Capitolo 1. Il brusco risveglio dell'agente Collins

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Jacob Collins si svegliò in preda ai tremori e madido di sudore.

O, almeno, fu la prima cosa a cui pensò: si sentiva le braccia scosse da una forza che non riusciva a identificare e, con la mente ancora annebbiata a causa del brusco risveglio, l'unica spiegazione possibile era un incubo notturno, uno di quelli che gli capitavano da quando si era... da quando si era preso un periodo di vacanza.

Eppure c'era qualcosa che non tornava e il suo cervello, man mano sempre più sveglio, iniziò a mettere insieme dettagli curiosi: il letto sotto di lui traballava, così come l'armadio, il comodino e i quadri di nonna Catherine appesi alle pareti della stanza. Per quanto fossero violenti quegli episodi, era impossibile che fosse lui la causa di quel terremoto.

Calciò via il fine lenzuolo e si mise seduto sul materasso, sbattendo le palpebre più volte per ricacciare il più velocemente possibile i postumi del sonno. Era ormai evidente che non fosse soltanto il letto, o la stanza, a traballare: i vetri dell'ampia finestra ondeggiavano come se sottoposti a una pressione incredibile dall'esterno e, proprio mentre Jacob tentava di mettersi in equilibrio sul ciglio del letto, lo specchio inchiodato alla parete crollò al suolo con un fracasso di vetri infranti.

«Ma che cazzo!» proruppe Jacob, appoggiando i piedi per terra alla ricerca di equilibrio, invano.

Il pavimento sembrava inclinarsi a destra e a sinistra, come se qualcuno avesse alzato di peso la villetta di sua madre e l'avesse scaricata sull'oceano, lasciandola lì a barcamenarsi in mezzo al mare in tempesta.

Era ancora seduto sul bordo del materasso, alla ricerca della sicurezza per provare ad alzarsi sulle gambe, quando arrivò il boato.

Partì come un cupo brontolio, molto simile a un tuono di un temporale che si allontana, per poi crescere d'intensità nel giro di pochissimi istanti. I cristalli della finestra esplosero e Jacob cacciò un grido, scattando in piedi e coprendosi il volto con le mani, appena in tempo per proteggersi da una nube di minuscole schegge che si diffuse nell'aria.

L'armadio si rovesciò contro il pavimento con un tonfo che Jacob notò appena in mezzo al frastuono del fragore prolungato che continuava a farsi sempre più acuto. Un fulmine poteva essergli caduto dritto in testa da quanto il rumore era vicino e potente, così violento da sentire le vibrazioni diffondersi intorno al corpo.

Poi arrivò la luce a fendere il vuoto che i vetri esplosi avevano lasciato. Luce bianca, gelida e malevola, ben diversa da quella gialla, calda e accogliente del sole.

Jacob, in punta di piedi per provare a non calpestare le schegge di vetro disseminate a terra, ondeggiò fino al davanzale e guardò fuori, mentre una bestemmia gli scivolava fuori dai denti serrati.

Gli edifici di Elizabeth City erano illuminati a giorno da un minuscolo ma accecante sole bianco che si allungava nel cielo, oltre la coltre di nubi che nascondeva la volta notturna.

Al di là della distesa di tetti lucidi della città, l'antico cannone si protendeva verso l'alto, come un purulento rigonfiamento della crosta terrestre. Quella mole tondeggiante e imponente era rischiarata dalla luce innaturale e il suo dorso metallico lucido rifletteva il chiarore, tanto da conferirgli un aspetto diverso rispetto a quello a cui Jacob e gli altri locali erano abituati. Era stato lì per più di cento anni, silenzioso e immoto; una piccola collina metallica, un gatto meccanico acciambellato accanto alla piccola cittadina che sorgeva sulle rive del fiume Pasquotank. Eppure, a vederlo così, pareva una bestia organica, viva e minacciosa, brillante e stupefacente, pronta a protendersi sulle case silenziose per nutrirsi dei viventi ignari che avevano sostenuto la sua vicinanza per oltre un secolo.

