Capitolo XXVI - Ka Rhana

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Lo stendardo del Sacro Ufficio, dispiegato alla luce tersa del freddo mattino, risalì le strade di Roccacorva annunciando l'arrivo di un Inquisitore.

L'ultima volta era accaduto durante quello che poi era stato chiamato l'Inverno Nero, poco meno di un secolo prima. Otto inquisitori e centoventi armati del Sacro Ufficio erano giunti nella città sulle tracce di un circolo di streghe che si riuniva tra i boschi della valle. Per trovare le donne ree di essere parte del circolo, gli inquisitori avevano scatenato una delle più feroci e sanguinarie Cacce mai annoverate nelle cronache delle Signorie. In poco più di quattro mesi erano state decretate quasi cento esecuzioni di presunte streghe; tutto in nome della lotta contro il male giustificata da processi sommari o, ancora più spesso, solo da accuse non suffragate altro che da sospetti e maldicenze. La Caccia si era estesa, inasprita, coinvolgendo chiunque fosse sospettato anche solo di aver dato aiuto o riparo alle streghe fuggitive. Il fumo dei roghi accesi aveva preso a sovrapporsi a quello dei fuochi che si stavano spegnendo, il cielo della città ne era costantemente offuscato e l'aria impregnata dell'odore della carne bruciata.

Le cose avevano continuato a peggiorare fino a quando non era stata la famiglia di Sua Signoria a cacciare gli Inquisitori e a porre fine all'inverno di terrore che aveva precipitato Roccacorva nella più terribile carestia da quando le cronache venivano scritte. I contraccolpi di quel gesto così netto non si erano fatti attendere. Erano state emesse bolle di infamia da parte del Sacro Ufficio, ai danni dei membri della famiglia regnante di Roccacorva, giudicati detrattori della Sacra Legge. Per contropartita la Legge della Signoria aveva condannato a morte tre Inquisitori rei di aver bruciato innocenti senza un processo ritenuto adeguato.

Per anni i rapporti erano rimasti tesi, c'era stata una denuncia di stregoneria nei confronti di una cugina della famiglia e un decreto della Signoria che vietava ogni presenza di Inquisitori sul territorio di Roccacorva, compreso il semplice transito. Poi le acque si erano calmate, le bolle di infamia erano state ritirate, i crimini perdonati, i divieti rimossi. Era rimasto solo un fermo rifiuto all'insediamento permanente di una forza del Sacro Ufficio nella città e ora anche quell'ultimo ostacolo era stato rimosso per mano di sua Signoria Elderico.

Il popolo però ricordava ancora. Se da una parte streghe e magia nera non piacevano a nessuno, dall'altra restavano i racconti dell'Inverno Nero e un generale senso di diffidenza nei confronti degli Inquisitori, ricordati come crudeli dispensatori di morte.

Così la banda armata attraversò la città accolta dagli sguardi sospettosi dei cittadini, da qualche fischio e da torme di bambini incuranti degli eventi passati e incuriositi dal passaggio di armati a cavallo. Il suono degli zoccoli riecheggiò tra le case e poi sotto la volta del massiccio portone della Rocca, disperdendosi tra le alte pareti del cortile.

Irina fu la prima a smontare di sella, ignorando l'offerta di aiuto del palafreniere. Un'intera squadra di soldati era schierata nella corte in loro attesa. Era sia riconoscimento dovuto al Sacro Ufficio che una dimostrazione di forza della Città. L'assenza di Sua Signoria Elderico, sostituita da un uomo imponente con le insegne di capitano affiancato da un secondo uomo dall'aria altezzosa e arcigna, era un altro chiaro messaggio su come fosse vista la loro presenza tra quelle mura. Roccacorva li accoglieva, ma non come pari, bensì come forza subordinata. Irina non poteva dare tutti i torti a Elderico, visto la storia della città e visto che lei stessa non poteva fare a meno di sentire la puzza di ricatto nell'accordo estorto da sua Eminenza.

