Dicembre 1669

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La cappella avrebbe fatto invidia alle grandi cattedrali di città in quel giorno di Natale. Gli occhi non smettevano di pascersi degli ornamenti, degli ori, dei manti che piovevano da ogni trave, da ogni colonna. L'abate in persona officiò la cerimonia alla presenza del duchino e di sua moglie, seduti su due piccoli scranni che avrebbero dovuto rendere omaggio al loro rango, ma che in realtà non erano di fattura più raffinata delle rudi assi inchiodate a formare le panche del popolo di Dio. La funzione era stata commuovente, benché poco o nulla si intendesse delle parole e dei canti in latino; ma l'abate era intonato ed era anche un discreto predicatore. I suoi discorsi toccarono il cuore dei presenti, mentre il suo dito indicava con insistenza il bambinello di legno ai piedi dell'altare, nella paglia sparsa sui gradini.

"Egli è vero Dio, e scende in questa carne rendendola divina. Per suo mezzo siamo diventati figli di Dio: perché egli per primo si è fatto Figlio dell'Uomo. Egli è Uomo e Dio: questo è il mistero della nostra fede" aveva detto al culmine dell'omelia, e qualche vecchia donna aveva singhiozzato in fondo. Galatea aveva volto il viso, ma il velo bianco che le scendeva davanti agli occhi le aveva impedito di individuare, nel folto gruppo di contadini, colei che stesse piangendo. Anche Ottavio aveva mosso leggermente la testa, forse lui l'aveva vista: ma che importanza aveva allora? Le prese la mano e gliela strinse, ma lei non osò guardarlo dritto in viso.

"Egli non era diverso dai nostri bambini - aveva continuato l'abate dal pulpito - E i suoi genitori non provarono una gioia diversa dalla nostra quand'Egli nacque. Perché essi erano uomini quali siamo noi"

Galatea accennò un sorriso all'udire il plurale inclusivo che l'abate aveva usato: da qualche parte in quella cappella si nascondevano due visini non molto dissimili dal suo, con gli stessi capelli neri pettinati a scodella. Li aveva intravisti entrando e, benché consapevole del grave peccato nascosto dietro la loro nascita, non aveva potuto far a meno di felicitarsi in cuor suo per il fatto che quei due bambini vivessero. A quel punto, fu lei a stringere la mano di Ottavio e ad aspettare i suoi occhi su di sé. Lui si volse e le fece un cenno rapidissimo con la testa. Nei giorni precedenti avevano letto ancora varie volte l'Adone, senza più incappare in passi lascivi come quello di fine novembre. Ci sarebbe stato, prima o poi, occasione di rileggere anche quelle ottave senza arrossire e senza ridere di vergogna.

Si festeggiò con un grande banchetto in cui si diede fondo alle provviste del monastero; a quella magra riserva si sommava la generosità dei contadini che portavano i propri salami, il proprio vino buono e il pane, i dolci e le paste farciti dalle loro mogli. Ci fu da mangiare per tutti e nessuno tornò a casa meno che sazio. Galatea, esausta dalla festa, si ritirò presto nella propria stanza e non faticò ad addormentarsi; non diversamente Ottavio, che forse esagerò anche con il bere e tornò barcollando, sebbene non fosse ubriaco. Il giorno dopo, ricorrenza di santo Stefano, nevicò molto forte; la maggior parte dei pellegrini, fortunatamente, era già rincasata nei villaggi. Solo poche stanze erano occupate nella foresteria e quando Ottavio uscì nel corridoio per recarsi in chiesa sentì ridere le voci di due bambini. Lo prese una strana morsa allo stomaco e non riuscì a distogliere la propria attenzione da quelle grida di gioia. Diresse i passi nella loro direzione, identificò la cameretta da cui venivano e bussò. Le voci tacquero di colpo, mentre la chiave girava nella serratura. Un viso di donna comparve nello spiraglio che si aprì subito dopo.

«Vostra Altezza» trasalì la giovane, scostando un poco la porta. Ottavio vide che vestiva abiti umili ma curati, gli abiti della festa. Il silenzio, nella stanza, sembrava irreale. Anche Galatea si affacciò sul corridoio e lo vide lì, a quella porta, fermo. Lo raggiunse dopo aver ordinato a Maria di aspettarli in chiesa.

