Fine aprile 1670 *

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Ferraris era tornato a corte senza le certezze che Ottavio agognava: aveva assicurato che sussisteva un qualche legame tra Isabella De Spini e Galatea, ma aveva anche ammesso di non essere riuscito a stabilire molto di più. Consigliava di tenere sotto stretto controllo la nobildonna, ingannandola in ciò che sentiva più caro: la vanità.

Isabella De Spini era stata alla pari della duchessa nel corso di quei due o tre anni in cui era durata la relazione con Ferdinando: le piaceva che la gente parlasse di lei. Era stata protagonista di pettegolezzi, modello di perversione per le donne e sogno proibito degli uomini – e dello stesso duca Corrado, si diceva. Ora, la vecchiaia aveva corrotto il suo viso, ma non il suo spirito. In bellezza, ormai, cedeva a più giovani concorrenti e aveva dovuto arrendersi alle armi del tempo; era però diventata più agguerrita che in passato, ed era tutto un dire.

Di fatto, era stata esiliata dalla capitale alla fine della relazione con il principe, che l'aveva lasciata preferendole altre fanciulle che, a differenza di lei, erano più giovani, ingenue e indifese. Dall'amante un poco più anziana di lui – Isabella aveva tre anni più di Ferdinando – il figlio del duca aveva appreso i segreti della passione ed era risoluto a diventare, da discepolo, mentore per quante più allieve possibile, tutte scelte nella prole della nobiltà e dell'alta borghesia, andando via via a discendere fino alle serve. Nemmeno il matrimonio l'aveva fatto rinsavire.

Ottavio accolse il resoconto esternando chiaramente la sua frustrazione. Rimase a colloquio con suo fratello per un intero pomeriggio: parlarono di come introdurre a corte il bambino, di come proteggerlo dalle ire di chi ne sarebbe rimasto danneggiato e, ovviamente, di come ritrovare Galatea una volta per tutte. Trattarono gli argomenti in questo preciso ordine, cosicché quando si soffermarono a riflettere sulla strategia più adatta da adottare per racimolare qualche indizio, Ottavio, stufo dell'ozio forzato della corte, sbottò: «Ci andrò io a cercarla! Io ci andrò! Sembra che nessuno possa trovarla: ebbene, io sono suo marito e io la troverò!»

«Non fare l'impulsivo – lo richiamò freddamente Antonio – Sai benissimo che non potresti muovere un passo senza che ti capiti qualcosa. Meglio mandare avanti altri in incognito. Ferraris, per me, ha messo in piedi un'ottima premessa. Basterà seguitare su quella via»

Per una volta, il fratello maggiore appariva più cauto e prudente del minore. Contribuiva, probabilmente, la caccia del giorno prima, in cui gli umori più focosi erano stati sbolliti. Ottavio non aveva partecipato per tutelare la propria sicurezza e ne aveva ricavato solo ulteriore tensione.

«Non vedo l'ora di lasciare questo palazzo! – ammise, mettendo in quelle parole tutto l'astio possibile – Odio vivere qui, odio l'etichetta, odio i cortigiani... Datemi Galatea e me ne andrò, lo giuro. Non sentirete più parlare di noi»

«Ho detto di smetterla con questi toni – lo rimproverò l'altro, ancora più seriamente di prima – Altrimenti ti relegherò nel tuo appartamento e mi occuperò da solo della faccenda»

Ottavio lo guardò storto, incrociando le braccia e affondando nei cuscini della poltroncina su cui sedeva. Era scontroso, era insofferente. C'era soprattutto una cosa di cui aveva paura, ma si era ripromesso di non farne parola con suo fratello: ecco, in quel momento sentiva più che mai il bisogno di confidarsi con lui, di cercare la sua protezione; poi si inorgogliva, si diceva che le sue non erano altro che paranoie, incubi ad occhi aperti. Vedeva ciò che voleva vedere: in quel preciso istante, il volto di un uomo lo perseguitava, ma forse non era altro che una fissazione, l'ostinazione di volersi vedere ancora in pericolo, perché tale si era sentito per tanto tempo e ci aveva fatto, per così dire, l'abitudine. La priorità era Galatea: era lei che si doveva salvare. Ma se l'avessero trovata troppo tardi? Era un tarlo che periodicamente si risvegliava e cominciava a rodere con minuscoli dentini l'argine che l'orgoglio aveva costruito, liberando il turbine di acque scure che vorticavano nel suo cuore.

«Quando hai quella faccia, metti spavento» scherzò amaramente il duca, grattandosi il dorso della mano sinistra. Era il classico sintomo del suo disagio e Ottavio se ne accorse subito. Antonio non era abituato a vestire i panni della parte razionale in una discussione. Di solito era lui la voce ribelle, l'incostante, il passionale.

«Ho questa faccia perché sono furibondo!»

«Un evento più raro di una cometa, direi»

Lo raggelò con una sola occhiata. Quando era arrabbiato, Ottavio diventava una furia. Non per niente un detto popolare invita a non svegliare il can che dorme: il duchino, in fondo, era d'animo mite e la disabitudine alla rabbia lo rendeva imprevedibile.

«Se fosse già in mano sua? Se l'avesse già...» borbottò, senza riuscire a terminare la frase. Si portò una mano sugli occhi, come a impedire alla propria mente di figurarsi scene terribili.

«Ti ho già detto che non è possibile»

«E se ci avesse anticipato? Non sarebbe la prima volta...»

«Vuoi che ti dica quello che vuoi sentirti dire, o vuoi che ti dia l'aiuto che ti serve?»

Ottavio mugolò e abbassò lo sguardo. Antonio aspettò per qualche minuto in silenzio, poi, capendo che suo fratello non aveva altro da aggiungere, pensò fosse meglio lasciarlo solo a meditare e a sfogare la tensione. Lo salutò, dandogli appuntamento alla mattina dopo; il duchino gli corrispose un cenno stentato. Gli mancavano le forze per sollevare la mano, perché aveva la netta sensazione che non si sarebbe mai presentato a nessun appuntamento.    

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