«Più che come alleati, ci accolgono come un male necessario» le disse non troppo sottovoce Dego, affiancandola.

«Tieniti i commenti per dopo» replicò secca Irina, pur compiaciuta che il Pivello si dimostrasse, ancora una volta, un tipo sveglio. Era improbabile che riuscissero a sentirli con il rumore degli ultimi soldati della banda che sopraggiungevano a cavallo, ma voleva evitare ogni occasione di contrasto. Con la caccia che si apprestavano ad affrontare, l'ultima cosa di cui avevano bisogno erano altri problemi.

Avanzò dritta verso i due in attesa, mentre l'araldo con voce ferma iniziava con le presentazioni formali. Il Capitano della Rocca si chiamava Iorio, non aveva altri titoli quindi si era guadagnato il suo posto, aveva uno sguardo franco e l'aria di un uomo più a suo agio sul campo che nelle occasioni formali. Il Castellano si chiamava Manfredo ed era evidentemente un passacarte della peggior specie. Lo vide inalberare il naso altero, ascoltando l'araldo che declamava il suo titolo. Per di più lo sguardo malcelatamente ostile prometteva problemi.

«Se volete vi mostro i vostri alloggi, Madama» le disse affettato il Castellano a conclusione delle presentazioni, mostrandosi più rispettoso del suo essere donna che del suo titolo. Irina non tollerava che la chiamasse madama e non Inquisitrice. «Se avete fatto tutto il viaggio da Varona a cavallo immagino siate stanca e desiderosa di rinfrescarvi.»

«Immaginate male» disse gelida Irina, mandando in malora tutti i suoi buoni propositi di non creare contrasti. Eppure era stato più forte di lei, non riusciva a tollerare la generalizzata attitudine degli uomini a trattarla come fosse di porcellana solo perché era una donna.

Cercò di recuperare l'evidente scortesia con un sorriso stirato. «Se non vi spiace vorrei prima conferire con il Capitano della Rocca.»

Il risentito cenno del capo con cui il Castellano prese congedo le disse che aveva appena perso ogni possibile simpatia dell'uomo. Cercò Dego con lo sguardo e gli fece cenno di intercettare il Castellano, tra damerini si sarebbero intesi, le venne da pensare, ma in realtà aveva smesso di considerare il Pivello un figlio di papà.

Il Capitano Iorio la guidò in una breve visita della Rocca mentre la aggiornava sugli ultimi avvenimenti. Durante il viaggio avevano avuto notizia del triplice omicidio al convento della città e della fuga dell'omicida, ma il Capitano completò il quadro degli eventi con un dettagliato resoconto delle indagini e delle sue conclusioni.

Almeno quelle ufficiali.

«Qualcosa nel vostro tono mi dice che avete delle perplessità sull'identità dell'assassino» disse Irina distogliendo lo sguardo dal panorama di Roccacorva, oltre gli spalti delle mura, per andare a cercare gli occhi dell'uomo.

«Per lo meno del mandante» annuì Iorio. «Anche se è stata diffusa la notizia che si sia trattato di un sicario di Baronte, l'indagine svolta in un primo tempo ne aveva escluso il coinvolgimento. Il venerabile Learco, in tal senso, era stato categorico, anche se poi ha lasciato che fosse diffusa la ricostruzione fatta da Manfredo.»

«Learco di Varona?» domandò incuriosita Irina. «Non pensavo fosse ancora vivo, quanti anni ha?»

«Nessuno lo sa di preciso, c'è chi dice più di cento» Iorio scosse la testa per sottolineare che non credeva a una simile esagerazione.

«Ho letto alcuni passaggi degli atti del suo processo, anni fa» disse Irina. «Il suo caso è tutt'ora tra i più controversi che siano mai stati analizzati dal Sacro Ufficio.»

