53- Solo un sogno

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1 giugno

R: -Dobbiamo dire al preside che quel ragazzo mi ha alzato le mani, ok? Mi ha detto Fede di dire così, in questo modo i suoi genitori non coinvolgeranno i carabinieri.

R: -Siamo tutti d'accordo?

Emilia rilesse quei messaggi per la decima volta.

Aveva trascorso la sera precedente a memorizzare il copione che Ruben aveva ideato per lei e Simone, sotto consiglio di Federico.

Lo studente dell'Alfieri ha insultato Ruben chiamandolo frocio.

Lo studente dell'Alfieri ha minacciato di picchiare Ruben se non se ne fosse andato da bordo campo.

Lo studente dell'Alfieri ha spintonato Ruben e chissà che altro avrebbe fatto se non fosse intervenuto Elia a difenderlo.

Una verità ingigantita per proteggere Elia. Elia, che era stato il primo ad entrare in presidenza, insieme a suo padre, e che era uscito da scuola non appena erano scoccate le nove.

Emilia, seduta su una delle poltroncine rosse di fronte alla presidenza, lo aveva guardato con gli occhi spalancati, pieni di interrogativi, ma il ragazzo l'aveva ignorata, percorrendo il corridoio a sguardo basso.

"Martucci, venga pure".

Simone uscì dall'ufficio in religioso silenzio, rivolgendo un sorriso incerto a Emilia.

Il preside era sulla soglia, con indosso un completo elegante e una cravatta grigia. Era solito indossare cravatte colorate e dalle fantasie bizzarre, e quel dettaglio lo faceva apparire molto più austero.

L'unico altro giorno in cui lo aveva visto indossare un colore tanto spento era stato dopo l'occupazione, quando aveva convocato Federico.

La ragazza si sedette su una delle sedie di fronte alla scrivania, muovendosi con accortezza, quasi temesse di rovinare qualcosa in quella stanza istituzionale. Era già stata in presidenza, eppure le sembrava tutto estraneo.

"Come sta?".

Nonostante la serietà nello sguardo, la voce dell'uomo era gentile.

"Bene, grazie" rispose Emilia, deglutendo rumorosamente. "Forse solo un po' scossa".

"Certo, immagino. Comunque tranquilla, non la tratterrò molto, voglio solo sapere le dinamiche di quanto successo ieri dal suo punto di vista".

La ragazza annuì, fingendo di dover elaborare a parole il ricordo per la prima volta.

Aveva memorizzato il copione; non doveva far altro che attenercisi e condirlo con le abilità che aveva acquisito a teatro.

"Io ero a bordo campo con Simone Kayembe e Ruben Leroy, stavamo chiacchierando tranquilli e, dato che la partita con era ancora iniziata, pensavamo di non dar fastidio a nessuno, inoltre in giro c'erano anche altri ragazzi. Elia Sabatucci, nel frattempo, stava correndo per tutto il campo".

Trasse un profondo respiro. Imparare a memoria un discorso studiato a tavolino aveva reso gli eventi della sera precedente una pièce teatrale e aveva la sensazione che nulla di ciò che era accaduto fosse reale.

È una scena da aggiungere allo spettacolo di Simo. Elia che tira un finto pugno, sangue finto, il pubblico euforico che applaude.

"All'improvviso è comparso questo ragazzo dell'Alfieri, immagino si chiami Lorenzo, c'era sua madre che lo chiamava, che inizia a dirci che non potevamo stare dov'eravamo e che ce ne dovevamo andare. Ruben gli chiede perché e il ragazzo gli urla che è un frocio e che i froci come lui non ci devono stare alle partite. Ruben non risponde alle provocazioni, allora quello lo minaccia di picchiarlo se non se ne fosse andato, fino ad arrivare a spintonarlo. Per fortuna che è intervenuto Elia a difenderlo, perché quel ragazzo era molto alto e spesso e né io né Simone saremmo riusciti a fermarlo".

Il preside annuì ed Emilia scorse della noia nel suo sguardo. Probabilmente era stanco di sentirsi ripetere la stessa storia e non vedeva l'ora di andare in pausa e bersi un caffè.

"La ringrazio, Martucci" disse, sporgendosi verso la ragazza, i gomiti sulla scrivania. "Lei sta bene? Il ragazzo ha aggredito verbalmente o fisicamente anche lei?".

Emilia ripensò alla sera precedente. Tutto continuava a sembrarle finto.