Era chiaro, Jacob se lo sentiva fin in fondo all'intestino: quel suono era stato generato dall'antico cannone. Era il ruggito di un immondo demone dell'abisso risvegliatosi da un letargo durato decenni. Le gambe iniziarono a tremargli e si ritrovò a stringere il davanzale tanto forte da sentire le unghie scricchiolare contro il legno laccato.

Con gli occhi spalancati e dilatati dal terrore, osservò il globo di luce bianca allontanarsi sempre di più nel cielo, e la luce farsi sempre meno intensa. Poteva quasi essere una stella caduta che aveva deciso di spiccare il volo, lasciare la Terra e tornarsene in cielo.

Il fragore si azzittì dopo qualche secondo e il suolo smise di tremare, ma la sensazione di pericolo che lo circondava rimase lì, palpitante e crepitante nell'aria: gli annunciava che non era ancora finita.

Così, mentre la città tornava lentamente a lasciarsi sommergere dal buio della notte, Jacob fu lesto a reagire quando un'esplosione, secca e lontana, annunciò il tragico finale di quel curioso episodio notturno.

Vide in lontananza i tetti delle abitazioni alzarsi in aria, strappati da una forza invisibile che si dipanava attraverso tutta la cittadina. Gli alberi si piegarono di novanta gradi e quelli con le radici più deboli si trovarono a volare in aria, divelti dalla mano invisibile che stava schiaffeggiando Elizabeth City.

Jacob trattenne il fiato e si buttò a terra, riparandosi sotto il davanzale solo pochi istanti prima che quella forza sovrannaturale si abbattesse sul suo quartiere. Sentì sbattere. Il muro di legno sembrò come gonfiarsi contro la sua schiena e il pavimento ricominciò a tremare. Rumore di altri vetri che esplodevano, fracasso di mobili rovesciati. Qualcosa sbatté contro il tetto e aprì una voragine nel soffitto dalla quale piovvero, a pochi metri da lui, frammenti di legno, rametti e terriccio.

«Porca puttana!» urlò Jacob, rannicchiandosi contro la parete e coprendosi con le braccia la testa e il viso.

Rimase così anche quando il fragore e la scossa cessarono. Trovò il coraggio di abbassare gli arti soltanto dopo un numero indefinito di respiri affannosi. Il cuore gli batteva così forte che temeva sarebbe esploso a momenti.

Non aveva avuto così tanta paura neanche la sera dopo l'episodio, quando la consapevolezza di ciò che aveva fatto gli si era riversata addosso.

Si alzò, tremolante e circospetto, e osservò la camera: il pesante letto aveva mantenuto la sua posizione originale, ma tutto il resto del mobilio era crollato a terra e dal buco nel soffitto spuntava il nodoso tronco di un albero, con radici annesse.

Abbassò lo sguardo sul corpo seminudo e si accorse solo in quel momento dei tagli superficiali e delle abrasioni che gli costellavano, per fortuna, soltanto le braccia; non sentiva alcun dolore, l'adrenalina doveva aver agito da potentissimo anestetico. Da fuori dalla finestra divelta giungevano grida sommesse e rumori smorzati e lontani, portati a lui da un alito di vento che si era alzato e che gli trasportava alle narici un acre odore di bruciato.

«Cazzo, cazzo, cazzo...» disse, muovendosi a tentoni nel buio alla ricerca di punti non coperti da pericolosi pezzi di vetro.

Un paio di volte appoggiò il piede nudo su un frammento appuntito, ritraendolo appena in tempo con un insulto alla prima divinità che gli venne in mente. In quelle condizioni fu un'impresa trovare la lampada a olio che era rotolata a terra quando il comodino si era ribaltato.

Rovesciò il mobiletto sul pavimento per trovare il cassetto e rovistò all'interno alla ricerca dei fiammiferi; ne spezzò un paio per colpa delle mani tremanti e, al terzo tentativo, riuscì ad accendere lo stoppino. La luce illuminò ancora meglio il disastro in cui si era tramutata la stanza.

Aiutato dalla luce, gli fu più facile raggiungere il comò e rimetterlo in piedi contro la parete; aprì un cassetto ed estrasse una camicia pulita e uno dei due Jeans che si era portato dietro per quel breve soggiorno a casa di sua madre. Si vestì di fretta, calzò delle scarpe di tela bianche e fece per dirigersi verso la porta, quando l'occhio gli cadde su ciò che prima aveva ignorato: la sua arma federale giaceva lì, avvolta nella fondina scura e semi nascosta da una maglietta.

