aveva paura della reazione che avrebbe avuto, dati i loro precedenti, e maledisse la propria impulsività.

Allungò la mano destra nella sua direzione, senza dire una parola.

"Cosa ti è successo?" domandò d'impulso la ragazza, per poi restare alcuni istanti immobile, la bocca schiusa e gli occhi spalancati. "Tu l'hai... No, non".

Emilia annuì, come un imputato stanco di mentire di fronte al giudice.

"Che pazza che sei". Non c'era severità nella sua voce e parve divertita dall'episodio.

"Comunque mi sono fatta più male io a tirargli il pugno che lui nel riceverlo".

Alessia, trattenutasi fino a quel momento, scoppiò a ridere e subito contagiò le altre.

"Ma poi dovresti sentire la descrizione di Andrea" continuò la ragazza, tenendosi la pancia. "Si è tolta i tacchi e gli è andata incontro tutta storta".

Le loro risate rumorose riempirono la stanza.

"E lui va in giro a dire di aver fatto a botte con uno e di avergliele pure date!".

Continuando a ridere, saltarono tutte sul letto di Rebecca e si avvilupparono in abbraccio scomposto.

"Rebi, allora domani torni a scuola?" domandò Denisa.

La ragazza tentennò e le voci delle altre si unirono in coro.

"Dai, vieni Rebi, senza di te non sopravviviamo a quella gabbia di matti".

Rebecca sorrise, lo sguardo rivolto al soffitto.

"Ti passo a prendere in macchina" aggiunse Denisa, lo bocca al suo orecchio e la voce seducente. "E andiamo a prendere il cornetto al bar".

La ragazza rise, scuotendo il capo.

"Va bene, va bene, vengo".

L'urlo gioioso delle ragazze risuonò in tutta la camera, forse in tutta la casa.

Era quello il rumore che faceva la sorellanza.


Spazio autrice:

Ehilà lettori, grazie mille per aver letto questo capitolo e scusate per il ritardo nella pubblicazione! Dopo una serie di capitoli bomba uno dietro l'altro, quello di oggi è sicuramente più tranquillo, ma vi consiglio di non rilassarvi troppo, perché altri guai sono in arrivo...

La situazione vissuta da Rebecca mi fa molto male, perché, anche se estremizzata, è comunque molto simile a tante altre vissute ogni giorno dalle ragazze. Uomini che pensano che sia loro tutto dovuto e ti trattano di merda quando esprimi un "No", come se il consenso fosse un patto firmato nel momento in cui si inizia una conoscenza e non una volontà da manifestare o meno in ogni singola occasione.

Mi rivolgo soprattutto alle lettrici più piccole: non sentitevi mai in dovere di fare qualcosa soltanto perché è il ragazzo con cui vi frequentate o con cui avete una relazione a chiedervelo. Dovete fare SOLO quello che volete voi, con i vostri tempi e secondo i vostri desideri. Mettete al primo posto il vostro benessere e non sentitevi in colpa a rifiutare di fare qualcosa se non ne avete voglia.

Vi abbraccio forte❤️

Baby Rose

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