80.

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Arrivai dietro il sipario, presi posto accanto a Damien reprimendo qualsiasi tipo di sentimento e non lo degnai di uno sguardo. Avevo i lineamenti duri, tuttavia chiedermi di sembrare serena e rilassata era veramente troppo. Gli sguardi degli altri mi scivolarono addosso, sentii lui dirmi qualcosa, ma le sue parole non sfondarono la barriera che avevo posto a protezione.

Si alzò il sipario e le luci e la gente non mi procurarono alcun tipo di emozione. Partirono gli applausi. Niente. Bene, alla fine era proprio quello che mi serviva. Bisognava vedere il bicchiere mezzo pieno. Di cianuro.

L'orchestra partì e io diedi il massimo. Cantai meglio di tutte le altre volte, spingevo ancora di più con la voce perché avevo bisogno di urlare più che di cantare e nonostante tutto riuscii a mantenere un contatto visivo con Damien, sebbene non lo vedessi. Era offuscato, come se fosse un ricordo ormai. Mi era impossibile leggere le sue espressioni, ma solo perché non riuscivo ad andare oltre le mie emozioni, lo guardavo come se fosse un pezzo di cartone mentre gridavo la mia disperazione. Per il pubblico stava andando tutto bene, visto gli applausi calorosi che in una situazione diversa mi avrebbero fatta vergognare, mentre ora mi lasciavano indifferente, solo leggermente sollevata per non aver fatto un disastro.

Dopo una serie di canzoni, io e Damien tornammo dietro le quinte, ne erano previste diverse con Keira e le altre ragazze. Cercai di dileguarmi senza farmi seguire. Fallii.

«È uno stronzo, te lo avrei detto io.» Avrei dovuto tirare dritta e chiudermi in bagno, ma mi venne spontaneo girarmi e rispondergli sentendomi in dovere addirittura di difendere Dari. O di sfogarmi.

«Ah, davvero? Lui è uno stronzo?» con un sorriso da pazza e gli occhi di fuori. «E sentiamo, quando avresti avuto intenzione di dirmelo? Sono settimane che lo sai e siamo stati tutti i giorni insieme. Anzi, a occhio e croce lo sai proprio da quando mi hai chiesto di vederci di più.»

«Saresti scappata se te lo avessi detto.»

Feci un gesto per dirgli di smetterla.

«Sai che c'è? È che non capisco perché sei dovuto arrivare fino a questo punto. Sei contento? Ora torni negli Usa soddisfatto? Non avermi scopata al primo schiocco di dita ti dava fastidio, visto che ti cadono tutte ai piedi?» Avrebbe potuto farlo con chiunque, non ero neanche un millesimo di quello che poteva avere o che aveva avuto. «Perché ti sei accanito? Una sorta di orgoglio? Pietà? Volevi vedere fino a che punto avrei resistito? Che cos'era?» lo aggredii.

«Lo sai anche tu che se avessi voluto sarebbe accaduto tanto tempo fa, mi sono trattenuto per farti capire che non volevo solo quello e che c'era molto altro», cercò di farmi restare calma ottenendo l'effetto contrario.

«Certo, lo sanno tutti che se tu avessi voluto, io non avrei mai resistito», feci una risata amara, «ma non venirmi a dire che c'è altro, perché mi hai dimostrato di non avere un minimo di rispetto per me lasciandomi ignara della tua partenza.»

«Mi serviva tempo, tempo per farti capire che tra noi poteva funzionare. Se te lo avessi detto prima non saremmo mai andati avanti, mi avresti allontanato senza darmi modo di dimostrare quello che provavo veramente!»

«E cosa provavi? La voglia di vedere com'era farsi una ragazzina insignificante? Hai fatto bene, lo sfizio te lo sei tolto, ma è stata solo una tiepida scopata, a casa tua continua a frequentare quelle fighe che ti girano intorno.»

«Smettila di dire così, sai quali sono i miei sentimenti per te. Non ridimensionare quello che c'è tra noi a una sola notte», si risentì.

«Se ci fosse stato qualcosa, tu me lo avresti detto prima, non avresti permesso che mi mandassero in mille pezzi proprio stasera!»

«Ho sbagliato. Ok, ho sbagliato! Era solo per avere più tempo per noi, per non farci travolgere dalla tristezza.» Tutti gli avevano consigliato di dirmelo ma era andato avanti per la sua strada sperando fosse la scelta migliore per noi due. Mi chiese perdono, era distrutto, però questo non voleva dire che doveva finire. «Dovrò stare lontano per lavoro per qualche mese, poi tornerò e tu potresti venire a trovarmi o trasferirti da me appena finita la scuola o...»

«Ah... e tutti questi progetti quando avresti voluto farli? Domattina? O direttamente all'aeroporto? O forse mi facevi telefonare da Nicholas una settimana dopo esservi sistemati di nuovo a casa?» Stava solo peggiorando le cose.

