1. PROLOGO: FINO A IERI

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La segretaria aveva solo venticinque anni quando mio padre la preferì alla moglie.

Questo sembra l'inizio di un film drammatico, che prosegue con l'immagine della donna tradita che piange tutte le sue lacrime e si suicida, oppure di un thriller, dove si vendica uccidendo il traditore e l'amante puttana. Rigorosamente, puttana.

Potrebbe essere anche il prologo di un horror in cui la vittima del tradimento, alla fine, elimina la coppietta di amanti per poi farsi ammazzare, a sua volta, dal vendicativo fantasma di un parente lontano del fedifrago.

Però, la signora Marta Thompson non rientrava nella categoria di donne che provano rancore eterno per i torti subiti e, ancor meno, in quella di coloro che si abbandonano all'autocommiserazione.

Non era propensa né a risolvere le ingiustizie con la violenza, né a piangersi addosso sino a morirne.
Infine, il traditore non aveva parenti defunti così affezionati alla sua pellaccia.

Nessun incipit per un film da botteghino, dunque, ma solo il punto di partenza della seconda parte della mia incasinata esistenza.

Mia madre aveva preso le sue cose, quelle della figlia adolescente, alias io, e se n'era volata lontana dai luoghi dove aveva vissuto per tanti anni da felice mogliettina adorata dal marito.

Molte donne avrebbero preso in seria considerazione l'opzione di rivoluzionare la propria vita trasferendosi sull'isola di Cayo Saetia per poi spedire una loro foto, stese sulle sabbie finissime baciate dai raggi del sole tropicale con un mojito in mano, all'ex marito.

Mia madre, invece, non aveva neanche ponderato tale possibilità. Lei si era eclissata in una località sperduta e inaccessibile, che di sicuro non avrebbe scatenato l'invidia di nessuno.
Come se nulla fosse, mi aveva trascinata a vivere in Alaska, la sua terra natia. Una rivelazione che, per la quindicenne testarda e ribelle che ero, non fu certo sufficiente a mettermi il cuore in pace.
Nonostante le mie proteste, a tratti anche eccessive, niente avevo potuto fare per evitare che la mia vita venisse stravolta dal susseguirsi di eventi a catena causati dalle decisioni dei miei genitori.

Con il senno del poi, non dovrei nemmeno lamentarmi troppo o provare rancore nei loro confronti, perché fu proprio in quei paesaggi meravigliosi e selvaggi che conobbi il mio primo amore. Il nitido ricordo del mio cuore che galoppava furioso nel petto ogni volta che lui posava i suoi occhi blu su di me, il tumulto nello stomaco e la pelle d'oca mi hanno accompagnato ogni giorno per ogni anno della mia vita e ancora oggi accade, anche se di giorni ne sono passati circa millenovantacinque e di anni tre.

D'altronde, non poteva essere altrimenti e non solo perché a quell'età i sentimenti si vivono in modo totale ed esagerato, ma anche perché in quell'anno e mezzo che durò il mio grande amore accaddero tante cose, molte delle quali così pericolose ed esaltanti che fu impossibile dimenticarle.
L'anima inquieta di mia madre mi portò su e giù in pellegrinaggio per l'Alaska, dalla cittadina di Copper Center a Valdez, Anchorage, sulla Baia di Cook, fino a farmi sedere nelle aule universitarie di Fairbanks.

Il mio giovane amore, Ethan, figlio della guida turistica locale, Ben Davis, invece continuò a scrutare l'orizzonte nelle sue montagne impervie.

Io ampliavo la mia conoscenza e, curiosa e intraprendente com'ero, andavo alla continua ricerca di avventura mentre lui, invece, rimaneva lì, radicato alla terra natia, fedele alle proprie abitudini e tradizioni. Io crescevo aprendomi al mondo, lui chiudendosi e temprandosi con le aspre esperienze e con le prove implacabili di quei luoghi.

Più passavano i mesi, più Ethan perdeva un po' del suo fascino esotico. Non come succede per gli amori estivi adolescenziali, a me piaceva ancora tantissimo, ma, ricordo come lo desiderassi diverso. Percepisco ancora la rabbia impotente farsi strada dentro di me al pensiero che lui non avesse la mia stessa necessità di sapere e scoprire.

«Perché non studi? Perché non vuoi elevarti a qualcosa di più di un comune lavoratore in miniera, un cacciatore o un falegname?» gli chiedevo.

