Ottobre 1669 pt. 3

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Ripresero il cammino all'alba, quando il cielo era ancora scuro e le cose si distinguevano a malapena. Era un mondo senza profondità quello che li accoglieva, dove i monti sembravano sagome nere appiccicate a un fondo violaceo, tutte distanti allo stesso modo; gli alberi erano un ammasso di ombre informi, dalle quali qua e là spuntava un ramo nudo e rinsecchito; le distese dei campi pronti per l'aratura erano tutti del medesimo colore, si stendevano all'infinito lungo il profilo delle colline. La donna che li aveva ospitati diede loro le indicazioni sufficienti per arrivare al centro cittadino più vicino e poi li guardò andare via, come a sincerarsi che gli spiriti cattivi se ne andassero via con quegli sconosciuti. Chissà cosa avrebbe pensato di loro, una volta trovato il denaro?

Ottavio e Galatea non si preoccuparono di sollevare il dubbio, montarono in sella e partirono; non era stata una notte serena, gli incubi li avevano perseguitati e in due o tre occasioni si erano trovati svegli e avevano parlato un po' per sfogare la paura. Avevano parlato di cose di nessuna importanza, come del fatto che la mucca dormisse meglio di loro benché avesse la pancia quasi vuota, o se la paglia avesse un così buon sapore... Cose di nessuna importanza.

Mentre correvano verso nord-ovest, alle loro spalle il cielo si schiariva, diventava di un bel colore rosato e si protendeva verso di loro illuminando il panorama in cui si addentravano: ora le colline sembravano imponenti, rese plastiche dal gioco delle ombre arricchito dal chiaroscuro delle masse di alberi; i campi si stendevano ancora all'infinito, ma sembravano molto più morbidi e accoglienti.

A mattino inoltrato giunsero nella città che la donna aveva loro indicato: qui decisero di fermarsi per mangiare qualcosa dal loro sacco di viveri. Un momento di riposo per tutti, in cui il cavallo si abbeverò a una fontana e Galatea poté lavare la piccola ferita alla testa che Ottavio si era procurato il giorno prima, battendo contro il terreno in seguito alla caduta dal cavallo.

«Non andrò lontano vestita così» osservò lei a lavoro ultimato, guardandosi sconsolata la gonna dell'abito. Era un abito tutto sommato comodo e per nulla appariscente: negli ultimi giorni alla Villa, Ottavio le aveva consigliato di vestirsi così per non dare nell'occhio nel momento in cui avessero deciso di scappare. Lui le diede ragione, entrò nella bottega di un sarto, non molto lontana, e se ne uscì con un vestito campagnolo della sua misura: «E' di sua figlia - spiegò - Ho dovuto insistere perché me lo vendesse e lui si è quasi offeso!»

Galatea sorrise: «Forse perché sua figlia ne ha più bisogno di me»

«Niente affatto! Si è lamentato perché secondo lui ho un pessimo gusto in fatto di vestiti, che ne aveva cento e più di gran lunga migliori» rise Ottavio. Cercarono un angolo appartato dove Galatea potesse cambiarsi e, quando l'ebbero trovato, il duchino fece per allontanarsi; lei, però, lo richiamò indietro, dicendogli a bassa voce: «Devi aiutarmi a slacciare il corpetto e la gonna, da sola non ce la faccio»

Ottavio deglutì, ma non poté sottrarsi. Si sentì per tutto il tempo un emerito incapace, dato che le sue dita si intrecciavano facilmente nei nastri che avrebbero dovuto sciogliere; lei percepì il suo disagio e si divertì a metterlo in difficoltà, ma se lui avesse potuto vederla in viso avrebbe trovato che le sue guance avevano un colore un po' più acceso del solito.

«Mi hai visto in camicia da notte - gli disse, quando fu svestita - Che differenza c'è con una sottoveste?»

«Cambia tutto» brontolò, passandole frettolosamente il vestito nuovo. Lei riuscì ad indossarlo da sola, risparmiandogli un secondo supplizio.

Tornarono in sella e lasciarono la città dopo aver gettato il vecchio abito nel fiume; attraversarono campi e piccoli villaggi di contadini, incrociarono due conventi e Ottavio volle fermarsi a pregare nelle loro chiese. Sul far della sera giunsero in un'altra città, più popolosa della precedente, che li pose davanti a una scelta: cercare riparo all'interno o all'esterno delle mura. Se avessero voluto chiedere ospitalità ai contadini, avrebbero dovuto tornare indietro di qualche miglio oppure procedere, oppure ancora inoltrarsi lungo strade di campagna che non conoscevano; ma avrebbe significato in ogni caso una grave perdita di tempo. Ormai erano lì, in città, le porte sarebbero state chiuse a breve e non potevano dilungarsi a decidere. Furono quindi costretti ad entrare e, pagata la gabella, si fermarono in una piazzetta per discutere.