«Non volevo mandarti nel panico, col concerto che incombeva!» Aveva evitato di farmi ulteriori pressioni chiedendomi di abbandonare la scuola o terminarla per poi andare da lui lasciando la mia vita. «Potevo chiedertelo settimane fa, sapendo che stavi impazzendo per lo spettacolo e ancora non ti fidavi di me e dei miei sentimenti? Cosa mi avresti risposto? Volevo solo far passare questa serata e poi te ne avrei parlato!»

«Lo sai che c'è? Non me ne frega un cazzo di tutte queste stronzate che tiri fuori adesso, non ci credo.» Non mi ero mai aspettata niente da lui, nessun regalo, nessuna festa di compleanno, cene, passeggiate o il suo tempo libero. «Pensavo solo che lo avrei saputo da te. E non a due giorni dalla partenza e non dopo settimane che ne eri a conoscenza. Tutto qui.»

«Ho cercato fino all'ultimo di rimandarla!» Quando ero a casa sua, parlava al telefono di questo, ma per quanto avesse cercato, non c'era riuscito. Sperava di ottenere qualche settimana e non ce l'aveva fatta. «Ci sono mille persone che ruotano intorno a quella produzione, ho dei contratti, ho rinunciato a tutto e chiesto di pagare le penali, però non posso fare come voglio.»

«Ho mai detto qualcosa in contrario? Ho sempre pensato che tu e il tuo lavoro foste davanti a tutto. Ma appena avuto una data, anche nella speranza di rimandarla, sempre che sia vero, avresti dovuto dirmelo.»

Si avvicinò allungando un braccio per prendermi.

«Non ci provare», mi scansai.

«Ti prego, non voglio vederti così.»

«Non ti preoccupare. Adesso facciamo quello che dobbiamo fare, poi non mi vedrai più.»

«Lo capisci che se parto non vuol dire che ci lasciamo?»

«Lo capisci che non siamo mai stati insieme? Dovremmo iniziare ora? Con te che mi hai mentito per tutto questo tempo?»

«Non ti ho mentito, tu non mi hai mai chiesto quando sarei partito.»

Mi feci un'altra risata. Ora era meschino.

«È vero, tutta colpa mia.»

«Ginevra, tocca a te!» mi sentii chiamare.

M'incamminai quasi sollevata che mi allontanassero da quel finto chiarimento e lui provò a mettersi davanti a me.

«Se mi sfiori rovino il concerto a tutti», lo minacciai guardandolo negli occhi.

Mi lasciò passare.


Continuai a cantare come se non ci fosse un domani. Anzi, nella speranza che non ci fosse.

Ci fu un intervallo che passai con le cuffie nelle orecchie continuando ad ascoltare persone che urlavano come io urlavo nella mia testa.

Ripreso il concerto, avevamo altre canzoni insieme, riuscii anche a cantare "Sospesa" attaccata a lui senza impazzire, con le mani che si sfioravano. La eseguii a modo mio e non unii la mia voce alla sua quando fu il momento. Così, tanto per stronzeggiare, per fargli capire che non volevo più unirmi a lui se non era necessario, nonostante le nostre mani fossero giunte. Andò bene comunque, il pubblico non capì. Ormai lo sentivo dalla mia parte, non mi preoccupava più, era Damien il mio nemico.

Cantai da solista una serie di canzoni, sollevata perché non lo avevo accanto, colma di rabbia e di angoscia che trasferii nelle esibizioni. Come avrei fatto a vivere senza di lui, ora che sapevo com'era averlo accanto?

Alla fine di un pezzo, si abbassarono le luci lasciandone solo una a illuminarmi. Non era previsto. Marzio che suonava al piano e basta. Non era nella scaletta. Il panico non arrivò, fu il dolore a prendere il sopravvento e lo rigettai nell'esecuzione. Che fosse una canzone provata giusto una volta non mi interessava, quello che mi faceva male era il motivo per cui la stavo cantando.

«"... You can reach me by railway, you can reach me by trailway, you can reach me on an airplane, you can reach me with your mind, you can reach me by caravan cross the desert like an Arab man, I don't care how you get here, just get here if you can..."»

Gli occhi pieni di lacrime e non c'era neanche un momento per gridare, non come ne avevo bisogno io. Mi sentivo nuda davanti a tutti, la voce che dovevo sforzare poco si stava strozzando e dimostrava tutta la mia sofferenza. Dio, lo odiavo. Stava distruggendo anche quel poco che ero riuscita a mantenere in piedi. Terminai la canzone e si alzarono addirittura per una standing ovation, io uscii di scena e mi fiondai a cercarlo.

Lo trovai subito.

«Come cazzo ti sei permesso? Volevi vedermi cadere in ginocchio davanti a tutti? Non ti permettere mai più!» mi avventai contro di lui con un dito puntato al petto senza toccarlo. Poi mi ripresi, rendendomi conto di aver detto una cretinata. «Ah, ma di sicuro non c'è problema! Quando mai potresti rifarlo? Tra due giorni parti!»