«Cos'hai contro un lavoratore in miniera, un cacciatore o un falegname? Sono mestieri onesti» rispondeva.
«Niente, ma potresti fare qualcosa di diverso».

Desiderare di più.

Non puoi instillare nella mente altrui le tue ambizioni. Non puoi plasmare gli altri come vorresti che fossero. Lo imparai a quindici anni. Tuttavia, non sfruttai quella nuova lezione di vita nel modo migliore possibile. Non ne fui capace.

In questi casi, la giustificazione è siamo troppo diversi, seguito da un meriti di più.

Mi pare che usai proprio quelle esatte parole quando arrivati al bivio, svoltai, incamminandomi in una strada nuova senza aspettarlo né guardarlo. Lo lasciai indietro.

Nel corso degli anni che seguirono, ebbi molto tempo libero per ripensarci e pentirmene.

Di quei tempi andati, Ethan non era il solo tarlo che mi tormentava. Avevo anche il ricordo di una bizzarra leggenda che imperversava in ogni casa di quella piccola comunità alaskiana e che, una volta averci sbattuto il naso contro, non riuscii più a dimenticare.

Riguardava il mito degli orsi mannari.

Prima di andare a vivere in Alaska avevo sentito parlare dei lupi mannari e solo per colpa, o merito, dei film di Twilight. La prima volta che pronunciai l'espressione "orso mannaro" scoppiai a ridere, consapevole dell'assurdità di ciò che stavo dicendo. Tuttavia, proprio in quei luoghi imparai presto a parlarne con più serietà e rispetto.

Nel raccontarvi di quei giorni andati, mi tornano alla mente i primi avvistamenti, perlopiù devastazioni, e come crearono scompiglio tra la gente del posto nonostante, in teoria, fossero persone non facilmente impressionabili.

Per molti mesi passai le mie gelide giornate a chiedermi se il mito degli orsi mannari fosse una storiella da dare in pasto ai bambini alaskiani o una pericolosa realtà.

Con un sorriso nostalgico, rammento come ci eravamo divertiti, io ed Ethan, a indagare per scoprire cosa si nascondesse dietro a quei continui attacchi. E come rimasi delusa quando, alla fine, non avevamo trovato niente di sovrannaturale ad attenderci.

Eppure qualcosa c'era stato di insolito in quei boschi fitti, ma non avevo avuto il coraggio di confidarmi né con il mio ragazzo né con nessun altra persona.

Avevo finto che tutto fosse tornato alla normalità e avevo ripreso a seguire i ritmi dettati dalla mia adolescenza.

Il ritorno alla solita routine, però, fu devastante per me. Negli anni ho capito che l'inquietudine è sempre stata parte del mio DNA, un'eredità paterna che, purtroppo, non mi ha portato molta gioia.

Tuttavia, all'epoca, il fatto che Ethan non condividesse il mio stato d'animo, mi apparve insopportabile. Mi torna alla mente il muro invisibile che iniziò a separarci, la vicinanza fisica non bastava più per fronteggiare il baratro emotivo che cresceva ogni giorno. Era come se le nostre anime fossero divise da una barricata intangibile, fatta di parole non dette, paure nascoste, frustrazioni e brevi moti di rabbia insensati.

Un intimo muro di Berlino con le nostre personali versioni di Checkpoint Charlie, pseudo posti di blocco emozionali, che ci impedivano di vivere la nostra storia d'amore liberamente.

Anche se non c'erano fili spinati, il muro invisibile rifletteva la divisione profonda che si era creata tra noi. Ciò che mi sconcertava in quelle settimane che precedettero il mio allontanamento, fu la netta percezione che ebbi di essere la sola a sentire la pesantezza di quella trappola in cui eravamo precipitati. L'unica che riusciva a vedere quelle barriere sempre più alte per essere scavalcate.

Trovarsi vicini e sentirsi sempre più distanti, fu intollerabile per me e separarmi da lui fu una conseguenza quasi naturale. Dimenticarlo, però, si rivelò ben presto impossibile. Ethan era diventato il fantasma di quegli anni e non smetteva di perseguitarmi. Lui e quelle leggende mi erano entrati dentro e più mi allontanavo, più loro si fossilizzavano nella mia anima. La monotonia che avevo tanto rifiutato e che mi aveva portato a fuggire, era diventata la mia unica prigione.

Siamo troppo diversi.

Meriti di più.

Ho fatto una mega cazzata.

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