18. Una cosa alla volta

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La prima sensazione che provò quando aprì gli occhi fu sollievo: nessuno era entrato nei suoi sogni per chiedergli di andarsene in giro a cercare cose o persone. Pensandoci, non riusciva a dirsi sicuro di aver sognato qualcosa di preciso. Il suo secondo pensiero fu invece di natura più pratica: non sapeva cosa fare, nel verso senso della parola. Fino al giorno della fuga la sua routine mattutina era stata pressoché uguale a quella di qualsiasi suo coetaneo: igiene personale, vestiti, colazione, zaino, autobus, scuola. Ma adesso? In che modo avrebbe impiegato il suo tempo lì? Sapeva che per restare a far parte della comunità che lo aveva accolto avrebbe dovuto trovarsi un lavoro utile, ma non aveva idea di come questo potesse accadere.

Una cosa alla volta, si disse. Le prime voci dell'elenco delle azioni quotidiane, igiene personale, vestiti e colazione, gli sembrarono un inizio imprescindibile: decise di partire da lì e vedere cosa sarebbe successo. Il silenzio nel quale iniziò a prepararsi era innaturale, nulla a che vedere con la confusione che lui e i suoi fratelli creavano in casa ogni mattina. Poteva mancargli qualcosa che gli aveva dato maledettamente fastidio fino a praticamente il giorno prima? Dalle lacrime che si concesse di versare sotto la doccia, la risposta fu chiara: sì. Tutti, lì, erano o sembravano più maturi di lui, autonomi, adulti, sistemati. Possibile che solo lui si sentisse ancora un ragazzino allo sbando? Ma le cose dovevano cambiare, lui doveva farlo. A costo di crescere in fretta, diventare un uomo responsabile e con un vero lavoro prima ancora di finire gli studi.

Una cosa alla volta. Oggi sarà il primo giorno della mia nuova vita, se così deve essere. Si fece coraggio, prese un bel respiro e scese le scale.

Trovò la cucina pulita e ordinata, con un residuo di odore di caffè e zucchero. Forse erano già usciti tutti per andare ognuno al proprio lavoro, anche se dubitava che il vecchio ne avesse ancora uno. L'ora al suo polso era ancora ferma alle dieci e venti e nel suo tragitto dalla stanza al bagno alla cucina non aveva visto orologi funzionanti. Attraverso i vetri delle finestre la luce sembrava intensa, da primo pomeriggio, forse. Per quanto aveva dormito? Era ormai rassegnato all'idea di restare solo in casa per tutto il giorno, quando Lev entrò nella stanza e si bloccò sulla porta, sorpreso di vederlo fermo lì, con le braccia lungo il busto intento a fare assolutamente nulla.

«Ah, ciao Max, pensavo stessi ancora dormendo.»

«Mi sono svegliato poco fa, credevo non ci fosse nessuno. Che ore sono?»

Lev lo superò, andò verso il lavello, azionò la macchina del caffè e aprì l'anta di un pensile in alto. «Sono quasi le undici. Non hai ancora fatto colazione?»

«No, sono appena sceso.»

«Siediti.» Lev gli sorrise e lui sentì un po' di tensione lasciare i suoi muscoli e permettergli una postura più rilassata. «Non ti serve il permesso per sederti a tavola o servirti del cibo e del caffè. A proposito, come lo prendi il caffè? E guarda che finché stai qui puoi prendere quello che ti pare dal frigo o dalla dispensa. Non hai forse aiutato Rick a finire la cassa di birre ieri sera?»

Finché stai qui. «Amaro, lungo. Grazie.» Si sedette, senza staccare lo sguardo dall'altro. Nell'ultima parte della sua frase Lev gli aveva dato le spalle e aveva cambiato argomento troppo bruscamente: stava forse cercando di indagare sul contenuto della chiacchierata che aveva avuto con Rick? Dubitava che il racconto dell'uomo fosse un segreto per gli abitanti della casa, ma non sapeva quanto potesse riferire e quanto fossero informazioni confidenziali. «Non l'ho aiutato granché» si limitò a commentare la parte riguardante le birre. Appoggiò i gomiti sul tavolo e intrecciò le dita di una mano con quelle dell'altra, davanti alla bocca, come se in quel modo potesse creare un cancello dal quale filtrare le informazioni in uscita verso Lev.

