1. Fuga

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«Stupida vita e stupide regole!» Alex gettò nello zaino ancora due magliette, con più enfasi di quanto l'azione richiedesse, come se quel gesto di stizza fosse a beneficio di un pubblico a cui dimostrare tutto il suo disappunto. In diverse occasioni i suoi familiari gli avevano fatto notare quanto fosse teatrale; lui aveva sempre negato, a volte si era anche offeso, ma proprio in quel momento, mentre decideva che non avrebbe mai rivisto nessuno di loro, doveva ammettere che avevano ragione. No, non c'erano testimoni e forse era meglio così, che gli unici sguardi rivolti a lui venissero da un sé stesso di qualche anno più giovane, immortalato nelle immagini appese alla bacheca sopra la sua scrivania. Lì, attaccate con delle puntine da disegno, c'erano le foto di quasi tutti i suoi momenti più felici: l'ultimo compleanno del nonno, un sé stesso molto più giovane con una grossa trota tra le mani che gli era valsa il secondo posto alla gara di pesca sportiva due anni prima, la foto di gruppo della gita dell'ultimo anno delle medie, e poi i festeggiamenti insieme a suo padre e ai suoi fratelli per la finale di campionato in cui la loro squadra aveva vinto. Valutò di prenderne qualcuna, ma rinunciò all'idea subito dopo. Aveva deciso di lasciarsi tutto alle spalle, il sistema, i tribunali, le leggi dello Stato, i familiari, i compagni e gli amici che accettavano tutto quello schifo senza fare una piega, anche la sua identità e il suo passato.

«Facile per voi!» borbottò in un altro tono, passando il suo sguardo sulle facce felici e sorridenti che aveva davanti agli occhi: «Siete tutti nati con il marchio giusto. Ma non io, nossignore! Tra quattro fratelli doveva toccare a me! A me soltanto, in tutta la mia stirpe, è toccato il marchio nero, più nero della fottutissima notte!» Si pentì subito di aver parlato così davanti a una foto di sua madre: lei non avrebbe mai accettato quel linguaggio. Ma era pur vero che non lo avrebbe mai più visto, mai più sgridato e nemmeno abbracciato o consolato nei suoi momenti peggiori. Sentì gli occhi iniziare a pungere e se li strofinò per bloccare le lacrime sul nascere. Doveva essere forte, ignorare quei sentimenti, se voleva mettere in pratica il suo piano di fuga.

Selezionò ancora qualche vestito, con meno attenzione sui pantaloni rispetto alle magliette: insieme alla sua t-shirt preferita (quella con il grosso UFO al centro), a quelle a tema cartoni animati e alla maglietta del festival del fumetto dell'anno precedente, prese con sé anche la polo della squadra di canottaggio e la divisa della scuola, malgrado fosse consapevole di non avere più la possibilità di indossarle. Quindi mise nella borsa, alla rinfusa, anche della biancheria e dei calzini puliti, prima di allontanarsi dall'armadio e dare un'occhiata sconsolata al resto delle sue cose, alle poche medaglie e coppe vinte nella sua carriera di sportivo mediocre, sulla mensola sopra il letto coperto dalla trapunta che sua madre aveva fatto a mano unendo insieme dei ritagli dei vestiti di quando era piccolo, alla libreria, alla tv che si era sudato tagliando il prato di tutto il quartiere l'estate prima e infine a tutti quei modellini di navicelle spaziali. Ripensò a tutte le ore trascorse ad assemblare quelle piccole astronavi, mentre sognava un futuro in cui sarebbe stato possibile per l'uomo e, perché no, per lui, viaggiare in quel modo. Non in questa vita.

Tutti quegli oggetti, così come gli album di fotografie e i quaderni su cui disegnava i suoi fumetti e scriveva le sue storie, per quanto fossero ricordi a lui cari, sarebbero stati solo zavorre. Nella vita che aveva scelto avrebbe mai più avuto qualcosa di suo? Chi prima di lui aveva percorso i suoi stessi passi non era forse un emarginato che viveva ai limiti della società, nascondendosi per sempre, senza fissa dimora, costantemente in fuga e braccato dalle forze dell'ordine? Doveva viaggiare leggero.

Riguardando un'ultima volta quella che era stata la sua stanza per tutti quegli anni lo sconforto sembrò prendere il sopravvento e la mano sulla tracolla della borsa tremò, fino a fargli quasi lasciare la presa. L'idea della fuga era sembrata, nel momento in cui l'aveva concepita, qualcosa in grado di renderlo agli occhi degli altri un giovane eroe a metà strada tra il sovversivo e il martire: una mossa da duro, che avrebbe lasciato la sua famiglia senza parole. "Oh, caro, e chi se lo aspettava da Alex quel coraggio! Tra tutti i nostri figli è sempre stato quello più timido e pauroso, come pensi che sopravviverà lì fuori tutto solo?" Immaginava la faccia di sua madre mentre pronunciava quelle parole, il suo tono lamentoso, lo sguardo abbattuto e fisso sul marito, in attesa di rassicurazioni; ma suo padre le avrebbe risposto quello che ripeteva sin dai tempi dell'Accademia: "Per chi decide di vivere al di fuori della legge il protocollo prevede un totale abbandono e disconoscimento. Da questo momento avremo solo tre figli". E così sarebbero sparite le sue foto, i suoi lavoretti artigianali per le feste della mamma e del papà fatti alle elementari, le sue cartelle mediche e tutti i suoi effetti personali. E forse, alla fine, suo fratello Giò avrebbe finalmente ottenuto la stanza più grande che tanto agognava. I vicini avrebbero spettegolato, a bassa voce, per paura di infrangere il protocollo di disconoscimento, e forse per un po' avrebbero guardato con sospetto i suoi genitori, reputandoli suoi complici. Ma che alternative aveva? Che diventasse lo zimbello più chiacchierato del quartiere, della città, dell'intera regione! Almeno lui aveva provato a opporsi a un destino ingiusto e immeritato. La maggior parte prima di lui cosa aveva fatto a parte accettare lo stato delle cose? Niente. Chiuse lo zaino, ritrovando la determinazione che aveva perso per qualche istante.

In fondo allo zaino, ben piegato e nascosto dentro una rivista, c'era quel volantino, che riportava, scritte a mano, le stesse parole che comparivano sui muri della sua città la notte per poi essere cancellate prima dell'alba dall'Ordine. Tutte le sue speranze di un destino migliore erano lì:

Non deve essere per forza così.

Esiste un'altra strada.

Il Nostro Mondo può essere diverso.

IVC – Io Voglio Crederci.

Poteva davvero esserlo? Doveva crederci, voleva crederci anche lui, come loro.

Esisteva una finestra temporale tra l'attivazione definitiva del marchio e la sentenza. Ventuno giorni, al termine dei quali non ci sarebbe stato più nulla da fare: da lì in poi tutta la sua vita avrebbe iniziato a girare verso la direzione stabilita da qualcun altro. Lo sapeva, sapeva esattamente quanti giorni gli restavano per fuggire lontano e nascondersi. Aveva recitato bene la sua parte, ed era stato così convincente che i suoi si erano davvero convinti che lui avesse intenzione di accettare la sua sorte; la recita del ragazzo rassegnato al suo destino, però, gli era costata tre giorni dall'attivazione del marchio: gliene restavano solo diciotto, come gli anni che aveva appena compiuto. 


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