Da quanto tempo non la impugnava? Quanto tempo era passato da quando... da quando...

"Mi basta farne un altro, sai? Giù al sud sono così facili da vendere."

La faccia ghignante e contratta dalla follia che lo perseguitava ormai da quasi un mese gli balenò davanti. Strinse i pugni intorno all'aria, con la stessa forza con cui quel giorno aveva stretto la pistola e l'aveva rivolta contro quel diavolo travestito da uomo.

Prese fiato e regolarizzò il respiro, proprio come il Dott. Fitzgerald gli aveva insegnato. Era bravo, il Dott. Fitzgerald: aveva sistemato molti colleghi che erano caduti in crisi di nervi come la sua, vittime di orrori che soltanto chi faceva un certo lavoro si trovava ad affrontare.

Sì, era bravo, Amos; davvero bravo, tanto che Jacob sembrava essere tornato in forma già dopo due settimane di sedute, ma l'agenzia gli aveva comunque imposto un periodo più lungo di pausa. "Per scaricare un po' di ferie arretrate, non per altro," come aveva detto il suo supervisore, con un sorriso di cortesia così falso da sembrare verniciato sul volto.

Con il senno di poi, il capo aveva anche ragione: Jacob non era ancora pronto a tornare a impugnare quell'arma. Non lo era due settimane prima, così come non lo era in quel momento. Pensava che qualche giorno lontano da Washington l'avrebbe aiutato a lasciarsi alle spalle quella storia, era stata addirittura Claire a suggerirglielo. Sospettava che anche lei avesse bisogno di alcuni giorni di divisione da lui e da quello che aveva fatto.

L'uomo si passò una mano sulla guancia per asciugare un rivolo di sudore che si era incastrato tra i peli della barba, sfatta da qualche giorno, e tornò a fissare l'arma. Era uno strumento, nient'altro che uno strumento assoggettato alla sua volontà: era lui che comandava, nessun altro.

Sospirò e afferrò la fondina. Era più leggera di quanto ricordasse. Sotto di essa c'era il suo badge identificativo del Federal Bureau of Investigation. Perché non li aveva lasciati a casa? Dopotutto era a Elizabeth City per prendersi cura della madre all'ospedale, non gli sarebbero mai dovuti servire pistola e distintivo. Ma non era riuscito a separarsene, quei due oggetti rappresentavano l'interezza della vita che si era scelto. Claire ci scherzava su, ogni tanto: "il matrimonio con Jacob Collins è una specie di relazione a tre," diceva; "ci sono giorni in cui ama sua moglie e altri giorni in cui ama il Bureau."

Intascò il badge e si legò la fondina alla cintura, con la gola secca e le dita incerte. L'arma federale era un macigno che credeva non sarebbe mai più riuscito a sollevare, eppure era stato così semplice impugnarla, anche se solo per pochi istanti.

Imboccò la porta della camera e uscì nel corridoio, gli bastarono pochi passi per trovarsi nel salotto: era devastato forse più della camera da letto. I mobili erano sfondati, i servizi di porcellana della nonna Catherine giacevano in tanti piccoli cocci sul pavimento, schiacciati da credenze e sedie; i quadri erano tutti caduti e alcune tele erano state sfondate dalle mensole che si erano staccate dalla parete, portando con sé piccoli pezzi del rivestimento.

Non indugiò oltre in mezzo alla devastazione del salotto dove l'anziana Agnes adorava spendere i pomeriggi, almeno prima di finire in ospedale per seri problemi epatici. Imboccò rapido la porta d'ingresso e uscì nel vialetto che attraversava il prato ben tagliato e che conduceva in strada.

Non era l'unico: tantissime persone erano già uscite a creare agglomerati di chiacchiere, pianti e domande insistenti. A qualche centinaio di metri lungo Maple Street, un'alta quercia che cresceva nel giardino del Signor Eldafar si era ribaltata sulla sua abitazione a un piano, creando una voragine lungo tutto il fianco della casa.

«Buongiorno, Signor Agente Federale.»

