Fine settembre 1670

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Mancavano poche settimane al parto, a detta della levatrice di corte. Galatea decise, per prudenza, di accantonare qualsiasi proposito di uscita e di richiedere la presenza costante di almeno due serve per avere la garanzia di non trovarsi sola, qualora le prime contrazioni l'avessero colta impreparata. Con l'andare dei giorni, il palazzo cominciò ad agitarsi: le scommesse sul sesso del bambino, che erano partite da un gioco tra nobiluomini, coinvolsero tutti gli abitanti, dal duca fino all'ultimo degli sguatteri, e si estesero anche oltre i cancelli dorati. Chiunque avesse un paio di monete di rame a disposizione, puntava volentieri, non tanto per la vincita promessa, quanto per l'illusione di poter azzeccare la previsione. Nelle osterie c'era già chi brindava alla lunga vita di questo bambino, mentre dalle carceri giungevano infinite suppliche di amnistia.

Galatea veniva a sapere di queste iniziative attraverso i numerosi visitatori che, con sempre maggior frequenza, venivano a bussare alla sua porta per farle omaggio di qualche dono o buon augurio. Ferraris evitava di intervenire nei ritrovi informali di dame, preferendo rimanere in una sorta di guardia nell'anticamera dell'appartamento, ingiungendo a chi entrasse di sfilare gli spadini dalle cinture. Aveva istruito la fidanzata su cosa fosse sicuro mangiare e su cosa potesse nutrire dubbi legittimi; lei aveva compreso perfettamente e seguiva le disposizioni alla lettera. Ferdinando non si era fatto più vivo dopo la morte della moglie del generale e nemmeno aveva inviato regali o saluti, con grande sollievo di entrambi; sebbene fosse a corte, nulla tradiva un suo interessamento alla faccenda della nascita del pronipote e il fatto che avesse scommesso su una femmina, unito alla sua fama di acuto preveggente, bastava a giustificare tale mancanza di partecipazione.

Era il 26 settembre e tutto sembrava filare liscio; Galatea, però, aveva intuito qualcosa e fremeva di impazienza. Ferraris non la lasciava sola molto a lungo e, quando lo faceva, solitamente aveva un affare serio a impegnarlo. Era uscito la mattina molto presto, dopo essere passato per il primo saluto della giornata, e non aveva più dato notizie per il resto del tempo. Erano ormai le quattro del pomeriggio e di lui neppure l'ombra: persino Giovannino aveva chiesto dove fosse.

Poi, un rimestio crebbe lungo il corridoio, diventando tanto forte da arrivare nel salottino privato della duchessina: in genere, ciò accadeva quando il duca veniva a farle visita, perciò Galatea non si stupì affatto di veder entrare dalla porta lasciata aperta il cognato, in un abito piuttosto elegante.

«Cara sorella – esordì, ormai abituato a chiamarla in quel modo – Non avrei potuto delegare questo compito a nessun altro, poiché la questione vi riguarda»

Era tanto serio, tanto rigido nell'atteggiamento e nel modo di parlare, che suscitò in Galatea il sospetto che fosse accaduto qualcosa di spiacevole. Il suo primo pensiero, un pensiero istintivo, si perse nei battiti concitati del cuore, ma le sue labbra tacquero, ben più saggiamente, dal proferire certe parole pericolose. Preferì esporsi su un altro terreno, che comunque le importava molto: «Si tratta del mio fidanzato, il signor Ferraris?»

La sua voce era piegata dal timore di venire a conoscenza di un evento drammatico; dopotutto, la prolungata assenza e la mancanza di notizie non facevano che confermare quel timore. Sembrava quasi che Galatea non avesse bisogno di altri elementi per stabilire cosa fosse accaduto. Ma un semplicissimo cenno di Antonio le sottrasse la terribile certezza che si era forgiata da sola in pochi istanti e la lasciò in sospeso, confusa e impaziente.

«Mi rendo conto di quanto sia difficile per voi spostarvi nel vostro stato; nonostante ciò, sareste così cortese da raggiungermi tra un'ora nel salone delle udienze? Presenzierà tutta la corte e sarebbe un vero peccato, per voi, perdere questo appuntamento» spiegò meccanicamente, come se si fosse preparato in precedenza. Galatea batté veloce le palpebre, corrugando la fronte: «Farò il possibile per non mancare, Vostra Grazia. Se lo ritenete necessario, io...»