"Per fortuna no, non mi ha nemmeno rivolto la parola". Esitò alcuni istanti, lo sguardo fisso su un'agenda in pelle nera sul tavolo in legno scuro. "È stata un'aggressione omofoba. Quel ragazzo e Ruben non si conoscevano, non c'erano trascorsi personali tra loro, l'unico motivo che lo ha spinto è stato l'omosessualità di Ruben".

"Certo, capisco". La risposta fu scialba, quasi non avesse ascoltato le parole della ragazza.

"Credo sia molto grave che a un evento sportivo organizzato da due licei della città avvenga un'aggressione omofoba. Cosa dice questo delle scuole che frequentiamo, dell'educazione che ci viene impartita? Tutti stanno accusando Elia, perché ha rotto il naso a quel ragazzo, e non voglio sminuire la gravità del suo gesto, ma sembra che nessuno si stia chiedendo: dov'erano gli adulti mentre Ruben veniva aggredito? Dov'è l'istituzione quando uno studente, per difendere un amico in seria difficoltà, trova come unica strada la violenza?".

L'espressione del preside mutò, come se avesse iniziato a sentire la voce della ragazza solo in quel momento.

"Il liceo Massimo D'Azeglio è riconosciuto come il migliore della città di Torino, nonché uno dei migliori licei classici d'Italia" rispose, il tono di voce più duro. "Gli studenti all'interno di queste mura ricevono un'ottima educazione, non solo scolastica, ma anche umana. Certo è, però, che non abbiamo la bacchetta magica. Non vivete qui dentro e su quello che succede fuori di qui non abbiamo influenza: ci sono le vostre famiglie, le compagnie che frequentate, i social".

"Lei sta sottovalutando enormemente il ruolo della scuola" ribatté Emilia, sottolineando l'avverbio. "Li ha visti gli studenti di questo istituto? Lei, in qualità di preside, si prende del tempo per osservarli, anche solo ogni tanto? Io vedo tanti problemi attorno a me, tanta tristezza, tanta disillusione, tanto abbandono. Siamo ragazzi senza sogni e strumenti per affrontare la vita e io sono sicura, e mi scusi se mi permetto di dirlo, che la scuola sia in buona parte causa di questo".

L'uomo accennò una risata. "Mi sembra di rivedere me a diciott'anni, guardandola. Comprendo la sua rabbia, ma, si fidi di un vecchio che ha trascorso molti anni dentro le scuole, non è tutto così semplice. Anch'io vorrei che la scuola potesse salvare tutti voi ragazzi, ma non è possibile farlo, non con tutti, almeno".

"Il problema è che non lo fa con nessuno".

Il cervello e la bocca erano ormai connessi da un filo diretto. Non erano molte le occasioni in cui era possibile parlare a quattr'occhi con il preside e non intendeva lasciarsi scappare l'occasione di dar voce ai propri pensieri.

"Capisco i suoi discorsi e li trovo ammirevoli" disse l'uomo, alzandosi. "Ora, però, la lascio tornare in classe, non voglio farle perdere altro tempo".

Emilia si alzò, stizzita.

Raggiunse la porta senza attendere che il preside la accompagnasse.

"Comunque io non sono come lei" esclamò, un piede in corridoio. "Nemmeno come lei a diciott'anni".

Si richiuse la porta alle spalle e trasse un profondo respiro.

Il corridoio era deserto e da un'aula con la porta aperta proveniva la voce di un'insegnante di Latino, intenta a spiegare Ovidio.

Si incamminò a passo incerto verso la propria aula. Non ricordava che lezione ci fosse durante quell'ora, ma, qualunque essa fosse, l'idea di dover stare al banco, fingendosi interessata mentre tutto attorno a lei si distruggeva in mille pezzi, le dava la nausea.

Aveva bisogno di sentire Elia, di sapere come stesse, che cosa gli avesse detto il preside, come si sentisse dopo il bacio di sabato con Ruben. E, soprattutto, doveva mantenere la promessa che si era fatta: raccontare di lei e Federico a Denisa, mettere un punto fermo a quella logorante storia.

Entrò in classe barcollando, persa nei propri pensieri.

Tra i compagni si diffuse un fastidioso brusio.

"Buongiorno Emilia" esclamò la Bianchi, una nota di stizza nella voce. "Su, vai a sederti".

La ragazza obbedì, prendendo posto vicino ad Alessia.

"Allora?" bisbigliò Alessia, sporgendosi verso di lei.

"Silenzio, per favore, riprendiamo la lezione".