La voce rauca apparteneva alla Signora Khemdur, la vicina storica della madre di Jacob e causa principale dei suoi frequenti problemi al fegato. Era bassa anche per un nano il suo corpo era tozzo e largo quanto una botte; il volto era rugoso e incorniciato da delle basette scure che scendevano a unirsi a una rada peluria che le cresceva sul mento e sotto la mandibola. Stava seduta sulla veranda davanti a casa sua e osservava le persone avvicendarsi in strada in preda al panico, fumando serafica un lungo sigaro.

«Sta bene, Signora Khemdur?» urlò Jacob, tagliando attraverso il prato per avvicinarsi all'abitazione attigua.

«Non preoccuparti per me, ragazzo,» disse la nana, mettendo mano a un boccale di vetro pieno di un liquido ambrato che doveva essere il famoso whiskey fatto in casa della famiglia Khemdur.

La coppia di nani e il whiskey che producevano nella loro scura cantina erano diventati famosi nel circondario, tanto che nell'ultimo periodo di attività arrivavano persone addirittura da South Mills per comprare alcune bottiglie di quel fortissimo intruglio. Dopo la morte del Signor Khemdur, però, la donna era rimasta sola e aveva deciso di continuare la produzione solo per sé stessa e per gli amici più intimi, tutti quanti appartenenti allo stesso club di bridge al quale, per disdetta, aveva aderito anche Agnes Collins.

«Tutto bene in casa?» chiese Jacob, squadrando la corpulenta nana mentre tracannava in un paio di sorsi metà del boccale.

Lei si asciugò le labbra con il dorso della mano e annuì, tornando a mordere il sigaro.

«Questo è un gran cazzo di casino, Signor Agente Federale,» mugugnò, espirando una nube di fumo scuro e puzzolente.

«I soccorsi arriveranno presto, ne sono sicuro,» disse Jacob, dandole la schiena e facendo per allontanarsi.

«Sai, ero bambina quando siamo arrivati qui, su questo mondo,» disse, alzando la voce per farsi sentire. «Non ho molti ricordi di com'era prima, qui, ma una cosa me la ricordo. Non dimenticherò mai i racconti dei miei genitori sul giorno in cui il cannone sparò per la prima e ultima volta, centoventi anni fa.»

Jacob si bloccò di colpo e indugiò qualche secondo sul sentiero di piastrelle candide.

«Era il cannone di San Francisco, non questo, ma in quello che è successo ora io rivedo i racconti dei miei vecchi,» continuò la nana, fumando senza sosta. «Ed è un gran cazzo di casino.»

Jacob si voltò a est: oltre le sagome degli edifici, avrebbe dovuto vederlo, ma il buio della notte rendeva difficile distinguere persino le case in fondo alla via, complici le fiammelle dei lampioni che si erano spente. L'orizzonte sembrava essere tinto di un curioso bagliore arancio e sinistre colonne di fumo scuro si confondevano con le nuvole plumbee. Il cannone era lì da qualche parte, dall'altro lato di Elizabeth City; oltre le grida e i pianti che echeggiavano attraverso le vie e che arrivavano da lontano.

«Quell'affare non può più funzionare,» protestò, scoccando uno sguardo all'anziana nana dal viso grinzoso. «Sarà stato qualche mago dell'università che ha fatto casino con un incantesimo.»

La donna scosse la testa lentamente, aspirando fumo, mentre gli scuri occhi vispi guizzavano da un lato all'altro.

«Non ti so dire come, ragazzo mio,» continuò lei. «Ma è stato il cannone, te lo posso assicurare. Me lo sento nella pancia, e la pancia di un nano non sbaglia mai.»

Jacob deglutì e fissò la strada a qualche metro: nuove persone erano fluite fuori dalle case squassate da quel misterioso incidente e si erano unite in un campanello sempre più largo. Alcuni lo avevano notato e lo stavano indicando, senza dubbio intenzionati a cercare rassicurazioni dal brillante agente federale che avrebbe risolto la faccenda in un battito di ciglia.

