Se non fosse in disuso sarebbe un'usanza

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Laddove si narra di come la disarmante ovvietà del maresciallo de La Palice sia riuscita a far digerire ai recalcitranti soldati un uso e costume assai bello ed eroico sulla carta, ma lercio e poco pratico nella realtà.

7 Ottobre 1511

Il maresciallo francese Jacques de Chabannes de La Palisse aveva condotto le sue fanterie sotto le mura di Treviso, a cui conveniva porre l'assedio. Da uomo savio e accorto qual era, tuttavia, aveva imparato che prima d'intraprendere qualsivoglia fatto d'arme conveniva far due cose: la prima, ringraziare il Signore Iddio e raccomandargli l'anima, la seconda, ringraziare la Madre Terra e pregarla che neppure per quel giorno prendesse il suo sangue.

Pertanto, dopo essersi fatto il segno della croce, rivolto ai suoi uomini disse «Baciat la terre! » Era allora il terreno alquanto fangoso, poiché non solo in quei giorni aveva piovuto a dirotto, ma per giunta il provveditore generale Gian Paolo Gradenigo aveva astutamente fatto allagare la campagna, onde rendergli più difficoltosa l'offensiva.

I soldati si ritrovarono pertanto con l'acqua fino alle caviglie, e molti di loro per giunta rimasero con una scarpa sì ed una no, poiché il terreno era divenuto risucchioso in certi punti. Ora, benché i francesi avessero fama di essere soldati rispettosi e franchi, quella volta proprio non vollero saperne di obbedire agli ordini del maresciallo.

« Ma maresciall », protestarono, « dobbem proprio? »

« Bacier! Bacier! » ribadì nuovamente l'ordine La Palisse.

« Nuuu, maresciall, nuuu! »

« Bacier vi diss! Et bacier! »

« Nuuu, per carità, maresciall! »

Innervosito dalle lunghe resistenze, La Palisse sfoderò la spada e gliela puntò contro gridando « Bacier o vi inculer! » Sicché quelli subito, poco allettati dalla prospettiva, « Bacier! Bacier! » deliberarono.

Oramai tuttavia al maresciallo, che avendo sbattuto la fronte nel pitale quella mattina era ancora parecchio delirante, sfarfallava nella testa ben altro ghiribizzo, pertanto « No! »cambiò idea « mo ve incul e ve incul! » Si credeva essere il poveretto, il redivivo Francesco Sforza.

Sicché, terrorizzati all'idea, cadendo a carponi come i maiali di Circe, i soldati baciarono appunto alla francese il terreno, qualcuno pur ingoiando qualche sfortunata rana giusto per confermare certe malignità culinarie con cui sovente i francesi eran sfottuti.

Sogghignando perfido, La Palisse rinfoderò la spada e concluse che per i propri scopi è giusto minacciare un uomo che non vuol esser minacciato, specie di sodomia. Si credeva essere il poveretto, il redivivo Aristotele.

Signor, vi piaccia udire
l'istoria di La Palisse,
che vi potria far gioire
purché la vi divertisse.

El fu in vita poco abbiente
per mostrar la sua importanza,
e pur non mancogli niente
quando fu nell'abbondanza.

Notte e dì saltava in tondo
e figliava come un toro,
poiché avea il capo biondo
non portava il crine moro.

Il viaggiava volentieri
scorrazzando pel reame,
e quand'era a Poitieri
non dormiva nel letame.

Passò l'Alpi da la Galia,
come volse il re Luigi,
né se pugnò in Italia
il combatté a Parigi.

Trastullavasi in battello
come in pace così in guerra,
sempre giva per ruscello
quando non passò per terra.

Il bevea tutti i mattini
el vin da la botte buona,
se mangiava dai vicini
il vi andava di persona.

Quando si sentiva casso
gradiva i cibi teneri,
festeggiò Martedì Grasso
la vigillia de le Ceneri.

Coi suoi bei crini chiari
pareva un faro al molo
né avrebbe avuto pari
se il fosse stato solo.

Talenti n'ebbe diversi
ma si è certi d'una cosa:
quando scriveva in versi
il non scriveva in prosa.

Egli fu, com'è contato,
ballerino assai scadente,
né avrebbe mai stonato
se il fusse stato silente.

E la storia anco vuole
che giamai poté risolvre
di caricar le pistole
sanza aver avuto polvre.

Morto fu de La Palisse
morto fu inanzi a Pavia,
ma poco pria che morisse
l'era in vita tuttavia.

Fu per triste sorte giunto
da ferita assai sleale:
si crede, poi che è defunto,
che tal colpo fu mortale.

Con lui cascò dabbasso
la virtù da Franza ambita,
e fu il dì del suo trapasso
l'ultimo de la soa vita.

(La Chanson de La Palisse, Bernard de la Monnoye)

***

Curiosità: Nessun francese è stato sodomizzato in questa novellina.

Scherzi a parte, l'episodio qui riportato, per quanto esasperato, comunque cita un'usanza documentata dei Francesi prima di combattere.

È questa che avete letto una nostra libera traduzione de La Chanson de La Palisse di Bernard de la Monnoye. Poiché infatti la canzonetta merita, ma la traduzione fino a ieri disponibile non le rendeva giustizia, abbiamo deciso di tentarne una noi in rima seguendo lo schema di ottenari e il senso dell'originale, con l'aggiunta di due strofe (terza e quinta, per il cui contributo ringraziamo a proposito Hoel) e l'omissione dell'ultima, a nostro parere superflua. (Hoel aggiunge che Semperinfelix è fin troppo modesta, a lei va gran parte del merito di questo riadattamento.)

Si dice (Hoel lo dice) che il maresciallo de La Palice fosse solito uscirsene con affermazione assai scontate, da qui il significato odierno di lapalissiano. I Diarii di Marin Sanudo ne riportano alcune, tra cui lo stesso commento del maresciallo a fine dell'impresa di Treviso. Sconfitto dai Veneziani, un rammaricato La Palice infatti affermerà: Questa città è inespugnabile perché non può essere presa con l'assedio.

Altra ipotesi è che l'origine dell'aggettivo derivi da una errata interpretazione di una strofa composta alla sua morte:

«Hélas ! la Palice est mort,
il est mort devant Pavie ;
Hélas ! s'il n'estoit pas mort,
il feroit encore envie.»

la s antica era infatti graficamente identica alla f, e perciò i posteri lessero seroit al posto di feroit, ed en vie al posto di envie, di conseguenza dal significato originale di se non fosse morto, farebbe ancora invidia usciva fuori un se non fosse morto, sarebbe ancora in vita.

Jacques II de Chabannes de La Palice (1470 -1525), brevemente, fu maresciallo di Francia e uno dei condottieri protagonisti delle Guerre d'Italia, assieme a La Tremoille, il Cavalier Baiardo, de Ligny, etc. a seguito di Carlo VIII prima, Luigi d'Orléans poi e per finir con Francesco I anche perché, come gran parte della nobiltà francese, ci lasciò le penne a Pavia nel 1525.

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