Nello sguardo di Iorio comparve una domanda che avrebbe richiesto una lunga risposta. Era evidente che il Capitano non conoscesse il passato di Learco e non voleva essere lei a doverglielo svelare, non in quel momento almeno. Decise dunque di riportare la conversazione sull'omicidio.

«E che idea vi eravate fatto sul mandante?»

«A dire il vero ero solo certo del fatto che non fosse coinvolta Baronte. Non ci sono indizi che indichino per quale motivo quell'uomo abbia ucciso la Badessa, anche se sono persuaso che non sia stato il gesto di un folle bensì un atto premeditato, dettato da un preciso movente.»

Irina annuì. Dopo aver sentito il resoconto di Iorio condivideva la sua impressione e anche se non aveva prove il suo istinto le diceva che dietro quell'omicidio c'era l'ombra del Fabbricante.

***

Con la benedizione di Dego, Sebastiano aveva lasciato la banda di armati del Sacro Ufficio appena varcate le porte della città vecchia. Dopo aver portato il cavallo nella stalla si fermò davanti all'ingresso del Carrettiere controllando di avere con sé il regalo per Alice. Non la vedeva da sei settimane e adesso non stava più nella pelle, non aspettava altro che di vederla sorridere, di sentire come suonava bene il suo nome pronunciato dalla bella bocca.

Sistemando meglio l'involto sotto la casacca lo sguardo gli cadde sui vestiti che indossava: erano luridi, incrostati di fango e puzzavano. Lui puzzava, aveva la barba lunga e i capelli appiccicati al viso assomigliavano più a un nido di uccelli che a una chioma. Avrebbe avuto bisogno di un bagno, di un pettine, un rasoio e un cambio d'abiti.

La porta dell'osteria si aprì e uscirono due uomini impegnati in uno scherzoso scambio di battute a proposito del buon gusto del Capitano della Rocca in fatto di donne. Senza fare troppo caso ai due e a ciò che dicevano, Sebastiano ricambiò distrattamente il saluto che gli veniva rivolto. Nell'aprirsi e richiudersi della porta aveva visto Alice passare tra i tavoli e ogni preoccupazione a proposito della sua igiene personale era stata immediatamente dimenticata. La voglia di essere di nuovo in sua compagnia lo spinse a entrare.

Accolto dal caldo tepore della sala del Carrettiere, Sebastiano la vide spingere la porta della cucina, gli occhi scorrere sulla sala prima di vederlo, il sorriso fiorire e sbocciare pieno sul bel viso.

«Bentornato» gli disse, fermandosi sulla porta.

Sebastiano si tolse il cappello, improvvisamente memore della buone maniere, e le sorrise in risposta. «Mi è mancato il tuo sorriso.»

Alice tornò a mostrarglielo, radioso, e poi scomparve oltre la porta. Sebastiano andò a sedersi al primo tavolo libero che fosse il più vicino possibile al fuoco. Era intirizzito dal freddo e aveva i vestiti umidi per la leggera neve farinosa che quella mattina fioccava pigramente, trasportata dal vento.

Mentre il suo stomaco reagiva all'invitante profumo della zuppa di mastro Berto e reclamava attenzione brontolando, Sebastiano scambiò convenevoli con i volti noti tra gli avventori: sì, era stato via a lungo; sì, l'inverno era particolarmente rigido quell'anno e sì, le strade erano ancora transitabili a sud. Mentre parlava, rispondeva e rideva per qualche battuta di spirito, i suoi occhi non cessavano di tornare alla porta della cucina. Era impaziente di rivederla, come sempre dopo un viaggio, anzi di più, se possibile. Erano successe molte cose in quelle sei settimane, cose straordinarie, e non vedeva l'ora di potergliele raccontare, di passare con lei il suo tempo, di ritrovare  contro il suo corpo morbido il piacere dell'essere nuovamente a casa.

Il suo vecchio gli avrebbe detto che era messo male se aveva una locanda per casa e una compagnia a pagamento a scaldargli il letto. Gli avrebbe consigliato di trovarsi una giovane onesta da maritare e di tornare alla vecchia casa di famiglia di Vallelunga. Scacciò il pensiero del suo vecchio e la fitta di nostalgia per gli anni dell'infanzia passati tra boschi profumati di resina e di legno appena tagliato.

