29.

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

20 novembre 2000

«Quindi noi andiamo?» era la seconda volta che Flavia me lo chiedeva. Guardò titubante Viviana.

«Sì, sì, rimango ai giardinetti. Vengo più tardi oggi, non mi va di arrivare prima.»

Così andarono via, incamminandosi verso la fermata dell'autobus. Io mi girai e presi la strada opposta, direzione giardinetti della stazione ferroviaria, abbastanza squallidi, desolati e pieni di cartacce da essere in linea col mio umore.

Cercai una panchina al sole che non fosse troppo isolata perché quel posto era frequentato da tossici. Ne trovai una che sembrava addirittura pulita e mi decisi a tirar fuori il panino col prosciutto cotto e a mangiare qualcosa prima che mi scoppiasse il mal di testa.

Bene, come avrei passato il tempo? Continuando a pensare a Damien? No, lo avevo fatto per tutta la domenica e il mio umore era il risultato di quei pensieri.

A un tratto mi venne in mente Enea. Dopo sabato non ci avevo più pensato ma del resto sembrava che neanche lui lo avesse fatto. Non un messaggio o una chiamata. Certo, non avrebbe cambiato nulla e non era tenuto a farlo, però visto come aveva provato a riavvicinarsi avrebbe potuto azzardare un piccolo gesto. Ma poi, chi glielo faceva fare? In fondo ero stata chiara, perché avrebbe dovuto riprovarci ancora? Io avrei cambiato idea? No. Lui pensava di cambiare? No. Quindi aveva fatto la cosa giusta.

Cos'altro pensare... progetti per il futuro? Ero stata sincera con Damien, al momento non riuscivo a vedere oltre il presente. Proiettarmi al prossimo anno dando per scontato che lui non sarebbe stato più qui... no, dovevo impegnare la testa con altro.

Stavo per tirare fuori il cd portatile ma ogni canzone mi avrebbe fatto pensare a lui. Così adocchiai il libro di economia che avevo nello zaino e lo trovai quasi accattivante. No, non era vero, mi annoiava da morire, tuttavia in quel momento annoiarsi e non pensare era un lusso.


16.05, quando entrai si stavano iniziando a preparare per le prove. Tempismo perfetto.

«Buonasera a tutti», senza alzare troppo la voce.

«Pensavo non saresti più arrivata! Stavamo per iniziare», Marzio, guardandomi più da vicino, si accorse della mia brutta faccia e tirò un'occhiataccia senza aggiungere nulla.

Alzai le spalle. Era tutto ciò che avevo da dire. Alla mia destra sapevo di avere Damien, lo avevo visto entrando, per questo ero andata dritta da Marzio, non volevo dargli il tempo di avvicinarsi. Se mai avesse avuto intenzione di farlo.

Chissà che impressione gli davo quel giorno, con gli anfibi, i pantaloni neri a vita bassa e il maglione corto e nero, l'ombelico fuori. Sugli occhi abbondante mascara che doveva nascondere il gonfiore. Avevo l'aria vagamente dark.

Non vedevo l'ora di cantare, per fare qualcosa, per non essere lì a farmi domande e a schivare quelle altrui. Mi sentivo chiusa in una bolla, il mio sguardo fisso su Marzio nella speranza che iniziasse a suonare.

Partimmo con un paio di canzoni in cui facevo solo il coro. Mi andava bene ma avevo l'impressione fosse solo il riscaldamento. Cantammo di nuovo la canzone con Keira e diedi il massimo, senza aver paura di esagerare. Non me ne fregava niente di quello che poteva pensare Damien, tanto non gli piacevo comunque.

Quando fu il momento di provare con lui, pur avendolo davanti mi sembrava di essere sotto l'effetto di qualche droga, nessuna vergogna, non diedi importanza al cenno di saluto che mi fece. Probabilmente avevo uno sguardo vitreo, mi mancava la percezione di quello che c'era fuori di me, vedevo solo figure indistinte, ero completamente indifferente.

«Ok, possiamo provare questa, per favore?» Marzio ci passò un testo da mettere sul leggio che dividevamo a coppie. Vicino a me c'era Vania. «Damien ti dispiace se con te continuiamo dopo? Eh?» Damien fece segno di proseguire.