«Suppongo che il signor abate sia qui» disse Ottavio sottovoce, quando il corridoio fu nuovamente deserto. La donna dall'altra parte tergiversò, si rifiutò di farli entrare, ma sempre con gentilezza. Alla fine il duchino l'ebbe vinta ed entrambi sgattaiolarono dentro furtivamente.

L'abate sedeva su una seggiola con la seduta di paglia e aveva sulle ginocchia un bambino di circa due anni; un altro bambino, con bei capelli scuri lunghi fino alle spalle, era accanto allo schienale.

«Scoperto!» sorrise colpevole il monaco, facendo per alzarsi. La giovane accorse per togliergli il peso del bambino, ma Ottavio gli fece segno di restare dov'era.

«Come si chiamano queste splendide creature?» domandò Galatea, inginocchiandosi davanti al bambino più grande.

«Marco» balbettò questi, intimidito, nascondendosi dietro la sedia.

«E quanti anni hai, Marco?» continuò Galatea, solleticandolo sul collo. Il bimbo rise scacciandola e rispose: «Quattro»

Anche Galatea rise, rialzandosi.

«Lui è Luca, Vostra Altezza» spiegò la giovane, che doveva chiamarsi Adele.

«Posso prenderlo in braccio?» domandò l'altra.

«Certo. È un bimbo tranquillo»

Galatea cullò il bambino tra le braccia, mentre lui afferrava per gioco ciocche dei suoi capelli. Ottavio la osservò rapito per po', silenzioso, in un angolo. Fu Adele a riscuoterlo, domandandogli: «Voi sapevate?»

«Credo che tutti, da queste parti, sappiano...» rispose, badando a non offenderla.

«Questo è vero, tutti sanno. Ma voi...» cercò di giustificarsi.

«L'abate ed io siamo amici di lunga data; mi ha parlato di voi appena sono arrivato qui»

«Ci giudicate peccatori?» singhiozzò Adele, non riuscendo più a ritenere quella domanda che le bruciava dentro. Galatea alzò fulminea gli occhi e il suo viso impietrì. Ottavio la fissò per un istante prima di replicare, sentendosi addosso anche gli occhi di Matteo: «Io stesso sono un peccatore. Chi sono per giudicare? Vedo i vostri bambini e il mio cuore esulta di gioia... E inoltre porto il nome del figlio di un figlio di un papa. Non muoverò contro di voi nessuna condanna, solo un monito: cercate di non sollevare scandali, perché sono questi che distolgono le anime semplici dalla fede. Per il resto, vogliatevi bene e amate i doni che Dio vi concede»

L'abate si alzò e li raggiunse, mentre il piccolo Marco lo seguiva sgambettando: «Oh oh! Sei diventato un luterano, amico mio?»

«Lungi da me! - ribatté - Ma non posso sostituirmi al Sommo Giudice, né ai tuoi superiori. Il mio parere è quello di un credente che cerca la Verità, e quando guardo i tuoi bambini, te lo ripeto, vedo due piccoli figli di Dio, non due figli del peccato. Per il resto, è un caso a cui deve pensare la tua coscienza»

Marco prese a strattonare la tonaca di suo padre per essere sollevato; Matteo si chinò e lo alzò in alto, facendolo ridere. Fatto ciò, senza tante storie, l'abate consegnò il bambino ad Ottavio, che lo ricevette colto di sorpresa. Il bambino frignò, tese le braccia verso la mamma, che in tutta risposta si avvicinò e lo baciò sulla punta del naso.

«Marco, Luca... Fammi indovinare: il prossimo si chiamerà Giovanni» dedusse Ottavio.

«Così la serie degli evangelisti sarà completa e non avrò fatto torto a nessuno - fece l'abate, riprendendosi il figlio scalpitante - Se tutto andrà come deve, a maggio lo battezzeremo. Vero, Lina?»

