Maggio 1666

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Da qualche giorno Aura aveva un'aria sognante che non le si era mai vista in faccia da che aveva messo piede nel palazzo. Di tutte le damigelle era la più ponderata, quasi bigotta nel suo atteggiamento troppo austero per una bambina. Invece, erano giorni ormai che Aura si perdeva nelle visioni della fantasia, abbandonando il capo nella mano, fissa con lo sguardo a un punto lontano. Dapprima le altre damigelle l'avevano presa in giro, canzonata bonariamente per le piccole distrazioni che però non sfuggivano ai loro sensi sempre vigili. Aura arrossiva e si scusava, scuotendo la testa come a scacciare quelle visioni dai propri occhi. Poi Ginevra, la sua compagna di camera, si fece avanti con una rivelazione.

«E' innamorata!» disse alla presenza di tutte. L'ingenuità dei tredici anni le colorò le guance e la fece sorridere come se avesse detto "E' impazzita". E come lei anche le altre risero coprendosi la bocca con le mani. Era la prima volta che una di loro compiva il grande passo: prima di allora avevano potuto dire lo stesso solo di qualche paggio o di una nobildonna che faceva furori. A corte raramente si parlava di quel genere di cose di fronte alle damigelle più giovani e anche le loro letture erano velate da una sorta di ammanto misterioso. Le rime parlavano sì d'amore e degli effetti che ha sugli animi degli innamorati, e dell'aspetto stesso degli innamorati, come un manuale di medicina. Vederlo però in una persona conosciuta e ritenuta assolutamente agli antipodi rispetto a quel genere di mollezze suscitava curiosità e meraviglia insieme. E tutte desiderarono ardentemente innamorarsi a loro volta, ma ognuna di loro, segretamente, tremò alla prospettiva che questo potesse accadere. Guardavano la loro compagna come si guarda un'ammalata che non spera guarigione. E Aura si schermiva dalle loro attenzioni, a volte con fin troppo fastidio; le cacciava dalla camera, le evitava e dispensava occhiate velenose. Si quietava solo quando sentiva attorno a sé un clima sereno, dove nessuno avrebbe voluto o potuto lanciarle frecciatine sul suo stato. Allora si beava nella sua immaginazione senza temere l'impertinenza che avrebbe infranto i suoi sogni così vividi e reali.

Galatea cercava di non infastidirla quando la scopriva in quei momenti di sospensione estatica e si tratteneva dal porle domande indiscrete. Certo, la curiosità la consumava, ma aveva deciso che sarebbe rimasta zitta. Poi un giorno le capitò di alzare gli occhi e rimanere sospesa a propria volta senza nemmeno accorgersene: di fronte a lei c'era un bellissimo giovane con fluenti capelli scuri sulle spalle e il volto spiritoso. Aveva un che di familiare, eppure Galatea non poteva fare a meno di contemplarlo a bocca aperta.

«Guardate! Anche Tea si è ammalata!» pigolò Ginevra, che si riteneva ormai un'esperta.

La ragazzina si riscosse e l'immagine che fino a un momento prima era stata dinanzi a lei all'improvviso scomparve, evaporando nell'aria. Rimase senza parole, incapace di zittire le risate che crescevano attorno a lei. E capì perché Aura trovasse quelle situazioni così imbarazzanti.

Le ricapitò di vederlo durante la preghiera della sera, prima di andare a dormire. Il giovane che il pomeriggio le era apparso come un angelo ora la fissava con sguardo benigno, abbozzando un sorriso. Perse il filo delle parole e lasciò che Bice da sola continuasse la litania. Le sue mani giunte allentarono la presa e i suoi pensieri, che fino a quel momento erano stati per la sua famiglia, per la duchessina e per le amiche, caddero di peso sul giovane e da lui non si smossero più.

«Tea?» la chiamò Bice in un sussurro. Solo allora Galatea si accorse di aver smesso di respirare. Ma la figura non evaporò: rimase al suo posto, come una statua, e il suo sorriso si fece più luminoso. Ora lo riconosceva: era Paolo Zuffini, uno stalliere del duca. Si conoscevano da tempo e lì per lì si domandò come fosse possibile che non l'avesse riconosciuto subito.

«Ciao, Tea» le disse, e la sua voce era suadente come una nota di violoncello.

«Tea, non dormi?» chiese Bice, esitando.

«Sì, sì... Sto pensando a una cosa...» rispose Galatea, ipnotizzata dal giovane che solo lei poteva vedere.

«Sei molto bella, Tea» continuò la visione e anche lei sorrise.

Avrebbe voluto parlargli, rispondere ai suoi complimenti, ma la presenza di Bice la fermava. Avrebbe pensato che non fosse innamorata, bensì proprio pazza.

«Vorrei darti il mio cuore, Tea, se solo potessi» riprese il giovane, muovendo un passo avanti.

Galatea guardò alle sue spalle: la luce della candela che teneva ancora accesa sul comodino avrebbe dovuto proiettare la sua ombra dietro di lui, ma non c'era tratta di essa.

«Sono Eros – confessò allora la figura, strizzando l'occhio – Eros è il mio nome e così mi chiama chi mi cerca e chi mi maledice»

Galatea comprese in un lampo e pensò che, una volta smascherato, Eros avrebbe smesso di mascherarsi da Paolo e avrebbe mostrato il suo vero volto. Le spiaceva, perché ciò avrebbe significato anche la fine di quel dolce sentimento che le avvolgeva l'anima. Invece, al contrario di quanto si era aspettata, la visione si fece più luminosa e l'affetto vinse tutte le sue resistenze, cullandola in un affanno che le affaticava il respiro ma al contempo la faceva sentire leggera.

«Questo è il mio viso, Galatea – spiegò Eros, intercettando i suoi pensieri – Se non avessi questa apparenza io non esisterei»

«Come fai a...?» bisbigliò, ma subito si trattenne per timore di essere scoperta.

«Io sono dentro di te, sono io che guido i tuoi pensieri e ti faccio vedere ciò che vedi. Se non fossi dentro il tuo cuore ora, tu non vedresti Paolo e non proveresti questo insolito desiderio di fermare il tempo a qui e ora» rispose Eros.

Galatea annuì e pensò: "Tienimi compagnia ancora a lungo, se mi è concesso rivolgerti questa preghiera. Resta con me finché non mi sarò addormentata..."

«Sarò con te a lungo, mio tesoro, ben oltre la soglia del sonno»

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro