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Erano passati diversi giorni e cercavo di non pensare a quello che era successo. Senza riuscirci ovviamente.

Lui non aveva detto nulla al riguardo, neanche una battuta. Forse era anche peggio. Però non mi aveva evitata, anzi. Spesso rimanevamo nel parcheggio di Irma's a chiacchierare, quando non eravamo necessari per le prove, e in quei momenti mi sentivo abbastanza rilassata. Ci stavamo aprendo l'uno con l'altra spontaneamente e conoscerlo meglio mi fece innamorare ancora di più. Amavo di lui il suo modo di pensare, di parlare, le sue piccole smorfie, il carattere. Aveva una mente aperta, approfondiva i discorsi e i pensieri, si interessava alle piccole cose, notava le sfumature. Spaziavamo su vari argomenti ma molto tempo lo passammo a parlare di libri e film, mi spiegò anche tanto riguardo ai set delle riprese, mi parlò della serie in cui lavorava e dove la giravano, degli altri attori che componevano il cast, tutto in maniera molto naturale.

I dubbi tornavano appena mi allontanavo da lui e la mente poteva viaggiare senza controllo.

Oltretutto Viviana e Flavia mi stavano tallonando per sapere come volevo festeggiare il mio compleanno che era ormai prossimo e io continuavo a ribadire che non avevo nessuna intenzione di fare alcunché. Di sicuro non potevo risparmiarmi la cena della domenica successiva a casa mia, ma per il giorno del mio compleanno sarei rimasta da sola. A piangermi addosso. Ma questo non lo dicevo. Avevo ricevuto qualche telefonata anche da altri amici per sapere se si dovevano considerare impegnati con me per quel giorno, visto che cadeva di sabato, ma lasciai tutti liberi di divertirsi altrove ringraziando di avermi dato la precedenza. Nessuno capiva per quale motivo non volessi festeggiarlo e io tagliavo corto. Era inutile spiegare che odiavo stare al centro dell'attenzione, quando per gli altri il diciottesimo anno di età era un traguardo da raggiungere coi botti.

«Ma almeno con noi lo devi festeggiare», il tono di Viviana non ammetteva repliche.

«Viviana, non glielo dobbiamo chiedere. Lei uscirà con noi a costo di prenderla per i capelli e di trascinarla così per le scale di casa», intervenne Flavia.

«Hai ragione.» Poi rivolta a me: «Ti faremo sapere noi a che ora ti passiamo a prendere».


17 Febbraio 2001

Avevo ricevuto già qualche sms di auguri dalle mie amiche e dell'immancabile Lele che si ricordava il compleanno di tutti. Durante la mattinata mi arrivò anche il messaggio di Enea: "Buon Compleanno". Semplice, ma era già tanto che lo avesse mandato, quindi mi fece piacere. Risposi a tutti ringraziandoli. Questo era il massimo che avrei fatto per celebrare i miei diciotto anni. Flavia e Viviana non mi avevano più accennato nulla per la sera e ciò indicava che si erano giustamente stancate di insistere e avevano trovato di meglio da fare. Perfetto. A cena avrei festeggiato mangiando latte e biscotti.


Mentre apparecchiavo la tavola per il pranzo sentii suonare il citofono, speravo non fosse Patrizio che mi chiedesse di scendere per farmi gli auguri, non ero presentabile e mi sarei dovuta preparare al volo. Invece era Flavia che mi chiese di farla salire. Insieme a lei, Viviana. Mi portarono un regalo che aprii sotto lo sguardo curioso di mia madre e mio fratello. Era un bellissimo vestito di pizzo blu, per lo più trasparente, ma con una stretta fascia di tessuto per coprire il seno e una, a occhio e croce a malapena più grande, per il sedere. Era esageratamente stupendo. Da un'altra scatola tirai fuori degli stivali blu elasticizzati alti alla coscia con tacco di dieci centimetri.

