Golden days | Gojo x Geto

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Gojo Satoru non si sarebbe mai aspettato di una svolta simile alla storia.
Accumulava stupori, li collezionava senza volerlo.
Era stato sigillato, e a giocare quella mossa sporca era stato proprio chi meno era sospettabile.
Colui che doveva essere solo un fantasma impegnato ad invadere e torturare la sua mente.
Colui che doveva avere vita solo nei suoi ricordi.
Colui che aveva fatto davvero battere il suo cuore.
Quando se lo era visto davanti, con quel sorriso giocondo in viso, sarebbe volentieri scoppiato a piangere. E invece lo squadrò stupito e sorrise anche lui. In ogni caso era tardi per controbattere. Non poteva fare nulla se non arrendersi.
Si scambiarono qualche parola. Gojo e qualcun altro, s'intende. Quello che aveva davanti non era colui che era stato il suo amato; quello era il suo corpo con la mente di qualcun altro.
L'unica cosa che gli restava da fare era arrendersi e farsi sigillare. Lo avrebbero liberato. E lui voleva fermarsi e ricordare i suoi giorni d'oro, piangendo un po' su ciò che era stato e che non sarà più.
Ricordava troppo bene quegli occhi scuri e profondi, quegli occhi che davano la sensazione d'essere fatti di cielo notturno.
E i capelli neri e lisci, lunghi e talmente morbidi da sembrare inchiostro, tanto che Satoru temeva di sporcarsi di nero ogni volta che passava la mano attraverso la chioma di Geto Suguru.
Il viso pallido, con gli zigomi evidenti e gli occhi stretti e taglienti come lame.
Ricordava ogni tratto di Geto Suguru, conosceva la sua immagine a memoria, talmente tante erano le volte che lo aveva raffigurato.
Sorrise tra se e se, pregando gli dei in cui non aveva mai creduto che nessuno entrasse in quella stanza che gelosamente custodiva. Non gli importava del giudizio altrui, ma lo intimoriva un poco l'idea che si sarebbero fatti di lui tutti gli altri vedendo quella stanza.
Perchè, vi starete chiedendo?
Era una stanza di sei metri e mezzo per ogni lato. Il parquet di legno d'ebano, scuro e lucido, era macchiato e schizzato di colore, vernice, acrilico o tempera che fosse; coperto di resti di gomme e matite usate ed abbandonate; pennelli spezzati o troppo rovinati per essere utilizzati ancora; e carboncini e gessetti, spezzati o schiacciati o polverizzati e gettati via.
Le pareti di quella stanza erano simili al colore della terracotta, costellate da tele con raffigurato sempre lo stesso, medesimo soggetto dai lunghi capelli neri.
In quella stanza, più simile al cuore della casa di Satoru che ad altro, le tele già utilizzate erano ovunque: impilate l'una sull'altra disordinatamente o dalla più grande alla più piccola, accatastate addosso ai muri. Mentre le tele bianche e linde erano posate proprio davanti alla porta della stanza, per impedire venissero sporcate dal colore che volava ovunque quando Satoru gettava sul bianco i colori di Geto Suguru.
I colori del soggetto dei dipinti non cambiavano quasi mai. Lo sfondo, se esso era presente, era quel poco che cambiava. Poteva essere una classe, il cortile o il dormitorio dell'Istituto di Arti Occulte, ed in quel caso il grigio pietra e il verde delle gemme sugli alberi era ciò che saltava all'occhio; se invece era in città, l'indaco e il giallo paglierino erano presenti.
Gli abiti di Geto Suguru invece erano dipinti in turbini confusi o in linee nette miste di blu, indaco e giallo, quasi da ricordare le notti stellate di Van Gogh. La sua pelle era di un colore talmente chiaro da farlo sembrare un cadavere. Proprio ciò che doveva essere.
Ma la verità era che Gojo Satoru ormai distingueva solo i colori della figura di Geto Suguru. Il resto non contava più.
Entrambi erano consci di quel tacito giuramento che avevano fatto: "se vai via e mi volti le spalle ti ucciderò come se fossi nessuno."
Loro si amavano sulla base di quel giuramento. E allora, perchè Geto Suguru gli aveva voltato le spalle?
Non se lo spiegava. E Gojo Satoru dovette dolorosamente mantenere fede al suo giuramento.
Geto Suguru si spense per mano di Satoru, in un pomeriggio d'ottobre, tra le pareti spoglie e rovinate di un vicolo della periferia di Tokyo.
Perchè Geto Suguru aveva deciso di gettare via quei magnifici giorni d'oro? Perchè?
Tutti quei ricordi che Satoru credeva indelebili, erano diventati come castelli di sabbia costruiti sulla riva, pronti a sgretolarsi alla prima onda.
Quella silenziosa serata che era mutata in un ballo improvvisato tra i divani di una saletta dell'Istituto; quel bacio così bello e dolce che Satoru aveva desiderato tanto; il loro amore; tutto, tutto era diventato fragile.
Ma Satoru non avrebbe mai e poi mai lasciato andare quei ricordi così belli. Mai. Anche a costo di rimanere soffocato dal dolore e dalla tristezza. Aveva giurato di dipingere il viso che tanto amava ogni volta che poteva, per preservarne la memoria illesa dal tempo.
E avrebbe tanto voluto che anche Suguru gli promettesse una cosa del genere.
In certi giorni talmente grigi, arrivava a pensare che Geto non l'amasse più. Che non l'avesse mai amato.
Quella era la sua paura più grande, ma non aveva avuto il coraggio di confessarlo, quando Yuji gli aveva chiesto il suo timore più grande.
Perchè Geto Suguru era andato via? Satoru non era abbastanza per lui? Non era felice? Non lo amava più? Voleva farlo soffrire?
Non lo capiva, o forse non lo voleva capire.
Preferiva il beneficio del dubbio.

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