La ragazza si ritrasse e rivolse un eloquente gesto ad Emilia. Ne riparliamo dopo.

Dopo un'ora e mezza di traduzione su testi scritti in latino, il suono della campanella che segnava l'inizio dell'intervallo fu un sollievo.

"Quindi?". Alessia era un fascio di nervi, così agitata da non respirare tra una frase e l'altra. "Che ti ha detto il preside? Elia è nei guai? Sei riuscita a parlarci? Comunque ancora non ho capito benissimo cosa sia successo".

Emilia si sentì soffocata da tutte quelle domande, non aveva voglia di rispondere, di descrivere tutto per l'ennesima volta.

Era esausta.

"Ale, prometto di raccontarti tutto" rispose, la voce ridotta a un sibilo. "Ma prima devo fare una cosa molto importante".

Uscì dall'aula senza darle il tempo di chiedere spiegazioni o seguirla.

Si fece l'argo tra gli studenti, sgomitando fino a raggiungere le scale, da cui scendevano molti ragazzi.

Ogni gradino che percorreva verso il terzo piano era la sua ascesa verso la fine. Era così impaziente di liberarsi di quel peso che aveva smesso di pensare alle conseguenze. Sapeva che sarebbero state orribili, ma sembrava quasi che l'idea non la toccasse in alcun modo.

Raggiunse l'aula di Denisa, la Quinta A, posizionata a metà corridoio, di fronte alle finestre che davano sul cortile.

"Scusate" esclamò, dopo essersi affacciata dalla porta e aver notato che lei non era in classe. "Sapete dove sia Denisa?".

Le ragazze presenti risero e si scambiarono alcune occhiate maliziose.

"Prova in bagno" rispose una di loro, senza smettere di ridere, ricevendo una gomitata da una delle amiche.

"Dai, ti prego" bisbigliò quella, fingendosi arrabbiata, e la scenetta acuì le risate del gruppo.

Emilia sollevò un sopracciglio e uscì dalla classe senza salutare.

Raggiunse il bagno confusa, una scintilla di inquietudine innescata dalle reazioni delle compagne di Denisa.

Non fece in tempo a porsi altre domande su di loro.

Non appena mise piede in bagno, sentì l'intero edificio crollarle addosso.

Denisa era in lacrime, seduta per terra contro il muro, il trucco sbavato e le mani nei capelli.

Inginocchiata di fronte a lei c'era Rebecca, che le mormorava qualcosa nel tentativo di calmarla.

"Cristo" strillò Denisa, non appena vide Emilia sulla porta. Le sue urla erano strazianti. "Che cazzo ci fai qui? Che cazzo vuoi?".

La ragazza restò immobile, incapace di parlare, di muoversi, di pensare.

Aveva l'impressione che i muri le si stessero avvinghiando attorno, fino a spezzarle le ossa.

"Che cazzo, vattene via" urlò Denisa, sbattendo i piedi. "Sei solo una troia, Emilia, non ti voglio vedere, vattene via, cazzo".

Rebecca le rivolse uno sguardo compassionevole.

"Fidati, è meglio se vai" mormorò, implorando Emilia con gli occhi.

La ragazza indietreggiò.

"È tutto finto" si disse. "Non può essere vero, è solo un sogno".

Uscì barcollando e andò a sbattere contro una ragazza del quinto anno.

Non sentì quello che la ragazza le disse. Aveva la mente annebbiata, come se fosse sotto effetto di alcol.

"È tutto finto. Non può essere vero. È solo un sogno".

Si aggrappò alla ringhiera del pianerottolo con tutte le sue forze, sforzandosi di restare in piedi.

Qualcuno era arrivato prima di lei. Un solo istante prima, qualcuno che non c'entrava nulla con quella storia le aveva tolto il diritto di dichiararsi colpevole e assumersi le proprie responsabilità.

E si promise che, chiunque fosse stato, gli avrebbe giurato guerra in eterno.


Spazio autrice:

Ehilà ragazzi, per una volta sono riuscita ad aggiornare giusta con i tempi, incredibile hahaha.

Che dire... Come vi sentite dopo la fine di questo capitolo? Vi aspettavate che le vicende avrebbero preso questa piega? Secondo voi come ha fatto Denisa a scoprire tutto? Fatemi sapere nei commenti!

Io vi lascio al weekend con tutti questi dubbi. Spero che, nonostante questo, possiate passare un bellissimo fine settimana!

Un abbraccio❤️

Baby Rose

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