«Sì, immagino che la maggior parte delle bottiglie le abbia svuotate da solo. Certe date sono peggiori di altre, per lui, diventa più malinconico. Ti ha raccontato tutto?» Lev posizionò due tovagliette per la colazione davanti ad Alex e a una sedia vuota di fronte e su ognuna adagiò rispettivamente una tazza di caffè, un bicchiere di succo di frutta, un piattino con dei biscotti e un tovagliolo di stoffa, poi si sedette al suo posto, lanciò uno sguardo all'orologio al suo polso e iniziò a mangiare. «Scusami, ma sono di fretta, farò tardi al lavoro se non mi sbrigo.» Ma quando aveva preparato tutte quelle cose? Alex doveva essersi distratto più del solito, oppure Lev era davvero molto veloce.

«Che lavoro?» Addentò il primo biscotto e avrebbe potuto scommettere che non fosse industriale, ma fatto in casa.

«Lavoro nella mensa della scuola. Non so se l'hai vista ieri, è quella bianca con il tetto rosso e le colonne del portico arancioni, vicino al Municipio, in centro.»

Forse l'aveva vista in modo distratto, senza registrarne davvero la facciata o domandarsi sullo scopo dell'edificio. «Perché, ce ne sono altre?»

«No, in effetti no.» Lev sorrise, poi bevve il caffè come se non fosse bollente, in un unico sorso. Quel gesto gli ricordò suo padre e sorrise anche lui.

«Quindi servi il cibo ai bambini? Non ti fanno impazzire con "quello non lo voglio" e "voglio di più di quell'altro"?»

«No, io sto in cucina, preparo il cibo, lavo i piatti e pulisco, non mi è permesso fare lavori a contatto con il pubblico, soprattutto se si tratta di menti suggestionabili come quelle dei bambini.» Lo disse con voce piatta, ma la scrollata di spalle che aveva accompagnato quella confessione e che negli intenti di Lev doveva comunicare noncuranza, ad Alex sembrò un gesto triste, di rassegnazione.

«Cos'hai di così spaventoso che potrebbe addirittura suggestionare dei bambini?»

«Nulla di visibile, la mia è un'anomalia che riguarda la sfera personale, non dovrebbe nemmeno riguardarli, è una di quelle cose a cui fuori di qui nessuno farebbe caso, ma che in questa comunità può creare qualche problema, non so se capisci cosa intendo.»

«No, scusami. Sto facendo fatica a capire.» Ecco che si sentiva di nuovo il tizio fuori dal mondo a cui dovevano spiegargli anche le cose più elementari.

«Davvero Lara non te l'ha detto ieri sera? O Rick, o Emma quando ti ha spedito in questa casa? Strano che tu non stia stato messo in guardia.»

Messo in guardia? Qualcosa di pericoloso come ira improvvisa o violenza incontrollabile? «È qualcosa di cui devo avere paura?»

Lev alzò lo sguardo da ciò che restava della sua colazione: poche briciole, una tazza e un bicchiere vuoti. «Immagino che tanto prima o poi lo verresti a sapere, almeno mi hanno lasciato il piacere inedito di dirlo a qualcuno che ancora non lo sa, ma non la scelta di farlo o meno, ovviamente, visto che sto solo anticipando l'inevitabile...» Alex dovette protendersi il più possibile verso di lui, visto che Lev aveva iniziato a borbottare con le labbra nascoste dietro il tovagliolo con cui si stava pulendo la bocca. «Posso solo dirti che le anomalie di chi vive in questa casa sono diverse tra loro, ma tutte del tipo riproduttivo. Sono certo che ieri sera Rick ti abbia già raccontato di non essere riuscito ad avere figli con Marta e Diego ormai è troppo vecchio per farli. Per quel che mi riguarda non mi riuscirebbe mai di stare in quel modo con una donna, quindi eccomi. Ma non preoccuparti, nessuno ti giudicherà se i primi giorni starai qui con noi, prima che ti trovino una casa tra "quelli che funzionano", passano tutti da qui, è normale.» Lev finì di pulirsi dalle briciole dei biscotti come se niente fosse, mentre il cervello di Alex si riempiva di echi di frasi e parole che assumevano una nuova connotazione. «Scusa se ti ho turbato di prima mattina, se vuoi possiamo finire di parlarne quando torno dal turno in mensa, per quella passeggiata che ti ho promesso ieri. Se sono già arrivati i risultati dei tuoi test posso farti vedere i posti di lavoro disponibili e gli alloggi liberi.»

