I Bet You Look Good On The Dancefloor

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[ Lenora/Arvin accennata - The Devil All The Time - Missing Moment ]

«Anima punk, occhi di Peter Pan

Una poesia dentro al cesso di un bar

Una canzone che non finirà»

La Storia Infinita - Pinguini Tattici Nucleari

•••

È il frinire delle cicale, che sancisce l'inizio dell'estate. L'unico rumore nel raggio di chilometri che fanno sembrare quella cittadina quasi più accogliente. Una mera bugia, celata in minuti di calma che durano il tempo di un battito di ciglia; fa così caldo che nessuno ha voglia nemmeno di parlare; neppure si guardano. Ognuno è immerso in quello che è l'attimo di riflessione prima del tramonto. Prima che il sole porti la notte su quella radura e ceda il passo al sonno, al riposo e agli incubi.

Lenora stringe tra le mani un foglio di carta. Si sventola la faccia accaldata, mentre fissa la credenza della cucina, seduta su una sedia che scricchiola ogni volta che muove un muscolo. Il vestito a fiori le si è appiccicato alle gambe sudate. Lo scolla dalla pelle pizzicando la stoffa; quasi diventa un tic nervoso, mentre lo sguardo resta lì, fisso nel nulla, a contare quante crepe ci sono sul vetro della credenza e, all'interno, il riflesso di Emma.

Ha gli occhi fissi oltre la finestra; guarda rondini che si rincorrono tra le foglie degli alberi. Così alti che il cielo quasi lo toccano. Emma pensa spesso, forse sempre, ma non racconta mai cosa le passa per la testa. Si chiude nel passato e non lo libera mai. Lo tiene dentro, come un brutto male. Come se, lasciare che esca via dalla bocca, possa rompere qualcosa che è già spaccato da tempo.

Lenora sospira. È un suono debole, ma in mezzo al silenzio si infrange tra le pareti di quella vecchia casa. C'è odore di farina e di terra, attaccata a verdure abbandonare nel lavandino e non ancora lavate. La cena di domani sera. Arvin la odierà, ma fingerà come sempre che gli piace tutto.

Lo guarda. Ha la schiena premuta contro il frigorifero. Una sigaretta stretta tra le mani e lo guardo basso. Non è mai per vergogna o per tristezza, è per qualcosa che lo cattura dentro e lo piega. Non se ne accorge nemmeno, certe volte, di quanto il suo corpo parli al posto di quel suo perenne distacco da ogni cosa. Eppure è così caro, gentile; il suo cavaliere senza macchia, che la difende a pugni nudi, con le nocche perennemente spaccate dal contatto violento con gli zigomi di persone crudeli, che la trattano come se non fosse nient'altro che una bambola brutta. Arvin non le dice mai che è bella, ma i suoi occhi glielo fanno capire che anche se non lo pensa vuole che lo creda. Ce la fa sentire, quasi, una principessa incantevole. Sorride a quel pensiero, e torna a guardare il vetro opaco della credenza. Dopo ogni istante, catturati al suo interno, ha colori diversi dati dal sole che cambia sfumature al cielo, mentre si accascia dietro la collina.

La cucina è bagnata di rosso e oro. Sembra quasi che Dio l'abbia appena occupata col suo amore. Ma Lenora a Dio pensa sempre meno spesso, e sempre più ad altro. Al cuore che le batte ogni volta che un sorriso raro si spalanca sul viso di Arvin, mentre la guarda.

«Ho sonno. Lo so, è presto, ma ho sonno!»

Emma spezza il silenzio. Parla come se già sapesse che qualcuno farà una battuta su quel fatto. Arvin ridacchia, e dà un altro tiro di sigaretta, prima di buttarla in un bicchiere pieno d'acqua che usa come posacenere.

«Vai a dormire? Fai invidia alle galline», commenta.

Emma gli scocca un'occhiata dura, ma è solo una facciata. Un sorriso le vibra su un lato della bocca.

«Loro dormono da un pezzo. Chiudete le finestre prima di andare o domani ci ritroveremo qualche topo nelle lenzuola. Che Dio possa perdonarmi, quegli animali mi fanno ribrezzo!»

«Dio ti perdona», ironizza ancora Arvin, e la sua fede è sempre più opaca; sempre più sciolta in un mare di acido. Sempre più vaga. Lenora un po' comprende il perché, ma non approva. Sono orfani entrambi, ma laddove lei ha trovato conforto in Dio, Arvin l'ha persa quando ha pensato che lui gli abbia portato via tutto. Come se lo meritasse.

Ma Lenora è convinta che ogni cosa sia un disegno già scritto e che ogni sofferenza porta poi alla redenzione, alla gioia, alla felicità. Qualcosa che, negli occhi di Arvin, ha visto di rado.