«Non mancheranno di certo gli ostelli in una cittadina come questa» commentò Ottavio accarezzando il muso del cavallo.

«Sì, ma gli ostelli saranno i primi luoghi dove verranno a cercarci, nel caso...» obiettò Galatea.

Ottavio rimase pensieroso giusto un istante, quasi per darle l'impressione di averlo braccato. Poi, alzando un poco le sopracciglia, constatò: «L'unico luogo dove certamente non guarderanno è la casa di tolleranza»

Galatea provò un improvviso senso di disgusto e si alzò in piedi, mani sui fianchi e sguardo torvo: «Come sarebbe a dire? Vuoi chiedere riparo a delle intrattenitrici?»

Il duchino rispose con una fragorosa risata: «E' l'unico posto, in effetti, dove non penseranno mai che uno come me possa mettere piede...»

Non c'era bisogno di chiedergli se avesse esperienza di posti del genere: probabilmente, l'unica cosa che sapeva era che ogni città ne aveva uno, che la maggior parte delle stanze erano stabilmente occupate da donne del mestiere e che le rimanenti venivano di giorno in giorno affittate a chi ne faceva domanda; e che dovevano essere luoghi, se non sporchi, di certo poco igienici.

I primi tentennamenti diventarono lampanti poco più tardi quando, voltandosi a guardarla, il duchino arrossì leggermente vicino alle orecchie. Dal suo viso era scomparsa la baldanza di prima e, benché sapesse che l'idea era in fondo abbastanza astuta, ora esitava a metterla in atto.

Si divisero, nel frattempo, un pezzo di formaggio e quanto era avanzato del pane che avevano acquistato quel giorno; alla fine della misera cena, Galatea bevve a una fontanella al centro della piazza dove si erano fermati e, mentre Ottavio si avvicinava per fare altrettanto, all'improvviso lo schizzò. Presero a rincorrersi come bambini, scherzando amichevolmente, fino a che l'avanzare del cielo buio li spinse a cercare il rifugio che avevano prescelto per quella seconda notte da fuggiaschi.

Toccò a Ottavio informarsi: innanzi tutto, era venuta da lui la proposta della casa chiusa; in secondo luogo, se fosse stata Galatea a chiedere indicazioni, avrebbe potuto attirare attenzioni del tutto sconvenienti. Perciò il duchino si avviò silenziosamente, tirandosi dietro il cavallo mentre sua moglie aspettava nascosta in un angolo poco illuminato. Per le strade la gente era dispersa in modo diseguale: qualcuno più solitario, altri a gruppi; ma Ottavio non giungeva mai in vista di un volto che gli ispirasse la fiducia necessaria alla grave domanda che doveva porre. Alla fine, spinto dalla preoccupazione di mettersi al riparo da eventuali controlli notturni, fermò un uomo di mezza età che lo stava affiancando in quel momento, e gli rivolse d'un fiato poche parole: «La casa di piacere, per favore?»

Galatea non seppe se darsi al riso o alle lacrime. Lo sconosciuto squadrò il duchino con aria corrucciata, pensò a quanto fosse depravata la gioventù e poi, con altrettanto poche parole, indicò una stradina che si incuneava tra vecchi edifici, precisando di girare alla prima traversa sulla sinistra. Ottavio ringraziò goffamente e aspettò che quello fosse lontano prima di rimettersi a camminare; a quel punto, con uno sguardo desolato, accennò a Galatea di farsi coraggio e di raggiungerlo.

*

Come aveva detto il passante, l'entrata del bordello si apriva appena imboccata la traversa di sinistra della strada stretta tra le case. Un'insegna affissa a lato della porta elencava i prezzi di affitti e prestazioni e una lampada rossa faceva sì che quanto scritto fosse perfettamente leggibile anche nella notte più buia.

«Chi entra per primo?» sussurrò Galatea, stringendosi nelle spalle contro il dorso del cavallo. Ma la risposta era scontata: toccava a lei. Dovevano calarsi nella parte e in quel momento era il suo turno. Quindi si affrettò ad aggiungere, a voce più alta: «E il cavallo?»