Prima di tutto di che giudizio stava parlando? Essere giudicato per il suo passaggio da ospite in quella casa era l'ultima delle sue preoccupazioni, perché Lev si era premurato di dargli rassicurazioni in merito? La cosa, piuttosto, che gli fece più male, fu un'altra: «Avete detto che sarei rimasto.» Quella debole protesta gli uscì più infantile di quanto avrebbe voluto.

I lineamenti di Lev si addolcirono e Alex odiò leggergli pietà negli occhi. «Abbiamo detto che se non fossi risultato conforme allo standard non ti avremmo buttato fuori, ed è quello che faremo. Ma, fidati, non vorrai restare a vivere in questa catapecchia con le sbronze tristi di Rick e rumori che fa il vecchio quando si lava i denti. Spara pelle di catarro come se dovesse bucare il lavello del bagno. Se fossi al tuo posto, costretto a vivere qui per restare nascosto dalla vita del marchio nero, io conterei le ore che mi separano da abitare in un'altra casa.» Si alzò e iniziò a sparecchiare, solo il suo posto, visto che Alex non aveva mangiato o bevuto nulla.

Era chiaro che il suo tempo a disposizione per quella chiacchierata stava finendo, cercò di elaborare il più veloce possibile, molto più del solito. da come aveva parlato, era chiaro che Lev non avesse il marchio nero, ma allora perché restava lì? «Il tuo di che colore è?»

Lev sospirò, si grattò la ricrescita della barba bionda sulla guancia, poi si passò una mano sulla fronte. «Non sono sicuro di volertelo dire.»

«Ma non è nero, giusto? Hai detto di essere qui perché ci sei nato, quindi non ti stai nascondendo come me. O Rick.»

«Sì, non è nero.»

Era tutto sbagliato, o forse gli mancavano ancora troppe informazioni a riguardo. «Allora sei libero di andare, fuori, nel mondo. Non sei costretto a stare in questa catapecchia, come l'hai chiamata tu, a fare lavori dove non puoi parlare con le persone.»

Lev scosse la testa, poi la sua voce assunse un tono quasi supplichevole: «Ascolta, devo proprio andare. Non vogliamo bambini affamati e arrabbiati in giro, dico bene?»

«Va bene, ma dimmi solo questa cosa.» Anche Alex si alzò in piedi e si frappose tra Lev e la porta da cui voleva fuggire, lontano da quella conversazione. «Lev, io vorrei restare,» confessò, «mi piace qui, ma le persone danno segnali contrastanti e le cose sembrano diverse da ciò che sono a primo impatto. Voglio solo essere sicuro di fare la scelta corretta, di non illudermi che questo sia il posto giusto per me se invece è tutto sbagliato. Dimmi solo questo: sei costretto a restare qui?»

«No, posso andarmene quando voglio. Anche se non avrei niente lì fuori, potrei andarmene.»

«E allora perché resti? Con le sbronze tristi di Rick, le scatarrate del vecchio e un lavoro che ti mortifica? Quella che qui è un'anomalia che ti emargina, lì fuori è una cosa come un'altra, non importa a nessuno se non puoi avere figli, se sei vecchio o se...» quanto poteva spingersi nell'essere esplicito? Lasciò la frase in sospeso, convinto che l'altro avrebbe comunque colto il senso del suo discorso. E Lev sembrò anche sul punto di rispondergli, le labbra strette come a darsi coraggio, ma un attimo dopo scosse la testa e cercò di divincolarsi dalla presenza di Alex sul suo passaggio. «Lev, vale la pena restare qui? Si sta bene?» insistette, convinto che l'avrebbe visto cedere da un momento all'altro. Non sapeva se sperare più in una risposta positiva o negativa.

«Okay...» quando ormai era riuscito a divincolarsi e superarlo, già a ridosso della porta, Lev si fermò e sospirò. «Senti, Max, non è un posto perfetto, ma è qui che voglio stare, io ho i miei motivi, tu trovati i tuoi, altrimenti vattene. Ho sentito dire che la vita da fuggiasco non è impossibile o così male, lì fuori.» Quindi lo lasciò lì, e a lui non restò che guardare le sue spalle sparire dalla porta della cucina.