«Assolutamente, Altezza. Vi aspetto» tagliò corto, senza lasciarle finire la frase. Dopo una piccola riverenza si volse, procedendo a passo spedito nel solco apertosi spontaneamente nel suo seguito di cortigiani e servitori. Un mormorio sommesso lo seguì, un mormorio fatto di stupore e incomprensione. Qualcosa stava per succedere, ma nessuno, oltre al duca, pareva averne colto il minimo segnale; inutile chiedere al vicino, inutile arrabbiarsi con la servitù: il segreto del duca era ben custodito dai suoi fedeli e del tutto oscuro a chiunque non rientrasse nella strettissima cerchia del suo entourage. Galatea non tentò nemmeno di scoprire in anticipo cosa la aspettasse, certa che il cognato non avrebbe in nessun modo inteso metterla in difficoltà, né in pericolo.

Con fatica si alzò dalla poltroncina, si affidò alle serve muovendosi lentamente da una parte all'altra. Alla fine riuscì a indossare un abito comodo, per nulla sfarzoso ma adatto alla sua condizione, e a farsi pettinare. Il viso arrotondato venne ulteriormente abbellito con un po' di trucco ben dosato in modo da dare risalto alle guance e alle labbra, oltre che agli occhi. Quando uscì dalla camera, accompagnata passo passo dalle sue dame da compagnia, Galatea cercò di camuffare la tipica camminata delle donne incinte, salvo poi arrendersi al ritmo dondolante dell'andatura. Nel suo apparire sulla soglia del salone, passando per un'entrata secondaria, fu annunciata da un banditore mentre una piccola orchestra d'archi allietava i presenti con uno dei pezzi preferiti del duca.

Antonio le venne incontro e le offrì il braccio, scortandola personalmente fino al piccolo scranno che le era stato riservato. Sedendosi, aiutata dal suo contrappeso, Galatea bisbigliò: «Di cosa si tratta? Non mi piace la segretezza in questi casi»

«Nulla di negativo per voi, ma vorrei avervi qui con me per la vostra sicurezza, dato che Ferraris non è ancora tornato» rispose lui, prendendo posto sullo scranno più grande, proprio lì accanto.

Galatea sospirò, manifestando una certa ansietà: «Questo mi preoccupa molto, in verità»

«Dobbiamo essere pronti a tutto, purtroppo. In questo momento non saprei davvero dirvi dove si sia cacciato quell'uomo!» sbuffò, tra il desolato e lo scocciato. Lei storse leggermente la bocca, comprendendo il suo stato d'animo.

«E poi – aggiunse, con una vivacità insolita nella voce – Una presenza come la vostra non potrà che aiutarmi a stare tranquillo»

Non parlava dei suoi noti accessi di rabbia, diventati ormai proverbiali; era evidente che si stava riferendo a qualcosa di bello. Cosa strana, questo non le rasserenò l'umore, ma la rese più nervosa.

«Potrò cenare in camera mia?» domandò poco dopo, per spezzare il silenzio dell'attesa. Il duca, che fissava un angolo preciso del salone con il mento tra le dita, non si voltò per risponderle e borbottò: «Tutto dipenderà da Ferraris, se si deciderà a tornare»

Non trascorse molto tempo da quel rapido scambio, quando una porticina, che si apriva proprio nell'angolo che Antonio teneva d'occhio con attenzione maniacale, si socchiuse. Galatea colse la scena per caso, mentre il duca sembrava non aver aspettato altro per tutto il tempo: si mise seduto ritto e teso, le mani chiuse attorno ai braccioli di legno dello scranno. Non era ancora entrato nessuno e più i secondi scorrevano, più Antonio vedeva disattese le proprie aspettative. Le sue dita si rilassarono, la presa ai braccioli si allentò e anche la sua postura si ammorbidì. Galatea trasse un respiro di sollievo, senza sapere perché. Forse il dilatare l'attesa avrebbe contribuito a stemperare quella tensione che il duca le stava facendo accumulare con una successione di espressioni irrequiete.