Ottavio non ebbe tempo per risponderle: dall'interno venne la voce di una donna che li avvisò della possibilità di legarlo nel cortile interno, che si raggiungeva procedendo per qualche metro lungo la stradina. Assecondarono la voce e, sulla sinistra, videro aprirsi uno spazio attrezzato malamente per ospitare dei cavalli: fieno, steccati, pali e anelli a cui legare le briglie. Per non suscitare sospetti, Galatea si prese alcuni istanti per prepararsi a ciò che la aspettava.

«Non giudicarmi per quello che potrei dire o fare là dentro, intesi?» disse perentoria a Ottavio che la guardava, quasi con aria beffarda, a braccia incrociate: «Non giudicarmi neanche tu» ribatté. Galatea si sentì avvampare, ma cercò di non arrossire: sarebbe stato piuttosto strano e avrebbe potuto insospettire. Lo prese per mano e lo trascinò dietro di sé, accingendosi ad entrare dalla porticina illuminata dalla lanterna sul viottolo.

Dall'interno, intanto, veniva la voce della donna, la stessa di poco prima, che inveiva: «Senti come puzzi! Le ragazze si lamentano sempre di te, sei sempre ubriaco!»

Ottavio si fermò e trattenne Galatea dall'avanzare.

«Oh, insomma! Siete diventate viziate, vi abituano troppo bene...» biascicò un uomo.

«Vieni via» bisbigliò Ottavio, tirandola a sé. Galatea si ritrasse contro il muro dell'edificio e lui si parò davanti a lei per nasconderla. Un tipo un po' tarchiato si affacciò sulla soglia e scese i due scalini barcollando. Appena fu all'esterno si accasciò contro lo stipite con un lungo mugolio.

«Finché non ti passa la sbronza, qui dentro non ci metti piede!» urlò la donna, da dentro.

Ottavio osservò lo sconosciuto con sospetto, fino a che non fu assolutamente sicuro che si fosse appisolato. A quel punto fece cenno a Galatea di seguirlo e, riparandola con il proprio corpo, la fece entrare per prima. Lei, da parte sua, mise in tutti i gesti una buona dose di sicurezza e si presentò davanti alla padrona, che aspettava dietro un vecchio banco.

«Una camera per stanotte - disse, senza vacillare, ma subito aggiunse - Se ne avete...». La padrona la squadrò in un attimo e fece lo stesso subito dopo con Ottavio, che nell'attesa si era appoggiato allo stipite.

«Sei fortunata, ragazzina: hai trovato un bel galletto da spennare»

Galatea si scosse, stupita da una risposta così impertinente. Ottavio invece si fece avanti, appoggiò il pugno destro sul tavolo e fissò negli occhi la padrona.

«Questo bel galletto è ben felice di farsi spennare... Ora sbrigatevi, aspettare mi scoccia». Detto questo, aprì il pugno e lasciò sul bancone due monete d'oro, molto più dell'affitto richiesto per una notte.

«Chissà... - aggiunse, muovendo un passo indietro - Se la camera sarà di mio gradimento potrei anche pensare di tornare...»

La padrona, irritata dal suo atteggiamento, ma per niente sorda al richiamo dei soldi, afferrò una chiave dal sottobanco e la gettò a Galatea.

«Terza stanza, primo piano»

Lei afferrò la chiave e la rigirò una o due volte tra le dita prima di voltarsi verso Ottavio. Gli tese la mano e prima che lui potesse prenderla, l'ubriaco si era nuovamente affacciato alla porta.

«Ehi, fiorellino... - la chiamò, facendole un cenno - Ti va se ci divertiamo un po'?»

«Taci, maiale!» ribatté puntuale la donna del banco.

Galatea, disgustata, afferrò la mano di Ottavio e sgattaiolò via, verso la scaletta che conduceva al piano di sopra; i corridoi erano malamente illuminati da file di candele di altezze diverse.

«Lei non è delle tue - sentì che continuava l'uomo parlando con la padrona - Posso farci quello che voglio». E a quelle parole, rabbrividì.

La casa era già animata da molti suoni che entrambi fecero finta di non sentire. Galatea si precipitò alla porta della loro camera, girò la chiave e si buttò dentro; Ottavio la seguì rapidissimo.

«Chiudi tu, per l'amor del cielo» disse, tendendogli la chiave. Il duchino afferrò una candela e uscì ad accenderla a una di quelle al muro, poi rientrò e chiuse la porta.