Ero sicura fosse stato lui a chiedere di farmi cantare quella canzone. Fare una scenata davanti a tutti non era previsto, ma ero fuori dal mio controllo, non mi tenevo.

Lui rimase stupito dall'odio con cui gli parlavo, glielo lessi negli occhi. Fece per toccarmi le braccia, mi divincolai prima che facesse presa.

«Ti ho detto che non mi devi sfiorare! Non sono un burattino che canta quello che ti passa per la testa solo per farti fare la parte del sentimentale del cazzo. Mi stavi facendo crollare davanti a tutti! C'ero io là sopra, da sola, con un riflettore puntato addosso! Cosa volevi vedere, la disperazione? Se ero capace di fingere come te?» gli urlai contro.

«Io non ho mai finto», con un filo di voce.

«Vaffanculo!» e me ne andai furiosa verso una via d'uscita. Mi seguì ma sentii Mathias intimargli di fermarsi.

«Tu rimani lì, hai fatto abbastanza. Ci penso io ora.»

Arrivai dentro uno dei camerini, il più nascosto, e iniziai sbattere le braccia contro il muro. Le volevo ridurre a brandelli, le stesse braccia che lo avevano abbracciato, alla fine delle quali c'erano quelle mani insulse che lo avevano accarezzato, che erano state intrecciate alle sue così tante volte. Dovevo distruggere ogni ricordo che avevo di lui e dovevo partire da me, fino a quando non ci sarebbe rimasto più nulla. Passai a sbattere la testa, sperando di farmi abbastanza male da provocarmi dei danni irreparabili. Purtroppo non arrivai alla terza testata perché Mathias mi fu addosso e mi bloccò con tutte le sue forze.

«Basta, ora smettila!»

Io cercavo di togliermelo di dosso continuando a guardare il mio obiettivo, il muro.

«Cosa vuoi fare? Distruggerti? Per lui?»

«Lasciami stare!»

«Stai ferma!»

Lottammo per un po' ma poi il mio cervello pensò subito al piano b. Non sarei riuscita a sovrastarlo con la forza, dovevo trovare un altro modo per farmi male.

Feci finta di tranquillizzarmi e lui cautamente mi lasciò, blaterando qualcosa sul fatto che non ne valesse la pena.

Adocchiai le forbici che la parrucchiera aveva lasciato sulla mensola davanti allo specchio. Probabilmente Mathias aveva seguito il mio sguardo perché pur arrivandoci per prima, lui mi fu di nuovo subito addosso e riuscii solo a graffiarmi lungo il braccio. Veramente me le volevo conficcare in pancia.

Mi arrivò un forte schiaffo in faccia.

«Cosa cazzo stai facendo? Sei sicura che vuoi che finisca così?»

«Sì», gli urlai contro.

«Sei fuori di te! Chi è che vuoi punire?»

«Me! È tutta colpa mia! Ti prego, lasciamelo fare, ti prego!»

«Stai calma, vedrai...»

«No! Non lo voglio sentire! Non si sistemerà niente! Lasciami morire, ti prego!» urlai.

«Stai dando di matto, devi tranquillizzarti. Stavi andando così bene, sei stata così brava. Hai lavorato tanto per arrivare a questa serata, non te la far rovinare così. Dopo te ne pentirai se gli permetterai di farti questo.»

«Non c'è un "dopo"! Lo capisci? Non ci sarà un "dopo"!» Avevo un attacco isterico.

«Ora dici così perché l'hai appena saputo, ma se ti dai il tempo di metabolizzare...»

«Cosa? Che l'ho perso?»

«Ginevra, tu... non l'hai perso, non credo, non so... ma di certo non devi farti del male per questo!»

«Io non voglio farmi del male, io voglio morire!» gridai. Non riuscivo a strapparmi i capelli perché mi aveva immobilizzata su una sedia.

Qualcuno bussò alla porta del camerino che Mathias aveva chiuso entrando e lui gli urlò di andarsene.

«Deve entrare a cantare! È l'ultima!» Dall'altra parte della porta.

«Fammi andare!» d'un tratto calma.

«Dove vai così? Sei sconvolta! Pensi che nessuno se ne accorga? Hai le braccia piene di lividi, sei graffiata, dove vai?»

«L'hai detto te che dovevo arrivare fino alla fine.» Sembrava fosse passato tutto.

«Sì ma...» mi osservò per un attimo decidendo se darmi ascolto, «Ok.» Si avvicinò alla porta portando con sé le forbici. Disse a chiunque ci fosse dietro che doveva far arrivare al volo la truccatrice e la parrucchiera e temporeggiare il più possibile. Io rimasi immobile, seduta dove mi aveva lasciato lui, la testa ciondoloni. Mi passò un pensiero lucido nella mente: chissà quale canzone dovevo cantare. Non me lo ricordavo più. Poi di nuovo la nebbia mi avvolse.


Oleta Adams, "Get Here", Circle of One. Fontana, 1990.


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