Emma bacia le guance di entrambi e si ritira nella sua stanza. I suoi passi stanchi sfumano quando la raggiunge e si chiude la porta alle spalle. Poi torna il silenzio e nessuno dei due lo spezza, perché è quasi piacevole. Dopotutto, quando parlano, spesso finiscono a discutere sulle loro idee contrastanti e, Lenora, questa volta non ha voglia di convincere Arvin che la vita è anche altro, oltre che vendetta e sigarette consumate tra le dita.

È nel momento esatto in cui decide che forse è il momento di andare via e lasciarlo solo, che una musica lieve rimbomba tra le pareti. Emma ha messo su quel vecchio disco e non lo ascoltava da un sacco di tempo. È nostalgica, Lenora lo sa; glielo ha visto negli occhi. Pensa di certo a Willard, oggi molto più del solito. Quanto deve essere difficile, per lei, non pensarci quando guarda Arvin e lo rivede nell'aspetto e nei modi? Forse persino negli occhi. Nel profumo. Nella durezza dello sguardo, e forse anche nella dolcezza che sa riservarle. Dopotutto Arvin ha un sole dentro, sempre oscurato da nubi nere, che sceglie di scansare solo per loro. Per le sue donne, come ama definirle.

È quasi divertente pensare a quelle volte in cui le apostrofa così e zio Earskell gli ricorda che sono anche sue, e Arvin puntualizza che quella è una bugia che si racconta per sentirsi preso in considerazione. Lenora sorride a quel ricordo, dei momenti spensierati che sono una rarità, all'ora di cena, ma che quando si presentano hanno l'odore del mare e sono soffici come un cuscino di piume d'oca.

«Lenora?»

Lei sussulta e si volta a guardarlo. Ha alzata a mezz'aria un'altra sigaretta ancora spenta e, con il viso inclinato di lato, gli dà la sensazione che non sia la prima volta che la chiama. Era distratta. A pensare ad altro. A cose che le mancano.

«Ero distratta», sorride impacciata, e abbassa la testa.

«Ho visto. Fissavi il nulla con un sorriso idiota. Sembravi così felice che quasi mi è dispiaciuto distoglierti», continua lui, e ha una variante nella voce che Lenora ha avuto la fortuna di sentire di rado. Sembra divertito. E a lei fa male il cuore, a sentirli così. Fa così male che vorrebbe soffrire a quel modo per sempre, se quello è il motivo.

«Peró lo hai fatto!»

«Ho detto quasi dispiaciuto!», ribatte lui, poi stacca la schiena dal frigo e quella sigaretta non la accende più. La ripone nel pacchetto e la raggiunge. Le mostra la mano, con un sorrisetto scaltro che gli illumina quel bel viso ribelle e spigoloso che ha. Lenora alza il viso e gli domanda tacitamente che cosa stia facendo. Si tira il vestito per nascondere le gambe, un po' impacciata.

«Emma ha messo su il disco di Young Love e tu non smetti di battere il piede a tempo da quando è iniziata», le spiega e, per quanto sembri così criptico, Lenora ha capito.

Balliamo?

«Come quando eravamo bambini?», chiede e lui sbuffa divertito. Le mostra la mano con insistenza. Impazienza.

«Come se tu fossi mai cresciuta...», ironizza e lei, di fatto, non è nemmeno offesa ma si finge tale. Si contraddice prendendogli la mano e lasciando che la aiuti ad alzarsi. Fa ancora caldo, e fuori perfino la tramontana ha smesso di tirare. C'è solo la musica che fa da contorno a una cucina vecchia, che cade a pezzi, ma che ha ogni odore di casa.

Lui le stringe una mano intorno alla vita, e l'altra la stringe alla sua. Lenora si aggrappa con quella libera alla sua spalla e, con un sorriso impacciato, gli fa cenno che sì, possono ballare. È pronta, anche se goffa. Anche se non è mai stata capace. La consola che Arvin sia pure peggio di lei.

Ridacchia.

Non esiste tempo, né quello che li circonda, né tantomeno quello dei loro corpi. Sono solo movimenti lenti, occhi che si incontrano, sorrisi deboli che scoppiano dentro. Come una bomba nell'anima. Qualcosa che scalda le vene e raffredda la testa.

«Com'è andata oggi? Ti hanno importunata?», chiede lui, ma è così tranquillo che sembra già conoscere la risposta. Certo che la sa! Ovvio che la sa!

«No, nessuno. Anzi», esordisce Lenora, poi rilascia un leggero sospiro, prima di alzare un sopracciglio. «Ho sentito che Gene Dinwoodie è stato aggredito e suo padre dice che non vuole dire chi è stato. Ne sai qualcosa?»

«No, perché dovrei?» Arvin risponde troppo lapidario; in modo troppo svelto per averci anche solo pensato. Come se Lenora non conoscesse ogni singola sfumatura delle sue bugie. Come se Lenora non conoscesse abbastanza quello sguardo che si stacca dal suo e finge indifferenza, e che invece è fin troppo consapevole.