Adele annuì e si accarezzò il grembo. Ottavio, istintivamente, cercò Galatea; e la trovò che, un po' discosta, cullava il piccolo Luca canticchiando una ninna nanna a mezza voce e facendo buffe espressioni di tanto in tanto. Sospirò, Ottavio, e sentì un calore inconsueto in tutta la persona.

*

Quella sera Ottavio scalpitava nello studiolo dell'abate manifestando una certa impazienza alle chiacchiere dell'amico, che, segretamente, si divertiva a ritardargli il ritorno alla camera. Galatea era là da un pezzo e il duchino fremeva a ogni minuto che passava lontano da lei. Matteo ridacchiava sotto i baffi e avanzava considerazioni vuote sulla neve che cresceva, sul guizzo di una fiamma, sulle impronte di un passerotto sul davanzale.

«Non devi correrle dietro precipitosamente» lo ammonì a un tratto, vedendolo insofferente.

«E se pensasse che non la voglio?» ribatté nervoso, incapace di star fermo un solo momento.

«Se andrai da lei subito, penserà che sei un debole» spiegò l'abate dall'alto della sua esperienza.

«Subito? Sono ormai quasi otto mesi da che l'ho sposata!»

L'abate sorrise malizioso: «Qualche settimana fa ti spingevo tra le sue braccia con la forza, e ora guardati! Sembri un giovinetto che abbia appena scoperto il frutto proibito»

Ottavio fece una smorfia: «Sarà già un'ora»

«No, trattieniti ancora un po' qui» rispose placido, indicandogli una poltroncina, ma il duchino rifiutò di sedersi: «La troverò addormentata» si lamentò.

«E quindi? La sveglierai»

«Mi scoccia»

Ottavio si rigirò le mani una nell'altra, volgendo il viso alla porta.

«Vai, se ci tieni tanto. Vedo che la mia strategia ha funzionato a dovere» concesse l'abate. Con quattro passi veloci, il duchino fu alla porta, la maniglia stretta nella destra.

«Un'ultima domanda, se Vostra Altezza lo permette»

Ottavio si voltò infastidito: «Avanti!»

«Perché ora? Voglio dire: in sette e più mesi, perché hai deciso che sia il momento proprio adesso?»

Esitò a rispondere, ma lo fece: «Perché ora mi sento impazzire. Sapevo che prima o poi avrei ceduto: la voglio e la desidero da così tanto tempo che, se te lo dicessi, non potresti crederci. Dopo che ho scoperto di lei e Paolo, la mia gelosia è cresciuta insieme al desiderio: per questo l'ho tenuta lontano, perché non volevo cedere ai sensi»

«Ma è tua moglie!» lo interruppe di getto.

«Lo so e non intendo dire quello che hai capito. All'inizio era così: all'inizio la rifiutavo in quanto moglie, perché l'unica via che conoscevo era il celibato e, come ti ho già detto, mi sembrava un tradimento. Poi è diventato un sentimento più sottile, una preoccupazione diversa: avrebbe corso dei pericoli se fosse rimasta incinta tra schiere di nemici. Per questo l'ho rispettata: per tenerla al sicuro. Qui, grazie alla tua protezione, ho per lo meno la speranza che non le accada nulla di male. Posso abbassare la guardia, ora; posso concedere una tregua alla mia castità»

«Ben detto! Va', allora!» lo esortò l'abate. Ma Ottavio, con la maniglia stretta in mano, si volse un'ultima volta e ammiccò: «Ma è anche merito tuo: dopo un mese come questo, chi potrebbe resistere un solo giorno senza soffrire terribilmente?»

L'abate annuì compiaciuto e lo guardò uscire di fretta, e sentì i suoi passi rapidi spegnersi lungo il corridoio, li percepì ancora sui primi gradini a scendere. Deglutì e pensò ad Adele, che dormiva in quello stesso monastero con le due, anzi tre creature. Pensò alla propria coscienza, chiamata in causa quella mattina da un laico che era stato a un passo dal sacerdozio e sarebbe stato annoverato tra quelli molto migliori di lui e che ora correva tra le braccia di una moglie legittima, trattenendosi a stento lungo la strada. La riflessione lo tenne sveglio alla scrivania per buona parte della notte.

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