Proprio mentre si augurava questo sviluppo, la porticina si spalancò e da dietro l'uscio comparvero alcune persone, in un numero difficilmente calcolabile, date la distanza e la confusione. Antonio, però, si proiettò avanti, senza celare il proprio interesse per quel gruppetto a prima vista spaesato e intimidito. Qualcuno doveva avergli consigliato di usare prudenza, di attendere che gli strani ospiti si ambientassero e si avvicinassero spontaneamente prima di intervenire; il duca, però, faticava a porre in atto il suggerimento e fremeva sullo scranno sotto gli occhi di Galatea, che guardava ora lui ora il gruppetto senza risolversi a domandare di più. I nuovi arrivati confabularono tra loro, anzi, discussero con un maggiordomo che li stava invitando ad avviarsi verso gli scranni ducali; alcuni di loro apparivano restii ad immergersi nella mischia di cortigiani, quasi come se non volessero avere a che fare con quel mondo festaiolo e superficiale. Una giovane donna benvestita, invece, insisteva in particolare con un uomo di mezza età, vestito altrettanto bene, per convincerlo a muoversi da dove si trovava. Galatea cercò di acuire la vista, ma anche sforzandosi non riuscì a capire cosa li agitasse tanto. D'un tratto l'uomo dovette prendere una decisione, perché si voltò risoluto verso l'altro capo del salone, aprendosi la strada senza risparmiare spintoni, pur di avanzare. La giovane donna, scortata da altri due uomini abbigliati meno riccamente, si affannò per seguirlo; dal suo modo di camminare sembrava trascinare qualcosa dietro di sé. Mentre l'uomo più maturo incedeva con un'espressione di ferro sul viso, la ragazza si affannava, gli occhi ridotti a fessure umide e scintillanti di lacrime. E quel suo modo di muoversi, ansioso e protettivo insieme, che Galatea non riuscì a spiegarsi, colpì così intensamente l'animo di Antonio da spingerlo ad alzarsi e a correre giù dai cinque scalini che elevavano gli scranni al di sopra del pavimento comune. Non tutti si accorsero immediatamente del suo andare trafelato e chi ebbe a trovarsi sul suo cammino non fu trattato certo con la dovuta educazione: l'impazienza, alla fine, aveva soverchiato la prudenza.

Galatea, sbalordita, si alzò in piedi a propria volta, senza però scendere. L'altezza le offriva una prospettiva perfetta per assistere con il fiato sospeso a ciò che stava avvenendo. Antonio si fece largo finché non si trovò di fronte l'uomo di mezza età. Questi ristette, arrestandosi subito, impettito come una marionetta imbarazzata; il duca, incurante, gli strinse energicamente la destra e lo superò, chinandosi ai piedi della giovane donna che stava sopraggiungendo. Galatea, in un primo momento, credette che fosse inciampato dalla foga, ma dovette ricredersi: Antonio si rialzò immediatamente, levando in alto un bambino di tre o quattro anni stranito e sul punto di piangere. La ragazza si fermò a un passo da lui, guardando il proprio figlio portato in alto tra la meraviglia di tutti i presenti.

I cortigiani, infatti, non nascosero il loro stupore e la duchessina stessa, accomodandosi nuovamente sullo scranno, faticò a trattenersi dal commentare la scena. Nel fracasso di voci che si scavalcavano l'un l'altra, le risate di Antonio e il pianto disperato del bimbo si imponevano decise, come a stabilire il legittimo stato delle cose. Nel tornare indietro allo scranno con il piccolo scalpitante tra le braccia e sua madre al fianco, il duca non avrebbe potuto mostrarsi più appagato.

«Corrado» sussurrò Galatea, nascondendo le labbra dietro la mano. Una lacrima solcò per un breve tratto la sua guancia destra, prima che l'asciugasse via con la punta delle dita. Se quel bambino era finalmente arrivato a corte, ciò non poteva che significare vittoria su tutti i fronti; la sua legittimità non era sminuita dalla sua nascita fuori del matrimonio, fatto straordinario davvero. Ferdinando avrebbe avuto i suoi grattacapi ora; e che nel suo grembo riposasse un maschio o una femmina, pensò Galatea, ormai non sarebbe importato granché a nessuno.

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