Dando uno sguardo veloce sui fogli, c'era scritto il mio nome praticamente su tutto il testo e un generico "coro" su alcuni punti. L'ansia che mi sarebbe salita fino a un paio di giorni prima non sapevo neanche più che sensazioni desse.

La canzone era "Promise me", quella che avevo canticchiato il giorno in cui ci fu lo scandalo dell'età. A Marzio doveva essere piaciuta davvero per metterla tra le canzoni da provare. Non era neanche il mio genere e non credevo si adattasse alla mia voce, ma andai come un treno.

Al termine, vidi Marzio scambiarsi uno sguardo pieno di intesa con Steve.

«Perfetto, ora questa», portandoci altri fogli. Di nuovo il mio nome ovunque, di nuovo una canzone che non avrei mai pensato mi desse da cantare.

Vidi la mia mano destra iniziare a tenere il tempo schioccando le dita, sembravano essere comandate da un altro cervello. Sentivo le mie spalle muoversi e mi accorsi che anche i fianchi ondeggiavano. Movimenti appena accennati ma dall'immobilità che mi aveva contraddistinta da quando era arrivato Damien era un bel passo avanti. O indietro.

Ne seguì un'altra più ritmata, non stavo ballando ma ero ancora più sciolta di prima.

Di nuovo solista con "All the man that I need". Dover cantare una canzone di Whitney Houston non mi faceva nessuna pressione, stranamente. Spinsi la voce senza preoccuparmi della mia espressione facciale, dello sforzo - che non fu neanche tanto - e della reazione del mio corpo. Ero tornata a cantare come facevo prima di Damien. Appena terminò la canzone, vidi Marzio trattenere a stento un sorriso e udii Keira battere entusiasta le mani, non mi voltai. Steve disse qualcosa a bassa voce a Marzio e gli altri due componenti della band ridacchiarono annuendo. Le loro reazioni mi scivolarono addosso, li osservavo indifferente. Ero lì, finché mi avessero dato dei testi, li avrei cantati.

Ne seguirono un'altra decina, le provavamo una volta e poi cambiavamo canzone, genere e artista. Poteva significare che il risultato era ottimo o al contrario negativo. Ma ero abbastanza sicura che non eravamo andate male. In ogni pezzo trovavo qualcosa di mio, riuscivo subito a immedesimarmi nel testo e a tirare fuori la frustrazione che avevo dentro.

Al termine dell'ultimo, Steve salutò con entrambe le mani: «Va bene, allora ci vediamo direttamente il giorno dello spettacolo! Mi sembra inutile provare ancora».

«Potremmo addirittura anticiparlo, tipo a domani!» il batterista, Michele, giocava con le bacchette.

«Anche perché se continuiamo così abbiamo materiale per due concerti, non uno», si aggiunse Giorgio, il sassofonista.

Non erano mai intervenuti molto e mi fece piacere sentirli apprezzare il lavoro fatto, detto da loro aveva un altro sapore. Ma il mio viso non tradì nessuna emozione. Vidi Marzio guardare in direzione di Damien e Keira, evitai di seguire il suo sguardo per paura di incrociare quello di Damien.

Marzio ci congedò, ricordandoci le prove con Mathias e gli altri ragazzi e, prima che mi allontanassi troppo: «Ginevra, fammi una cortesia, domani torna di nuovo incazzata come oggi.»

«Stanne certo», e me ne andai. Di sicuro il giorno dopo non avrei avuto nulla per cui essere felice, poteva stare tranquillo.


Presi lo zaino e lo aprii per prendere la bottiglietta d'acqua. Era vuota, mi ricordai di averla finita ai giardinetti.

Chiesi a Viviana di aspettarmi e andai in cucina a bere.

Aprii il frigo e trovai l'unica bottiglia di acqua naturale non effervescente. Ci misi qualche secondo ad aprirla perché aveva uno di quei tappi minuscoli sul quale non riuscivo a fare presa. Quando finalmente cedette, avevo la mano dolente e inveii contro i produttori di quel tappo ripromettendomi, mentre mi riempivo il bicchiere, di non comprare mai quella marca di acqua. Poi mi arrivò. Il suo profumo. Mi girai verso la porta senza pensarci e lo trovai lì. Cercai di non voltarmi troppo velocemente e di mantenere un certo controllo dei movimenti mentre bevevo.