«Oddio, vi siete impazzite? Sono meravigliosi!»

«Ti piacciono? Abbiamo scelto tutto quello che noi non ci saremmo mai messe!» Flavia era soddisfatta.

«Fatti trovare pronta con questi per le 20», Viviana si alzò per andare via.

Feci una faccia disperata.

«Pensavi di vestirti così per restare chiusa dentro casa? Stasera a te ci pensiamo noi!»

«Non ve la riportiamo subito però, dormirà da me o da Viviana», Flavia si rivolse a mia madre.

Mi fecero preparare un cambio per il giorno dopo e glielo lasciai portare via, quella sera non potevo uscire di casa vestita in quel modo e con lo zaino in spalla, dissero.

Avrei preferito di gran lunga mangiare latte e biscotti fantasticando su quell'abito e su come usarlo se fossi stata un'altra persona, ma non potevo deluderle. In fondo, essendo solo noi tre, non mi sarebbe sembrato un vero e proprio festeggiamento. Si poteva fare.

Buttai il vestito sulla sedia della scrivania in camera. Non lo provai subito per non rimanerci male, avrei lasciato quel momento per ultimo, così mi sarei sfogata su di loro. Cercai solo un cappotto da abbinarci e una piccola borsa blu di mia madre.

Poi scelsi il vestito che mi sarei messa in sostituzione a quello, dopo aver superato la crisi isterica che di sicuro avrei avuto vedendomelo addosso, nel caso fossi stata veramente costretta a uscire. In me giaceva la speranza che qualcosa andasse storto e l'uscita non avesse luogo.


«Ti stiamo aspettando giù, dietro la curva», la voce di Flavia gracchiava al telefono.

«Ok, arrivo.»

Diedi un ultimo sguardo allo specchio prima di infilarmi il cappottino blu. Ero abbastanza serena perché il vestito mi stava bene, inizialmente non avevo fatto caso che fosse di una taglia più piccola della mia e, prima di indossarlo, già mi stava venendo un attacco di nervi: l'umiliazione di non entrarci mi avrebbe distrutta. Però era entrato ed era piuttosto comodo. C'era di sicuro attaccata l'etichetta con la taglia sbagliata.

Nell'attesa mi ero fatta i capelli mossi con la piastra e mi ero truccata abbondantemente con un ombretto blu glitterato che trovavo si sposasse bene col colore dei miei occhi: verde pianta morente. Avevo usato molto mascara ed eyeliner e me ne stavo pentendo, avevo la mano troppo pesante quando dovevo occupare il tempo. Il rossetto di un colore indefinito, acquistato qualche giorno prima, si sposava bene col resto, ma mi fidai poco della promessa impressa sulla confezione di durare otto ore e decisi di infilare nella borsa tutti i trucchi che potevo.

Mentre allacciavo il cappotto percorsi il corridoio e salutai mia madre che mi bloccò e mi chiese di farmi ammirare.

«Quanto sei bella!» Le brillavano gli occhi, cuore di mamma. «Così li fai girare tutti!»

«Sì, dall'altra parte a vomitare.» Arrivai alla porta.

«Ti sei dimagrita tanto, stai mangiando pochissimo. Se ti assottigli troppo, perdi le tue forme e sei così bella con quel sederino e il seno sodo! Guarda che agli uomini...»

«Ciao», e chiusi la porta. Dio mio, com'era poco obiettiva!

Scesi le scale quasi correndo come al solito poi, rendendomi conto che stavo su dieci centimetri di tacco, rallentai il passo. Girai intorno al palazzo e cercai la macchina lilla di Flavia dietro la curva. Anche col buio solitamente si notava, però non la vedevo. M'incamminai per la discesa e cercai il cellulare incastrato tra i trucchi nella borsa per chiamarla. Mentre me lo portavo all'orecchio e la sentivo rispondere, lo vidi all'interno di una delle tante macchine scure parcheggiate, solo che la sua era la più lucida. E sicuramente la più costosa.

I nostri sguardi si incrociarono.

«Io ti ammazzo», sibilai. 

Sentivo Flavia ridere dall'altra parte del telefono. Attaccai sapendo di dover affrontare l'inesorabile destino che mi avevano tracciato le mie carissime amiche. Rimasi immobile e chiusi gli occhi imprecando in dieci lingue, la mascella così chiusa che i denti di sopra si stavano fondendo con quelli di sotto. I pugni serrati, sembrava fossi pronta per un combattimento. Le gambe quasi tremavano ma dopo qualche secondo mi sbloccai, stava per uscire dall'auto. Gli feci il gesto di fermarsi, attraversai la strada ed entrai in macchina.

Non lo guardai nemmeno e iniziai a parlare velocemente in italiano maledicendo Flavia e Viviana in mille modi. Quello poteva essere definito alto tradimento. Il più alto. Ero sconcertata, come potevano pensare che avrei superato quella cosa? Avevo evitato di festeggiare il mio compleanno con gli amici e loro me lo organizzavano con lui? Neanche volevo che lo sapesse che era il mio compleanno! Volevo rimanere diciassettenne a vita, così facevo prendere un colpo a Dari. E ora che avremmo fatto? Dove pensava di portarmi? Magari a cena fuori in uno di quei ristoranti chic dove si mangia pesce? Brutte bastarde maledette. E se mi avesse fatto un regalo? Santo Cielo Santo Cielo Santo Cielo, le odiavo. Non so per quanto tempo mi dedicai a rinnegarle, ma alla fine mi rivolsi a lui che attendeva in silenzio: «Cazzo, dovevo ammazzarle prima di fare diciotto anni. Adesso mi becco la pena piena. Dio mio!» e mi presi la testa tra le mani.

«Sei sempre contenta di vedermi.»

Mi fece ridere. Poi feci un paio di respiri profondi. Doveva pensare che fossi fuori di testa ad avere una reazione simile, ma le due maledette lo sapevano e avrebbero dovuto risparmiarcelo a entrambi. Anche lui stava reggendo il gioco a loro, che di sicuro avevano orchestrato tutto chiedendogli di farne parte, e ora si trovava incastrato lì con me. Dovevo ritornare a controllarmi.

«Possiamo andare?»

Ebbi un'illuminazione e mi girai di scatto verso lui, probabilmente con occhi da pazza.

«Se mi porti a una festa a sorpresa o qualcosa del genere, ti giuro che ti uccido con le mie mani e nessuno troverà mai i tuoi resti. Non scherzo.»

«Non so perché, ma ci credo.»

«Fai bene.»

Si immise sulla strada principale: «Quindi preferisci stare sola con me che andare a una festa».

«Ho paura di sì.»

Sorrise.


Per tutto il tragitto pensai a come punirle. Mi rilassava architettare una vendetta e mi avrebbe permesso di lì a poco addirittura di parlare con lui come un essere civile, cosa che per il momento non ero affatto. Damien ogni tanto mi lanciava uno sguardo ma non diceva niente, limitandosi a cambiare stazione radio appena passavano una canzone che non gli piaceva.

Superammo un cinema del centro, lasciammo la macchina in un parcheggio a ore poco distante e tornammo verso il cinema. Ok, un film in fondo si poteva fare. Facile, questo era facile. Potevo tranquillizzarmi, niente festa e niente cena. Mi era andata bene, tutto sommato. La porta del cinema era chiusa e avrei dovuto notare le luci spente ma ancor di più l'evidente mancanza di fila per entrare. Gli sorrisi come per dire "non fa niente, ci hai provato, bel pensiero, ora andiamo a casa". Ma una persona all'interno ci venne ad aprire e risalì l'ansia. Ecco, ora avrei trovato tutti dentro a gridare "Sorpresa!" e io avrei dovuto ucciderli tutti dando fuoco a uno dei palazzi più belli della città. Non era giusto. E tutto per colpa di Flavia e Viviana. Il tizio che ci aveva aperto ci indicò la sala e io avrei voluto bisbigliargli di scappare per mettersi in salvo, ma non riuscivo ad articolare alcuna parola. Sarebbe morto come gli altri.

Quando Damien aprì la porta e la pesante tenda di velluto e mi fece passare, ero già pronta a trovare tutti lì, magari nascosti tra le poltrone. Invece era deserto. Lo guardai e capii. Mi aprii in un sorriso liberatorio: «Sei proprio americano!».

«Dovrei interpretarla come un'offesa?» guardandomi con occhi socchiusi.

«No, no! È un dato di fatto!» e continuai a ridere. Era un mio grandissimo desiderio quello di avere il cinema tutto per me. E per la persona che amavo. Quindi come regalo era azzeccatissimo anche se imbarazzante. Ma lo sarebbe stato qualsiasi cosa. Speravo solo che non glielo avessero suggerito le mie amiche perché non potevo pensare a quanto potesse aver speso per avere quel cinema solo per noi in un sabato sera invernale. Accantonai il pensiero, poteva andare peggio.

Mi chiese dove volessi sedermi e feci scegliere a lui. Mi tolsi il cappottino e indugiò su di me senza evitare di farsi vedere.

«Non dire niente, quelle maledette me lo hanno regalato dicendo che dovevo metterlo assolutamente stasera», mi sedetti per sfuggire al suo sguardo. Era esagerato per una serata al cinema, anche se così speciale.

Alzò le mani in segno di resa, lasciò il suo cappotto su una poltrona vicino rivelando il suo abbigliamento casual elegante di colore blu, e rimase in piedi: «Visto che sono proprio un classico americano, vado a prendere i popcorn». Mi faceva divertire il suo modo di dimostrarsi ferito per i miei commenti.

Tornò con un secchio enorme di popcorn e dell'acqua, ero grata che non mi avesse preso altro.

«Così pochi?»

«Lo sai come siamo fatti noi americani: esagerati.»

Spensero le luci e non avevo idea di quale fosse il film che stavamo per vedere.

Era seduto vicino a me e il grosso secchio di popcorn era in bilico sul bracciolo tra noi. Non avevo alcuna intenzione di mangiarli.

Iniziarono le prime scene e capii di cosa si trattava. Non era possibile. Era un thriller americano uscito negli Usa ma non ancora in Italia, di cui avevamo parlato qualche settimana prima. Mi girai a guardarlo con occhi meravigliati e mi sorrise con un sorriso così dolce e sexy e provocante che sarei rimasta tutto il tempo a guardare quello, non il film. Mi aveva fatto un regalo fantastico, era stato così premuroso a organizzare quella serata che io non riuscivo a trattenere la gioia e la gratitudine. Dentro. Perché fuori mi stavo controllando come potevo e non mi uscì neanche un "grazie". D'altronde il mio sorriso parlava per me e per dissimularlo presi a mordicchiarmi le dita, cosa che facevo spesso quando ero nervosa. In realtà molto più sovente mi mordevo le mani e i polsi lasciandomi segni vistosi, ma cercai di accontentarmi di quel tiepido sollievo. Il film era in lingua originale, senza dubbio se l'era fatto arrivare dagli Usa in qualche modo che non comprendevo, magari conosceva qualcuno alla distribuzione. Non lo sapevo e non glielo avrei chiesto, perché maggiori informazioni avrei avuto riguardo al suo sbattimento per farmi quella sorpresa e maggiore sarebbe stato il mio disagio.

Mentre cambiavo posizione per l'ennesima volta, cosa che facevo sempre nei cinema perché, pur non essendo altissima, trovavo le file delle poltrone troppo vicine le une alle altre e mi sentivo le gambe costrette in uno spazio angusto, ci fu una scena che mi fece sussultare. Per non guardare, mi girai di scatto dandogli una forte testata e rovesciandogli addosso buona parte dei popcorn.