Brillante agente federale un cazzo. Se la stava facendo sotto alla sola idea che la supposizione della signora Khemdur si avvicinasse anche solo di poco alla realtà: un'antica arma costruita con la vecchia tecnologia che violava l'incantesimo globale e si rimetteva a funzionare da un giorno all'altro? No, Jacob avrebbe preferito ricevere notizie di un'invasione di draghi, piuttosto! Quello, almeno, avrebbe saputo fronteggiarlo.

«Non torni in casa, signora Khemdur,» si raccomandò Jacob, tentando invano di mantenere un tono di voce più fermo possibile.

Si tastò la tasca posteriore dei Jeans e posò la mano sul tesserino del Bureau, come se l'oggetto si potesse tramutare nel simbolo sacro di un qualche dio e infondergli forza e coraggio.

Il giovane uomo percorse il vialetto con passo sicuro e con la schiena eretta, perché quelle persone spaventate avevano bisogno di credere in qualcosa e lui era l'unico simbolo di ordine e sicurezza che avevano a portata di mano. Era suo dovere rassicurarli così come lo era catturare i criminali. Già, catturarli...

«Agente Collins! Jacob!»

Una donna sulla trentina lo chiamò dal marciapiede.

Dorothy Autumn, dimenticarsi di lei sarebbe stato impossibile. Era stata la sua prima fidanzatina ai tempi della scuola primaria, quando ancora il dovere e la disciplina erano una chimera relegata ai giorni futuri. Era cresciuta come una bellissima donna, dal corpo formoso ben proporzionato e i lunghi capelli color del miele; aveva sposato un buzzurro della cittadina che lavorava in una forgia gestita da nani, poco fuori città.

«Dorothy, tutto bene?» chiese Jacob, mentre la donna gli si piantava davanti con le iridi castane che riflettevano la luce della lampada a olio.

«Sì, io... io credo, credo di sì. Mark è con Rudy, stanno cercando Wordsworth.»

All'occhiata interrogativa di Jacob, lei abbassò il volto e parve arrossire.

«Il nuovo cucciolo di Rudy,» aggiunse, a mezza voce.

«Sono sicuro che stia bene,» disse Jacob, meccanico, fissandola in viso.

Sfiorandole la spalla, la spostò di lato e alzò la voce per attirare l'attenzione del modesto assembramento a pochi passi da lui.

«Ascoltate, tutti quanti,» esclamò, alzando la lampada. «C'è stato un forte terremoto: non rientrate in casa, potrebbero non essere sicure. Le forze dell'ordine arriveranno a breve e vi sapranno dare indicazioni su come agire.»

Un improvviso alito di vento smosse i capelli di Dorothy e investì il gruppo di persone con un forte olezzo di legno bruciato. Si alzò un brusio sommesso e alcuni tossirono.

«Vado al comando di polizia, voi rimanete qui insieme,» continuò Jacob, ma tentennò sull'ultima parola. A giudicare dagli sguardi dubbiose di alcuni, non doveva essere stato molto convincente.

Si voltò rapido e si allontanò, ignorando il vociare che si era alzato a seguito delle sue parole. Li aveva rassicurati, aveva fatto il suo dovere civile; adesso era giunto il momento di scoprire che cosa fosse accaduto davvero.

Si incamminò a passo rapido lungo Maple Street per imboccare poi lo svincolo che lo avrebbe portato verso il centro città. Qualunque cosa fosse successa, l'origine era stata di sicuro la porzione centrale della cittadina, magari addirittura il fiume o Machelhe Island, dove... già, dove stava il cannone. Perché non riusciva a smettere di pensare alle parole fataliste della nana alcolizzata? Era probabile che fosse la tanica segreta del suo famoso Whiskey a parlare. Eppure Jacob non riusciva a dimenticarsi il quadro che la sua immaginazione aveva dipinto quando aveva guardato fuori dalla finestra: il cannone luccicava e splendeva, pulsava di vita. Era terrificante.

La larga strada lastricata che stava percorrendo era ormai gremita di persone che avevano abbandonato le basse villette e si erano radunate all'esterno. Sembravano un piccolo esercito, ognuno con una lampada o una candela in mano; un piccolo esercito di anime confuse e spaventate.

Continuò di buona lena tenendosi sul ciglio della carreggiata, ma rallentò il passo dopo una decina di minuti per fermarsi a guardare il panorama desolante di quella zona più centrale.