«Stai andando a casa?»

Annuii rimettendo a posto la bottiglia in frigo. Non gli chiesi se la volesse, non mi sembrava fosse lì per l'acqua.

«Posso accompagnarti?»

Non mi aspettavo quella domanda e spesi qualche secondo a pensare quanto fosse assurda in quel momento.

«Beh, è già qualcosa. Almeno non mi hai detto subito di no come al solito», sorrise timidamente. «Così parliamo.»

«Non c'è bisogno.» Ero rimasta accanto al frigo, lui era entrato nella cucina e si era appoggiato alla parete con le braccia incrociate, mantenendo poco più di due metri di distanza. Non era una posizione di chiusura, semmai rilassata. La porta non era più aperta ma semichiusa.

«Di cosa, non c'è bisogno? Accompagnare o parlare?»

«Tutti e due.»

«Ok, ma possiamo farlo lo stesso?»

«Di cosa dobbiamo parlare?» con tono brusco.

«Per esempio del motivo per cui sei arrabbiata con me!»

«Non lo sono», abbassai la testa. «Davvero», aggiunsi con voce più mesta.

«Allora spiegami perché siamo passati dallo stare bene insieme a questo!» Aprì le braccia, per poi tornare a incrociarle, cosa che fece anche con le sue lunghe gambe.

«Senti,» sospirai, «ti giuro che sarò più professionale possibile.»

«Non capisco, professionale? Io non mi riferisco allo spettacolo. Ti accompagno a casa così parliamo tranquillamente.»

«Non voglio.» Mi uscirono così, secche.

Lui mi guardò colpito, quasi ferito. Ripresi a parlare per spiegarmi, non avevo nessun diritto di trattarlo male, lui era gentile, se facevo schifo la colpa era mia.

«Non mi serve che ti sforzi di essere carino con me. Canterò ugualmente cercando di fare bene lo stesso.»

«Cosa c'entra?» aggrottò la fronte sporgendosi in avanti. «Eravamo in auto a parlare tanto bene e d'un tratto tutto è cambiato. Dimmi cosa ho detto di sbagliato, forse non mi sono reso conto...»

«No, è... sono stata io, non avrei dovuto chiederti di cantare quella canzone.»

«Perché non avresti dovuto? Qual è il problema?»

«Perché, come hai detto, è una cosa personale e io non avrei dovuto permettermi di farti domande.»

«Personale?» continuava a riprendere le mie domande e a chiedere spiegazioni. Stavo parlando in inglese, mi sembrava, cosa c'era da capire? «Ti ho risposto così perché ...» si grattò il collo. Poi riprese scegliendo bene le parole: «Ti ho risposto così non perché non volevo dirti a cosa mi riferissi, ma perché pensavo che tu sapessi a cosa mi riferissi. Cioè, dopo... mi sembrava... ovvio».

«Ginevraaa!» La voce di Viviana, di certo non aveva visto Damien venire nella mia stessa direzione altrimenti mi avrebbe sicuramente lasciata lì, anche se stava per caderci addosso un meteorite e fossero gli ultimi secondi per salvarci.

«Devo andare.» Avrei potuto mandarla via e rimanere a chiarirmi con lui, ma sapevo che sarebbe stato inutile.

Lui mi guardò socchiudendo la bocca, poi volse lo sguardo di lato, infastidito. Ne approfittai per passargli vicino e andare verso la porta. Mentre tiravo la maniglia, lo sentii dire: «Sai quel giorno, quando ti ho incontrata in quel negozio al centro, le parole della canzone descrivevano esattamente quello che stavo vivendo».

Mi bloccai. Passarono almeno due secondi prima che riuscissi a muovere le gambe per uscire da quella stanza.


Beverley Craven, "Promise Me", Beverley Craven. Epic Records, 1990.


Whitney Houston, "All The Man That I Need", I'm Your Baby Tonight. Arista Records, 1990.


Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro