54.

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Quando parcheggiò, stava già iniziando a piovere. Non aveva ombrelli in auto, per fortuna ci bagnammo poco, non volevo lasciare tracce di bagnato per quella casa immacolata che, stranamente, non mi stava dando le sensazioni che immaginavo. Mi sentivo tranquilla, diedi una rapida occhiata al divano e verso la zona dove ci eravamo baciati, ma non ero avvolta dal disagio. Ci pensavo tutti i giorni a quei momenti, però ora che ero lì, sembravano appartenere a un passato lontano, quasi come non li avessi vissuti io. In parte mi dispiaceva, in parte mi avrebbe reso quel pomeriggio meno difficile.

Mi chiese se mi servisse il bagno e ne approfittai anche per fare pipì, cosa che non facevo mai a casa degli altri. Ciononostante il pomeriggio si preannunciava lungo e dovevo affrontarlo in buono stato fisico e mentale.

Dentro quel bagno c'era l'odore del suo profumo e per un attimo mi passò per la testa l'idea di sbirciare nei cassetti o nell'armadio, mi trattenni e uscii cercando di lasciare tutto in ordine come avevo trovato.

Era già in cucina, la pentola sul fuoco. Guardarlo lì mentre si dedicava a cucinare per me mi fece sorridere. Poi rinsavii e compresi che lo stava facendo soprattutto per lui, aveva sicuramente fame a quell'ora. Ancora non mi era salita l'ansia per dover mangiare con lui. Chissà dov'era finita, c'ero così affezionata ormai che quando al momento giusto non la vedevo arrivare, mi preoccupavo.

Gli andai vicino e si girò con un bel sorriso. Risposi col mio che si ingrandì troppo, mi morsi il labbro inferiore per tenerlo fermo. Mi invitò ad aprire il frigorifero e scegliere quello che preferivo mangiare, ricordandosi che non amavo il pesce.

«Praticamente mi stai chiedendo di cucinare.»

«No! Lo farò io.»

«Scherzo. Lo faccio io. Però non sono capace, ti avverto. Sarà la peggior cucina italiana che tu abbia mai assaggiato», con un largo sorriso, come se fosse una cosa bella.

Mi sentii abbastanza tranquilla nel rovistare in frigo e freezer e trovai quello che volevo. Tirai fuori prosciutto e piselli e gli domandai se andava bene che facessi la pasta con quel condimento. Annuì convinto e iniziammo a cucinare insieme, prima però accese lo stereo. Era divertente e rilassante, oltretutto l'imbarazzo era andato a cercare l'ansia quindi in quel momento non c'era. Canticchiammo, con tanto di movimenti a ritmo di musica. Lui tagliò principalmente il prosciutto a pezzettini. Però lo fece nella maniera più sexy del mondo.

Usai mille posate per assaggiare ogni tanto il grado di cottura dei piselli e della pasta, onde evitare di usare la stessa posata due volte contaminando anche il suo cibo con la mia saliva.

Quando fu il momento di mangiare, sul bancone dove avevamo consumato latte e biscotti, presi il coraggio a due mani e inforcai un rigatone.

«Questa è la mia pasta preferita», annunciai. «Certo, non proprio come la faccio io.»

Mi fece i complimenti ai quali non credetti, consapevole delle mie inesistenti doti da cuoca.

Ne mangiai poca, ma tanta per lo sforzo che stavo facendo e mi sembrò soddisfatto. A ogni rigatone mi domandavo come affrontarlo, evitando di metterlo tutto in bocca, mordendolo e facendone piccoli bocconcini, quasi fossero patatine.

Mentre mangiavamo mi fece domande sulla mia famiglia, non fui molto prolissa, preferivo tenere le due cose separate. Desideravo lasciarlo fuori dal mio mondo, perché quando non ci sarebbe stato più e io sarei tornata lì, tra i miei familiari, non avrei voluto che ci fosse qualcosa a ricordarmelo, neanche il ricordo di quando parlavo di loro. Sarebbe stata l'unica cosa che mi sarebbe rimasta, ormai anche i miei amici erano da considerare pregni dei suoi ricordi.

Quell'agonia terminò e mettemmo tutto in lavastoviglie. Sembravamo una coppia sposata. O convivente. O la colf col datore di lavoro. Sì, decisamente più l'ultima.

«Com'è andata l'interrogazione oggi?» Intanto ci eravamo seduti sul divano, in una posizione completamente diversa da quella avuta durante il succhiotto. Entrambi avevamo scelto un'altra seduta.

«Il mio inglese è peggiorato. È stato sporcato troppo dal tuo americano.»

«Ne sono desolato», sorrise. «Sei riuscita a ottenere il tuo 10?»

«Non so che voto mi abbia messo, però è andata bene.» Certo che non sapevo il voto, la situazione era mutata in poco tempo: eravamo passate dall'interrogazione, al gossip, alla mia reazione esagerata.

«Quindi grazie a me

«Non credo proprio! Sarei andata bene comunque. Anzi, mi hai distratto e questo anno ho gli esami. Devo arrivarci preparata

«Quando?»

«Giugno, luglio. Non ci voglio pensare. Non riesco a guardare molto avanti in questo periodo

«Vedrai che andrà tutto bene.»

Cosa? Gli esami, lo spettacolo, la sua partenza? Gli sorrisi guardando per aria come per dire che non ci credevo ma che non volevo starne a parlare.

Mi cadde l'occhio su una tela coperta che era in fondo al salone, dava l'impressione che fosse stato lì a dipingere fino a quando non era venuto a prendere me. Distolsi lo sguardo e incrociai il suo. Entrambi evitammo di commentare quello che era successo qualche giorno prima riguardo ai suoi dipinti, ma che ci stavamo pensando ce lo avevamo scritto in faccia.

Presi a canticchiare una canzone che c'era in sottofondo, tanto per tergiversare. Spostammo la conversazione sulla musica, era affascinato dalla mia capacità di ricordarmi testi e dall'effetto che le melodie avevano su di me, come se le assorbissi e mi trasformassi ogni volta, sempre diversa.

«Pensavi avessi un'unica espressione?» e feci una faccia inespressiva.

«I primi due mesi, sì», scherzò.

Sorrisi, immaginando che non fosse poi così lontano dalla realtà.

Mi chiese cosa ne pensassi della musica italiana e gli confidai che l'ascoltavo soprattutto quando ero triste, le parole le sentivo più tragiche, profonde.

«Ora sei triste?»

«Certo!» Ci guardammo complici, poi ripresi: «No, ma tra poco lo sarò. Ho un'autonomia di felicità ridotta. Invece sono ben rifornita di tristezza, se si potesse vendere, creerei un impero.»

«Non hai nulla per cui essere triste.»

«È vero ma non ho neanche nulla per cui essere felice. E questo mi rende triste.»

Mi studiò.

«Cosa ti renderebbe felice?»

Te.

Pensai troppo prima di rispondere, perché mi veniva in mente solo lui. Quindi scoppiai a ridere.

«Mio Dio, cosa stavi pensando?» rise pure lui.

Continuai a pensare a qualcosa da dire. Ma veramente non mi veniva in mente nulla oltre lui. Cominciai a cambiare posizione sul divano e a mordicchiarmi le mani. Imperterrito, aspettava una mia risposta.

«Non lo so! Ok?» agitai le mani stressata. «La felicità è qualcosa di astratto non saprei dirti cosa mi...» Le mie unghie mi graffiavano il collo. «Mi basterebbe essere più serena, ma suppongo sia ancora più difficile che essere felice», conclusi.

«Se mi permetti, penso che tu pretenda troppo da te stessa e non riesca a goderti il momento.»

«E a te cosa rende felice?» Avrei evitato di chiederglielo ma il discorso verteva troppo su di me.

«Stare con te.»

«Ahahaha! Ma piantala!» e mi alzai di scatto dal divano. «Era un modo per dirmi che volevi ti preparassi un caffè?» mi avvicinai alla cucina. Dovevo muovermi, stargli lontana, non potevo affrontare quello che aveva detto.

Rimase in silenzio qualche secondo.

«Con te non si può parlare.»

«Lo vuoi questo caffè?»

«No, voglio che mi ascolti senza andartene o senza che provi a cambiare discorso ogni volta che qualcosa ti imbarazza.»

«Ho paura che mi dovrai tenere e imbavagliare.»

«Vengo lì?»

«Suona come una minaccia.»

«Allora vieni tu qui.»

Mio malgrado tornai da lui ma non avevo intenzione di continuare quel discorso.

«Dai, ti insegno qualcosa in italiano. Cosa vuoi sapere?»

Passammo il resto del pomeriggio a studiare un po' di italiano, era molto attento a quello che gli dicevo e sembrava gli interessasse davvero.

Poco prima di cena mi riaccompagnò a casa e finalmente ricordai di prendere i regali. Stavolta non lo baciai sulla guancia.  

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