Capitolo 13 - I ricordi di Daniel

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Non c'era luce dentro di lei.

Per quanto m'immergessi nella sua mente non trovavo altro che buio. La sua era una dimensione interiore permeata dalla paura. Mi domandai se quello fosse il destino che un tempo mi aveva atteso dietro l'angolo degli ammonimenti di Amis.

Nutrii per quella donna una compassione tale da convincermi che l'avrei liberata ad ogni costo da quel tormento.

M'insinuai tra le pieghe della sua oscurità, le allontanai con delicatezza per scorgere tra di esse il suo Io; lì dove sapevo che avrei trovato il nodo che qualcuno aveva stretto intorno ai suoi ricordi.

Sentivo tuttavia, che la sua anima si sottraeva alla mia presenza. Una volontà ostile pesava nell'oscurità che la inghiottiva, osteggiava la mia determinazione. La percepivo chiaramente, ma proseguii, lo feci finché non sentii un pianto.

Non la vidi, ma quando pensai di esserle vicino, un muro si parò contro la mia avanzata. Lo sondai con calma per non rischiare di essere frettoloso. Era una cinta circolare, massiccia e senza spiragli. Un incantesimo ben fatto. Vi poggiai le mani e sussurrai una preghiera al Sole affinché mi mostrasse la sua vera natura.

Scintille nel buio tracciarono linee intricate, diedero forma a cerchi e simboli a me sconosciuti, ma che fissai nella memoria. Prese consistenza una prigione dorata e tra le sue spire riuscii a scorgere all'interno la figura smunta, nuda, della donna, era piegata su se stessa, con la testa china e il volto nascosto tra i capelli. Su di lei incombeva un'ombra rossa come il sangue, le incideva sulla pelle segni che non riuscii a vedere.

Volevo liberarla da quel seviziatore, ero certo che così l'avrei liberata anche dalla paura. Prima però, i crimini commessi e ciò che insieme ad essi era stato nascosto dovevano affiorare nella sua memoria. Pronunciai la preghiera che rivolsi al Sole perché attraverso le mie mani irradiasse il sigillo e lo infrangesse.

I simboli dorati si disgregarono colando come ferro fuso. Attraversai il primo spiraglio nella prigione e non appena lo feci la figura in rosso si girò. Mi rivolse la sua testa senza volto. Sentì l'eco della sua risata. Il buio ci avvolse come seta, poi divenne un uragano. Si alzò un vento impetuoso che strattonava la mia coscienza via da quella mente.

Resistetti. Guardai la ragazza, sulla pelle portava i segni inequivocabili di un incantesimo, erano rosso rubino, colavano gocce di sangue. Non mi fermai a chiedermi di cosa si trattasse, la rabbia mi sopraffece e così mi avventai contro la figura in rosso, ma non appena mi mossi la sua immagine scomparve, dissolta nel buio in tempesta.

Allora andai dalla ragazza, ancora china a terra. Le avvolsi le spalle in un abbraccio gentile e con delicatezza la spinsi a voltarsi. Teneva gli occhi chiusi, ben stretti, le sue mani corsero ad arpionarsi le braccia, si stringeva a se stessa, o forse si copriva, una pudicizia che nella sua stessa mente significava tutt'altro. Il suo corpo era stato violato, ma non compresi fino a che punto.

Le dissi: "non aver paura, è già successo, è passato".

Lei era scossa dai brividi, più volte ripeté che stava per arrivare, e più volte io le risposi che era al sicuro. Il buio intorno a noi si fece incombente, ci stringeva in una morsa vorticante, tentava di strapparmi via da lei, continuai ad oppormi. Le accarezzai il volto, allora lei aprì gli occhi, mi guardò e per la prima volta ebbi la sensazione che percepisse la mia presenza.

Mi disse di scappare.

Poi il buio si avventò su di lei, le spalancò la bocca e gli occhi e le entrò dentro come uno sciame di mosche. Sussulti violenti le scuotevano il corpo mentre si gonfiava e deformava.

Per lo spavento lasciai la presa sulle sue spalle. Scattai indietro, mi allontanai e così fui catapultato fuori dalla sua mente.

Ero di nuovo alla luce delle fiamme di Liverpool. Fui colto da un sollievo che accolsi con codardia, un momento di debolezza che non sarei riuscito a perdonarmi.

Davanti a me la donna che mi ero promesso di proteggere era scossa dagli spasmi. Sulla sua pelle, prima liscia come porcellana, ritrovai quegli stessi simboli che avevo visto nella sua mente.

Mentre la osservavo sbalordito una mano invisibile la spinse oltre la soglia del dolore, urlò. Fu un urlo disumano. Le sue membra si spaccarono per ricomporre una figura assai più alta, dalle lunghe braccia articolate e un volto deforme. La sua pelle bruciò, il fuoco lasciò al suo passaggio cuoio ustionato e spesso, odore di carne affumicata e sangue.

Non riuscii a reagire, la forza del suo dolore era un'entità a me superiore, m'inchiodava, torturato dalle grida che davano alla luce quell'essere.

Capii che avevo liberato un incantesimo nascosto nei ricordi della donna. Non avevo mai sentito parlare di una cosa del genere, ma peggiore di questo era il fatto che si trattasse di un incantesimo aberrante che aveva prodotto un'entità innaturale, priva di qualsiasi equilibrio e pace.

Mi rifiutai di credere che la donna fosse persa per sempre. Non poteva essere stata semplicemente l'involucro di quel mostro, in profondità c'era ancora lei, riuscivo a stento a percepirne la sofferenza nel marasma di odio e rabbia che veniva dalla creatura, ma c'era. Doveva esserci un modo per invertire la trasformazione e se esisteva l'avrei trovato.

Quando la creatura si mosse lo fece con una rapidità che non avrei mai sospettato per la sua forma sgraziata.

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