Iniziai a ridere chiedendogli scusa, lui rideva con me. Ci ritrovammo ad accarezzare la fronte l'uno dell'altra e, appena me ne resi conto, staccai le mani di colpo mentre lui più lentamente le tolse da me. Tornai a sedermi composta notando che come nei miei precedenti mille cambi di posizione, mi stava guardando le gambe. Erano troppo grosse.

«Almeno qualcosa ci hai fatto con questi popcorn, visto che non li mangi.»

Gli sorrisi a mezza bocca senza guardarlo.

«Ti potrei imboccare e tu potresti imboccare me», con voce accattivante vicino al mio orecchio.

Un brivido mi percorse lungo tutto il corpo e mi eccitò da morire. La sua voce, perché il pensiero proprio no.

«Sai che scena mi è venuta in mente mentre lo dicevi?» mi girai appena verso di lui, i nostri visi quasi si toccavano, le nostre bocche erano di nuovo molto vicine. «Io che ti accoltellavo dritto nel petto.» Rimase di stucco. «Aggiungilo alla lista delle cose da non fare mai», mi soffermai un po' prima di girarmi di nuovo verso il maxischermo.


Il film terminò e mi era piaciuto tantissimo. Prima di andare, cercai di ripulire le poltrone dai popcorn sparsi, lui fece lo stesso.

Tornammo alla macchina discutendo di quello che avevamo visto. Potevo dirmi soddisfatta della serata, a parte un po' di imbarazzo generale mi era piaciuta molto, stare con lui mi regalava emozioni che non avevo mai provato. Era difficile viverle e non saperle gestire.

Prese a guidare e mi sembrava non avesse una meta precisa. Parlavamo ancora del film e mi canzonava per essermi spaventata per quella scena e per un altro paio per cui avevo chiuso gli occhi. Dopo venti minuti mi resi conto che stavamo andando dalla parte opposta rispetto casa mia e non sapevo se dirglielo o meno. Poi notai una cosa che mi lasciò perplessa, finché non ne notai una seconda e una terza. Non ero più perplessa.

«Ti giuro che se mi ci porti ti odierò per il resto della mia vita», scandii piano le parole.

Non rispose.

«Damien ti prego non farmelo», stava salendo il panico. «Ti scongiuro, faccio tutto ciò che vuoi. Puoi inventarti quello che preferisci per non avermi portato, non dirò mai il contrario. Non andiamo.» Le mie gambe presero a tremare forte, più che altro contraevo i muscoli di continuo dal nervoso. Era un'altra cosa che facevo spesso.

Mi mise una mano sulla gamba sinistra, per calmarmi.

«Sono solo tuoi amici», con lo stesso tono che si userebbe per convincere una bambina ad ingoiare lo sciroppo. Guardai fuori scuotendo la testa. Poi chiusi gli occhi per trovare la pace interiore, ma erano circa diciotto anni che si nascondeva bene e probabilmente anche quella sera avrebbe vinto lei a nascondino.

Altissimo tradimento.

Solo quando parlò mi accorsi che la sua mano ancora avvolgeva la mia coscia, che continuava a contrarsi. «Ora capisco perché hai le gambe così belle e toniche.» Non dissi nulla, al momento poteva toccare e dire quello che voleva.

Per fermare le gambe presi a mordermi il pollice mettendolo di traverso in bocca e seghettandolo avanti e indietro coi denti.

«Mi mandi a sbattere.»

Mi girai verso di lui e guardandolo lo feci ancora lentamente giocando anche con la lingua in modo molto sensuale.

«Se serve a non andare, continuo.»

Non stava guardando più la strada, un forte colpo di clacson lo riportò alla realtà e si rimise nella carreggiata. Guardai fuori dal finestrino.  

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