La porta della cucina si riaprì e Alice tornò in sala portando due vassoi carichi di boccali di birra e di ciotole di zuppa. Sebastiano la guardò muoversi tra i tavoli sorridendo ai clienti mentre li serviva. Di quando in quando lei volgeva un fugace sguardo verso di lui e il suo sorriso si faceva più bello ancora.

Non avrebbe mai dimenticato il momento in cui l'aveva vista per la prima volta.

Era di ritorno dalla città di Mulivia dopo aver consegnato alcuni contratti commerciali e ordini di merci della Confederazione. Nell'aria ancora fredda del tardo inverno si iniziava a sentire il profumo della primavera mentre nel giallo marrone dei prati bruciati dalla neve comparivano i primi timidi segni di un rinnovato verde che presto sarebbe dilagato ovunque.

Era entrato al Carrettiere per un piatto di minestra e un boccale di birra, come faceva sempre dopo un viaggio. Ordinare un gustoso pasto e farsi una birra da Mastro Berto piuttosto che mangiare alla foresteria del palazzo della Confederazione mercantile, dove come messaggero aveva vitto e alloggio pagati, era il suo modo di festeggiare un viaggio concluso bene; una tradizione iniziata col vecchio Oreste, messaggero prima di lui presso la Confederazione, e proseguita anche dopo che Oreste si era ritirato.

Anche allora Alice aveva varcato la porta della cucina, esattamente come quel giorno, attirando il suo sguardo come quello di tutti gli altri avventori presenti. Aveva compiuto il giro dei tavoli per portare le ordinazioni e poi per prendere le comande, lasciando lui per ultimo.

«Benvenuto al Carrettiere» gli aveva detto con un sorriso privo di entusiasmo. «Stasera abbiamo minestra oppure rognone e cipolle.»

Aveva ordinato rognone e una birra, informandosi poi dagli altri avventori sulla sorte di Nena, la precedente cameriera. La poveretta aveva avuto un incidente mentre andava a far visita alla madre, a quanto pareva era scivolata chissà come giù per una scarpata.

Al suo ritorno con la cena, Alice si era mantenuta distante, fredda e poco incline a socializzare, nonostante i suoi tentativi di parlarle, ma quando le aveva accennato di essere di ritorno da un lungo viaggio le cose avevano iniziato a cambiare. Durante il resto della sera, a più riprese, si era soffermata al suo tavolo per scambiare qualche parola. Si era dimostrata estremamente curiosa del suo viaggio e ancor più del suo mestiere. Più tardi l'aveva invitato a salire in camera, lui non era solito dormire al Carrettiere, ma aveva preso una stanza. Avevano fatto l'amore e poi parlato per molte ore, rintanati sotto le coltri.

Così aveva conosciuto Alice.

«Sei stato via a lungo» gli disse Alice riportandolo al presente. Il tono di rimprovero fu smorzato da un sorriso.

«Molto più di quanto volessi.»

«Hai il pomeriggio libero?»

«Il pomeriggio, la sera e tutta la notte, se vuoi.»

«Allora intanto ti porto un piatto di zuppa con il lardo, un boccale di birra di quella buona e poi dopo che ti sarai fatto un lungo bagno parleremo del resto. Va bene?»

«Sono messo così male?»domandò Sebastiano tra lo scherzoso e il contrito.

«Hai solo urgente bisogno di sapone e acqua calda» disse seria Alice. «Accendo la stufa nella stanza sul retro e ti preparo una tinozza mentre mangi.»

«Non intendi darmi nemmeno un bacio fino ad allora?»

Alice sembrò pensarci, valutare la cosa, ma poi scosse la testa e tornò verso la cucina, lasciandolo con un impellente desiderio di stringerla tra le braccia e prendersi quel bacio che lei gli negava.