Non è contenta di quello che Arvin ha fatto a Dinwoodie, ma dentro di lei si sente rincuorata dal fatto che, probabilmente, né lui né tantomeno i suoi amici la toccheranno più. Non le faranno più del male, ma a che prezzo? L'anima di Arvin è di nuovo macchiata di scuro, di catrame – bolle di petrolio che esplodono e colano lungo la sua schiena. Formano ali nere che hanno lo stesso colore del diavolo.

«Per difendermi. Sarebbe bastato pregare. Pregare per la loro redenzione.»

«Magari hai pregato abbastanza e quel figlio di puttana si è beccato la punizione divina che meritava. Te l'ho detto, io e Dio non andiamo d'accordo, ma tu lo invochi abbastanza per entrambi.»

«Non è lui che ti ha mandato per dar loro una lezione. Sei tu che sei troppo impulsivo», lo riprende, ma non è arrabbiata. Continuano a ballare, come se solo questo potesse calmare tutto l'astio che a volte li divide così tanto.

Arvin alza le spalle. «Anche fossi stato io, se lo meritavano. Non è impulsività. Questo si chiama occhio per occhio, dente per dente

«Ma Dio dice porgi l'altra guancia

«Non il mio Dio, Lenora. Forse il tuo.»

La conversazione sembra finita lì, e per un attimo si fermano e si guardano. C'è sempre qualcosa che li divide, ma più di tutti è sempre la fede. Sempre Dio, che per Lenora è una luce che ricuce strappi nella speranza e per Arvin è solo un intralcio, laddove lui tenta di farsi giustizia da solo come può. Perché Arvin può, ne ha la possibilità, il coraggio. Lei si inginocchia e prega, lui fa camminare le gambe e agisce.

Poi Arvin sospira e ricomincia a dondolare, senza lasciarla mai. Lenora si fa guidare in quella danza senza cura, che però ha il potere di riempire dei vuoti. Quelli che, di solito, portano solo il silenzio e da cui lei scappa, lasciandolo solo.

Arvin sarà pure il Diavolo, quello che sin da bambina vede tutto il tempo, ma la salva ogni volta. Arriva in suo soccorso, quando prega che nessuno le faccia più del male. Lui compare dal nulla, a volte, prende calci e pugni ma ne elargisce altrettanti. Combatte finché ha fiato in corpo. Combatte finché non gli cedono le gambe. Combatte per lei, solo per lei. Dopotutto anche Lucifero, una volta, era un Angelo...

Sorride mesta. «Grazie mille.»

«Di cosa?»

«Per quello che dici di non aver fatto», dice, e lui alza un sopracciglio, prima di ridere di gusto, reclinando la testa all'indietro. Una parte di Arvin che ha la fortuna di poter vedere, non così spesso, ma abbastanza per come è fatto.

Poi lui la abbraccia. La stringe forte, mentre ride ancora e lei lo segue a ruota, debole, felice. Ballano ancora, dondolano lentamente in mezzo a quella cucina, poi la musica cessa e restano così, fermi. Lei con il viso nascosto nel suo petto e lui col mento appoggiato sulla sua testa. Sospirano entrambi, poi si guardano e c'è una leggerezza, nell'aria, che a Lenora fa quasi dimenticare che Dio esiste. Le fa dimenticare persino che, a volte, lei e Arvin proprio non riescono ad incontrarsi.

Quando succede è come una magia che ha la durata di un attimo, e anche stavolta è così. Lui le bacia la testa; resta attaccato alla cute dei suoi capelli per un tempo infinito. Così tanto che Lenora sente il viso in fiamme; poi le alza il viso con due dita, le lascia un altro bacio sulla fronte e, con un sorrisetto che sa di cose che nessuno dei due conoscono, si stacca da lei.

«Buonanotte», dice solo e, mentre tira fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca e picchietta il fondo per far uscire una sigaretta, si gira e raggiunge la porta. Se ne va, come sempre, e la lascia lì, sola e piena di domande e nemmeno una risposta.

Lenora è distrutta, ogni volta che quella corda che per un po' non è tesa, alla fine si spezza. Li divide ancora, li rende ancora gli orfani di Emma e nulla più. Si siede di nuovo su quella sedia che scricchiola, si nasconde le gambe tirando la gonna e poi si posa una mano sul cuore. Batte così forte che ha la sensazione che presto si fermerà e la ucciderà.

Non è l'amore per Dio, quello non è doloroso e non le mette paura. La illumina, la irradia, la riempie di luce.

Il nero che sente dentro fa male al cuore, alla pancia e alla testa. Eppure si sente leggera allo stesso modo, sebbene a riempirla sia buio e terrore.

È Arvin che la fa sentire così e, come ogni peccato del mondo, non può fare a meno di restarne affascinata, conscia che presto, tutto questo amore che ha da dare, la dilanierà.

Arvin dopotutto sa solo distruggere. Lo farà anche con lei, prima o poi, ma almeno sarà dolce.

Fine

«Sembrava 'La Storia Infinita' e forse era solo la felicità» 

La Storia Infinita - Pinguini Tattici Nucleari

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