Tornò a sedersi al tavolo, nella speranza di ritrovare l'appetito e consumare la colazione, ma era come se qualcuno fosse entrato nel suo magazzino mentale e avesse buttato in aria tutti gli schedari e le informazioni raccolte fino a quel momento, lasciandogli il compito di riordinare tutto, proprio come pochi minuti dopo si ritrovò a sistemare la cucina, senza neanche aver toccato cibo, se non per quel minuscolo morso a un biscotto così genuino che sapeva di bugie.

Quando uscì di casa Greta era già lì, appoggiata al cancelletto sbilenco. «Buongiorno Max. Ti stavo aspettando.» Da quanto? Quando Lev era uscito lei era già lì? Perché non era tornato indietro almeno per avvisarlo?

«Ciao. Vuoi... vuoi entrare?»

La ragazza scosse la testa. «No, meglio di no» ma fece comunque un passo nella sua direzione, agitando in aria una cartellina che Alex conosceva bene. L'aveva vista nel suo sogno di gruppo, anche se non gli era stato permesso guardare al suo interno. «Mi hanno solo mandata a darti questi e il benvenuto ufficiale nella nostra comunità.»

«Sono stati veloci.» Di solito quando faceva qualche esame ci volevano almeno un paio di giorni prima di poter ricevere l'esito.

«Be', il laboratorio al quale ci appoggiamo è a meno di un'ora da qui e non c'è proprio la coda in ambulatorio adesso. Ma aspetta l'influenza stagionale e vedrai.» Lei provò a sorridere, ma Alex non seguì il suo esempio. Gli sembrava fin troppo amichevole e solare, come se si stesse sforzando più del dovuto. Era stata ostile nei suoi confronti ogni volta che avevano avuto occasione di interagire dalla chiacchierata tra lei e Lara che aveva sbirciato in sogno aveva capito di non piacerle. O forse si stava lasciando condizionare dalle nuove informazioni in suo possesso?

Lei lo sorprese con un sorriso incerto. «Stavi andando da qualche parte?»

«Ehm... sì. Pensavo di fare un giro, per ambientarmi.»

«Mi sembra giusto.» Si guardò intorno, poi tese di più il braccio verso Alex affinché lui prendesse la cartellina beige. «È venuto fuori che sei allergico alle albicocche, lo sapevi?»

Alex scosse la testa. Cercò recuperare un ricordo di lui che mangiava delle albicocche ma non gli veniva in mente. Eppure, era sicuro di conoscerne il sapore, quindi c'era stato un momento in cui ne aveva assaggiata una. Il presente stava già sigillando la sua vita passata e tutti i suoi ricordi? Pensò subito ai suoi fratelli e a sua sorella Sara, aggrappandosi al loro ricordo, per paura che altrimenti potessero sbiadire anche loro.

Prese la cartellina, senza aprirla. La smania di sbirciare al suo interno era evaporata. «No, non lo sapevo. Grazie...?» Perché era ancora lì? Insomma, gli aveva consegnato gli esiti, il suo compito era finito no? «Ti serve qualcosa?»

«Da te?» La vera Greta, che lo disprezzava, venne fuori, ma venne subito ricacciata indietro da una ritrovata gentilezza: «Sono stata incaricata di farti fare un giro e illustrarti le occupazioni disponibili, per cui...» Fece un ampio gesto della mano che lo invitava a uscire dal cancelletto e unirsi a lei.

«Penso di potermela cavare da solo. Questo posto non è così grande, dubito di perdermi. Chiederò informazioni, nel caso.»

La ragazza sbuffò e alzò gli occhi al cielo. «Senti, non puoi fare come ti pare. Non puoi ancora andartene in giro da solo né a chiedere informazioni né a ficcanasare. Mi hanno dato questo incarico e credimi, ho meno voglia di te di passare il pomeriggio in tua compagnia. Facciamo questa cosa in fretta e tanti saluti, va bene?» e quando vide che Alex non si era mosso di un millimetro giocò sporco: «Mia madre non sarà felice di sapere che hai creato problemi prima ancora di iniziare a vivere qui. E che figura farai con Lara? Quindi vedi di iniziare a fare le cose che ti vengono dette, magari inizia da... tipo adesso?»

Quello funzionò, Greta sapeva che tasti toccare o forse lui era davvero un sempliciotto facile da manipolare, era così che si sentiva. Anche lui buffò e alzò gli occhi al cielo esattamente come lei, poi incrociò le braccia al petto, poi le lasciò cadere lungo i fianchi. «Va bene, fammi strada, sono tutto tuo.»

«Fantastico,» la sentì borbottare, «proprio il mio sogno proibito, guarda!»  


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