Alcuni vecchi edifici in muratura non avevano più il tetto e diversi muri erano crollati. Delle donne piangevano sedute sul ciglio della via e un cane abbaiava, correndo intorno a un carro rovesciato ormai ridotto in pezzi. La vecchia cisterna dell'acqua era stata sradicata dai suoi sostegni metallici ed era crollata di lato contro una bassa costruzione in legno, costruita da non più di qualche anno, schiacciandola del tutto. A Jacob si attorcigliò lo stomaco quando si rese conto che era casa di qualcuno; qualcuno che, forse, non si sarebbe mai più svegliato.

Continuò verso la sua meta come un fantasma mosso dal vento sempre più forte. I marciapiedi, i prati e la strada erano costellati di vetri, pezzi di legno, rami, arbusti e alcune carcasse di animali; quella non era una zona residenziale, ma manciate di persone si erano trascinate fuori dagli edifici, ricoperti di sangue e con orrende ferite aperte sugli arti. Urlavano e chiedevano aiuto. Dove cazzo era la polizia? E i soccorritori? Possibile che tutta la città fosse in quello stato?

Arrivò allo svincolo con il grande stabile che ospitava il mercato cittadino: incredibilmente sembrava non aver riportato grandi danni se non le vetrate infrante e la grande scritta appesa sopra l'ingresso che era rovinata a terra. Oltrepassò la corpulenta carcassa di un'automobile, domandandosi chi potesse essere il proprietario, e svoltò a destra superando la siepe che cingeva il tribunale locale, ancora sito nell'antico palazzo che aveva resistito al tempo in maniera invidiabile.

L'incrocio su cui affacciava il dipartimento di polizia era gremito di persone. Decine e decine di cittadini si erano accalcati sulla carreggiata e le loro urla si ammassavano a formare un'insopportabile cacofonia di voci, grida e pianti. Mentre Jacob tentava di farsi strada a furia di spintoni e spallate, il puzzo di bruciato, sempre più intenso, si mescolava a quello del sudore umano. Nel giro di pochi attimi, l'agente federale si sentì la camicia zuppa e i capelli madidi.

Uscito dalla bolgia infernale, Jacob si trovò a pochi passi dal basso edificio di mattoni rossi che ospitava la sede del capo della polizia. Le forze dell'ordine avevano transennato il marciapiede antistante l'ingresso per mantenere la folla terrorizzata a distanza. Malgrado fosse tra le costruzioni più antiche (e quindi, per quanto paradossale, più solide) della città, anche il dipartimento di polizia presentava evidenti danni: larghe crepe si erano aperte lungo la facciata, i vetri erano esplosi e porte e finestre erano state divelte fin dal telaio. Un'automobile che portava le insegne della polizie era stata alzata di peso dalla forza invisibile che aveva colpito Elizabeth City ed era andata a spiaccicarsi contro le vetrate del piano superiore, lasciando soltanto le ruote e la parte posteriore a sporgere.

«Sono l'agente Collins, FBI,» disse Jacob, estraendo il tesserino e presentandolo al primo agente che gli passò davanti. «Devo parlare con il capo.»

Il poliziotto, un umano sui quaranta in evidente stato di sovrappeso, si grattò i capelli unticci e lo fissò terrorizzato, prima di annuire e fargli cenno di oltrepassare la transenna.

Anche le forze dell'ordine erano nel panico; Jacob abbandonò del tutto la speranza che le operazioni di soccorso venissero messe in moto in modo celere e ordinato.

Il poliziotto lo condusse lungo il marciapiede e gli indicò un punto all'interno del palazzo subito oltre l'ingresso devastato: Jacob non ebbe difficoltà a riconoscere il capo della polizia, perché sua madre ne aveva fatto un gran parlare qualche anno prima. Secondo lei era uno scandalo che una donna non del tutto umana fosse stata messa a ricoprire un ruolo del genere, perché non ci si poteva fidare dei non umani, come li aveva sempre chiamati.