«Non temere - rispose, mentre la serratura scattava con un suono che sembrava quanto mai rassicurante - Qui nessuno verrà a ficcanasare»

Galatea si guardò attorno commiserandosi.

«Preferisco dormire per terra» sussurrò, fermandosi al centro della misera stanza fornita solo di un letto. Ottavio la raggiunse, ma aveva come la sensazione che in quel luogo anche la sua presenza familiare le desse fastidio.

«Se questa è la camera migliore, mi domando come siano conciate le altre...» osservò.

«I tuoi vestiti non nascondono certo la tua ricchezza, galletto» lo prese in giro, dandogli allo stesso tempo un argomento su cui riflettere. Mentre lei, cambiandosi d'abito, appariva ora come una semplice contadinella sbandata, lui era un nobile e tutta la sua persona lo manifestava chiaramente: anche travestito, Ottavio sarebbe rimasto educato, aggraziato, composto. Inutile pensare che potesse recitare costantemente la parte del rozzo villano o del mercante privo di scrupoli.

«Dobbiamo tenerne conto...» rispose lui, dandole ragione.

«Qual è la nostra meta? Me lo puoi dire, ora?» domandò sottovoce, prendendolo teneramente per il braccio e reclinando la testa sulla sua spalla.

Ottavio prese un respiro profondo e poi esalò: «Il monastero della Vergine stellata»

Galatea strabuzzò gli occhi: «Il monastero? E pensi che saremo al sicuro lassù?»

Lui annuì: «L'abate era un mio compagno di collegio. Maria gli ha portato una mia lettera in cui gli spiegavo la situazione... Finché nessuno saprà che siamo suoi ospiti, non credo che penseranno di cercarci lì»

«E qualora venissero a saperlo, cosa succederebbe?» incalzò lei.

«In quel caso - osservò con tono scontato - Saremmo finiti»

Galatea cedette e scoppiò a piangere. Il duchino, inizialmente, si limitò a guardarla con gli occhi lucidi. Poi si avvicinò cautamente, la abbracciò e le accarezzò la testa.

«Non è onorevole per un marito condurre la propria moglie in un bordello e farle fare la parte dell'intrattenitrice. - bisbigliò - Hai tutto il diritto di odiarmi»

Galatea si sottrasse al suo abbraccio. Nei suoi occhi, insieme alle lacrime, c'era la stanchezza, la paura. Ottavio si accostò alla parete e si lasciò scivolare fino a sedersi sul pavimento. Quindi spalancò le braccia e la invitò a sederglisi in grembo. Galatea esitò, ma poi dovette pensare che non c'era da vergognarsi per simili tenerezze. Si accoccolò davanti a lui e reclinò di nuovo il capo sulla sua spalla. La luce naturale calò ulteriormente con il susseguirsi dei minuti e delle ore: Ottavio si addormentò in fretta, prostrato dalla frustrazione e dalla fatica. Galatea avrebbe fatto altrettanto, soprattutto quando la notte era ormai inoltrata, ma rimaneva vigile contro la propria volontà: in quel luogo di donne, in cui i sospiri si udivano anche nel silenzio - come se le camere trattenessero nei loro muri i ricordi delle notti precedenti - Galatea sentiva come sua responsabilità la protezione di uno spazio intimamente puro. Non erano più estranei, lei e Ottavio; e benché entrambi fossero invece estranei a quel luogo, lei credeva, in quanto donna, di poter fare qualcosa di più. Era vigile anche quando un figurino conosciuto si profilò nella semioscurità.

«Fortuna - bisbigliò Galatea, per nulla sorpresa - Immaginavo che questi posti non ti fossero sconosciuti»

Fortuna uscì allo scoperto e si avvicinò, facendo finta di osservarla meglio per poterla riconoscere.

«Non mi dire! L'erede e sua moglie in una casa come questa?» esclamò, facendo seguire alle parole una risatina civettuola.

«E' un modo per sfuggire alle ricerche. Tu, piuttosto, hai qualcosa in serbo per noi?» ribatté, senza dar peso alle sue insinuazioni.

«So bene perché siete qui. E so anche tante cose di quello che sta succedendo nelle altre città: vi danno la caccia come se foste due volpi sul finire dell'estate; ma state pure sicuri, se vi muoverete con circospezione non vi noteranno»

«Avremo una possibilità per arrivare sani e salvi almeno fino al monastero?» domandò Galatea, per arrivare direttamente al punto.

«Ne avrete eccome. Ma state attenti a non lasciarvele sfuggire»

Detto questo, Fortuna scomparve nella notte.

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