Hikikomori

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In queste giornate che lente ed inesorabili mi scorrono addosso, nella delusione di un'attesa senza più pretese, utilizzo il tempo nell'unico modo che mi riesce di fare: riflettendo sulla mia attuale condizione.

E' pomeriggio ma indosso ancora il pigiama, le persiane alle finestre sono ancora chiuse dall'ultima volta in cui ho smesso di aprirle. Solo la piccola finestra accanto alla mia scrivania non ha persiane ed è rimasta aperta e come faccio ormai da più di trenta giorni, rivolgo il mio viso al fascio di luce che vi penetra attraverso, filtrato dalla pellicola opaca che anni fa avevo incollato per schermarmi dal sole.

Non posso vedere fuori ma la luce che si irradia è sufficiente a trasmettermi un po' di quel calore di cui la mia pelle sembra ormai avere sempre più sete.

Tutt'intorno è silenzio e se non fosse per il passo pesante del vicino di sopra potrei pensare di essere rimasto davvero solo; e mi sorprendo nel rendermi conto che la cosa non mi dispiacerebbe affatto.

Questo hikikomori involontario in cui mi ritrovo costretto in fondo non è niente male, mi ci potrei anche abituare. Un isolamento sociale senza precedenti che mi permette finalmente di concentrarmi su me stesso: lontano da tutto e da tutti, dai convenevoli tran tran del quotidiano, dalla corsa al tempo risicato che non resta mai abbastanza a fine giornata, dai lavori inconclusi e spesso inconcludenti, dagli insipidi incontri scanditi da sguardi vacui e cervelli persi altrove.

E se questo mio isolamento potesse continuare anche dopo la fine di tutto questo? Perché no, quando tutti saranno di nuovo immersi nel vortice della routine, gli altri torneranno ad essere meno evidenti e gli stessi che abbiamo imparato a notare nelle poche ore d'aria concesse oggi, domani scenderanno di nuovo all'ultimo posto che gli abbiamo sempre e solo concesso; perciò non credo che qualcuno noterebbe la mia assenza come io non noterei quella degli altri.

Ma se poi un giorno dovessi stancarmi anche di questa mia nuova condizione? In fondo siamo fatti per essere perennemente insoddisfatti di ciò che abbiamo e desiderosi di ciò che non ci è concesso, per cui il ripensamento potrebbe essere più che lecito.

Come tornare indietro? Come guarire se mi stancassi di vivere protetto nel mio bozzolo? Dovrei trovarmi una cura, una sorta di vaccino da iniettarmi, qualcosa che mi contamini ma con lo scopo di farmi stare meglio, che mi dia la giusta dose di dipendenza capace di strapparmi dalla condizione di recluso eremita.

Ma cosa potrebbe mancarmi a tal punto da spingermi a sentirne la mancanza e desiderare di averne ancora? Il vedere dal vivo ad esempio, il toccare con mano, il sapere di nuovo.

Mi mancherebbe scoprire luoghi mai visti, vivere in prima persona la storia di paesi lontani, sentire lo spirito di un concerto dal vivo, vivere il palco insieme ad un attore, cogliere il pensiero di un artista dietro al tocco di colore impresso sulla sua tela.

E poi mi rendo conto che tutte queste cose sono cose che implicano normalmente la presenza di altre persone, quelle stesse persone che adesso quando incrocio guardo a distanza con timore; un tempo avevano condiviso involontariamente con me le esperienze che hanno fatto la mia cultura.

E forse è proprio quella la chiave di volta, l'elisir per la nuova vita: un vaccino culturale che spezzi l'incubo del nostro attuale hikikomori, iniettandoci la fiducia in un nuovo inizio migliore.

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