Dopo un lungo bagno, una passata con il rasoio e un cambio d'abiti, Sebastiano si sentiva meglio. Lasciò la stanza della tinozza di buon passo, desideroso di poter raggiungere la sua Alice.

La sala dell'osteria era quasi vuota adesso.

«La chiave della tua stanza l'ha presa Alice ed è salita a prepararti il letto» gli disse complice Mastro Berto. «Approfittane ora perché, lo sai, presto le cose potrebbero cambiare» aggiunse poi con aria ammiccante.

«Che intendete?» domandò perplesso Sebastiano.

«Non hai sentito cosa si dice in giro? Ti posso assicurare che non sono solo fole. Questi vecchi occhi ne hanno viste di storie del genere, non mi sbaglio a dire che è cosa seria. Dagli tempo qualche settimana e vedrai che non mi sbaglio. A quel punto le cose cambieranno.»

«Non vi seguo» disse Sebastiano, pur turbato da una crescente inquietudine.

Purtroppo Berto non aggiunse altro e si diresse invece da un cliente al tavolo che reclamava la sua attenzione.

Non volendo attendere il ritorno dell'oste per capire di cosa stesse parlando, Sebastiano prese la via delle scale e salì verso la sua stanza, deciso a chiedere ad Alice. Lei doveva sapere di che cambiamenti parlasse Berto.

«Lo sa, vero, che la nostra Alice è diventata una gran signora?» domandò ridacchiando il cliente a Berto, guardando Sebastiano sparire su per le scale.

«Ora non la dà più a nessuno che non sia almeno Capitano!» aggiunse il suo compagno di bevuta.

«Ma gliel'ha data oppure no? Berto tu lo sai, vero?»

Berto non rispose guardando invece verso la scala. Ora che ci pensava era un po' di tempo che la ragazza non saliva con nessuno. Se era per via della storia col Capitano Iorio, perché ora si intratteneva con Sebastiano? Non riuscì a darsi una risposta e grattandosi la testa sui misteri delle donne, tornò verso la cucina per riempire i boccali che gli erano stati ordinati.


La porta della stanza era solamente accostata, Alice stava finendo di rifare il letto, si era tolta il grembiule, indossava un abito color celeste che non le aveva mai visto indosso; la sua figura china in avanti sul materasso gli ridestò cocente il desiderio, facendogli dimenticare ogni domanda.

Lei si volse verso di lui e dovette leggergli la passione negli occhi perché sorrise compiaciuta. «Aspetta solo un momento» gli disse sottraendosi al suo abbraccio, andando a socchiudere le imposte per stemperare la luce del giorno in una soffusa penombra.

«Sei così bella, perché chiudi sempre le imposte? Lascia che ti veda alla luce del giorno, una volta tanto.»

«Alla luce mi vedresti per quel che sono e non ti piacerei più» disse Alice seria, lasciandosi catturare dal suo abbraccio.

Sebastiano si prese il bacio che desiderava da quando l'aveva vista.

«Non dire sciocchezze. Non sai quello che dici, sei bella sia al buio che alla luce.»

Fu la volta di Alice di cercare le sue labbra. Perché le erano mancate e perché lo voleva zittire. Non voleva più parlare, le parole appena pronunciate l'avevano turbata e non voleva pensarci più. In quel momento desiderava solo le sue mani su di sé, le sue braccia attorno al corpo. Voleva dimenticare tutto il resto, dimenticare chi era e lasciare che la facesse sua.

Lo spinse contro il letto, gli infilò le mani sotto la casacca baciandolo ancora. Sentì soddisfatta le mani di lui cercare il modo di slacciarle il vestito, lottare senza riuscire contro i bottoni e strattonare la stoffa che gli precludeva l'accesso alla pelle nuda.

«Fermo!» lo allontanò divertita. «Così finirai per strapparmelo. È nuovo.»