Nonostante fosse nata in un mondo in cui gli umani non erano più l'unica razza senziente, Agnes era cresciuta con le storie e gli insegnamenti di suo nonno, uomo tutto d'un pezzo che si vantava di aver fatto la guerra più importante della storia del mondo: quella per impedire alla feccia aliena di appropriarsi del suo pianeta. Quelle storie e la guerra religiosa che era esplosa in quegli anni avevano portato la giovane Agnes a maturare un odio viscerale per ogni essere vivente che non fosse umano al cento per cento, odio che era andato scemando soltanto negli ultimi anni, quando lei e la signora Khemdur avevano stretto quella strana relazione che si fondava sull'alcool, sul fumo e sul bridge. Ancora Jacob non sapeva che cosa preferire: una madre razzista ma sana o una più tollerante ma con il fegato spappolato?

L'agente federale varcò l'ingresso e si piantò davanti alla scrivania che qualcuno doveva aver piazzato davanti all'ingresso, oltre la quale il capo della polizia Evelyn Rayne stava discutendo con un alto elfo dal mento pronunciato e dalla pelle incartapecorita.

Evelyn Rayne si sarebbe facilmente mescolata tra gli umani, se non fosse stato per la carnagione lattea e per le orecchie affusolate e allungate verso l'alto. Jacob aveva visto molti mezzelfi durante la sua carriera nel Bureau, ma doveva ammettere che Evelyn era proprio una gran bella donna! Il fisico slanciato e atletico era accentuato ancora di più dall'uniforme che le calzava le curve al punto giusto, e gli zigomi alti conferivano al suo viso un tono esotico che magnetizzava l'attenzione di tutti i presenti.

Lei si voltò a squadrarlo da capo a piedi e gli rifilò un'occhiata perplessa, prima di chiedere:

«Ha bisogno?»

Jacob alzò il tesserino e lo avvicinò al volto della mezzelfa, che si sporse in avanti per leggere con attenzione.

«Agente Jacob Collins, Federal Bureau of—»

«Sì, sì, va bene,» tagliò corto lei, sventolando la mano in aria. «Siete arrivati presto, avete schiere di maghi pronti a lanciarvi in giro per il paese alla prima avvisaglia di problemi?»

Quella stupida faida tra forze di polizia locali e agenti federali non sarebbe mai finita.

«No, in realtà sono qui... in licenza,» rispose Jacob, tornando a nascondere il tesserino nella tasca. «Comunque posso aiutarvi; ne avete bisogno.»

Lei esitò qualche istante e parve riflettere, poi annuì e fece un cenno verso l'anziano elfo.

«Lui è il rettore dell'università arcana, Lorwen Krynn. Alcuni dei suoi ci aiuteranno con i soccorsi.»

Jacob allungò la mano e l'elfo gliela strinse debolmente.

«Alcuni magazzini in riva al fiume hanno preso fuoco e l'incendio si sta spargendo verso il resto del quartiere,» disse, con voce sussurrante e fredda. «Il ponte verso Machelhe Island è crollato e la maggior parte della barche ormeggiate ai moli è a pezzi.»

«Che cos'è successo?» chiese Jacob, appoggiando la lanterna sul tavolo.

«Non lo sappiamo,» disse Evelyn, senza guardarlo. «Ma l'epicentro è l'isola.»

L'isola dove sorgeva il cannone. Il cuore di Jacob perse un battito e il sangue gli si solidifico nelle vene.

«Il cannone?» chiese.

«Ora non m'interessa!» sbottò Evelyn, sbattendo un pugno sul tavolo. «Quando i miei cittadini saranno al sicuro, potremo iniziare a capire chi o cosa ha creato questo disastro.»

Fulminò Jacob con uno sguardo furente.

«Agente Collins, lei prenderà alcuni dei miei uomini e perlustrerà la città da cima a fondo, ogni singolo edificio. Voglio un rapporto sui danni e una segnalazione delle zone più colpite. Uno dei maghi dell'università sarà con voi per comunicare in tempo reale con il rettore e velocizzare le operazioni.»

«Agli ordini,» rispose Jacob.

«Avanti, scattare! Voglio questa città in piena sicurezza prima che sorga l'alba.»

Jacob apprezzava quello spirito positivo, ma era convinto che l'alba avrebbe visto una città nel panico e sfregiata.

Sarebbestata una notte ancora molto lunga, per lui e per ogni altro abitante diElizabeth City.

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