Sbottonò l'abito godendo della smania che gli vedeva nello sguardo. Lasciò che tornasse ad abbracciarla, che la spogliasse avidamente. Finirono sulle coperte. A sua volta lottò per togliergli la casacca e i calzoni, continuando a cercare la sua bocca, il calore del suo petto. Nudi si rintanarono sotto le coltri, i corpi stretti, avvinghiati, le mani che scorrevano curiose, stringendo forme conosciute. Impaziente, sentì la virilità di Sebastiano premerle contro il ventre, il corpo di lui muoversi, aderire contro il suo e poi entrare dentro di lei.

Le sfuggì un gemito, conficcò le unghie nella sua schiena. Si guardarono, le bocche tornarono a cercarsi mentre prendevano a muoversi impazienti.

Aggrappandosi con forza a lui si lasciò portare via, cavalcarono assieme il desiderio, lontano da lì, verso un luogo in cui erano soli, liberi, privi di peso. Il piacere giunse a travolgerli spingendoli a perdersi in quel luogo che apparteneva solo a loro e poi trascinandoli indietro, di nuovo tra le coltri di un letto in una camera del Carrettiere, nella città di Roccacorva, di nuovo separati dalla menzogna che legava le loro esistenze. Quell'ultimo pensiero la colpì facendola sentire colpevole e poi triste. Sorpresa sentì le lacrime fiorire agli angoli degli occhi. Cosa le stava succedendo?

«Stai piangendo?» domandò Sebastiano stringendola tra le braccia.

«No» mentì voltando la testa, asciugandosi il viso con un gesto furtivo.

«Anche tu mi sei mancata tantissimo» disse Sebastiano facendosi più vicino, fraintendendo le sue lacrime. Lei si aggrappò al suo abbraccio rannicchiandosi contro il suo corpo e per un po' rimasero così, immobili.

«Sei stato via a lungo» disse lei cercando di scacciare il senso di vuoto che sentiva alla bocca dello stomaco. Se prima non voleva parlare, adesso non voleva restare sola con i suoi pensieri. «Hai trovato i passi sbarrati dalla neve?»

«Ho dovuto cambiare strada ancor prima di arrivarci... Non abbiamo percorso la Via Commerciale... Ho fatto da guida agli armati del Sacro Ufficio.»

Le frasi frammentarie di Sebastiano le dicevano che stava cedendo al sonno. La notizia che aveva portato lui l'Inquisitore a Roccacorva la ferì. Poi però si diede della stupida: lui non poteva sapere che era per catturare lei che il Sacro Ufficio era lì.

«Hai conosciuto l'Inquisitore dunque. È così spaventoso come tutti dicono?»

«Lei sì. Spaventosa. Lui è un brav'uomo. Anche lei non è cattiva, ma lo capisci dopo.»

La notizia che gli inquisitori erano due la sorprese. Dalla sua parte aveva Lor Kon e Nicodemo, ma lui era ancora chiuso in prigione e i suoi problemi si erano appena moltiplicati. Ucciderli entrambi senza essere uccisa, senza essere smascherata e senza far saltare la copertura adesso le sembrava impossibile. Il Maestro sarebbe rimasto profondamente deluso da un suo fallimento, anche solo parziale, e non le avrebbe dato un'altra possibilità.

A quel pensiero fu percorsa da un tremito e sebbene dormisse già, Sebastiano reagì abbracciandola più stretta. Sorpresa, Ka Rhana per un attimo si irrigidì, ma poi si rannicchiò contro di lui, facendosi piccola. Guardò le sue mani serrate su quella di lui, stretta attorno al seno. Si sentiva di nuovo vuota e falsa, ma era normale, cercò di convincersi. Lei era solo una bambola dopotutto. Cercò di non far caso alle lacrime che nuovamente le bagnavano le guance e chiuse gli occhi cercando l'oblio del sonno. Cosa le stava succedendo?

Un giovane albero di nocciolo cresceva sulla sommità del colle, le rovine della casa erano state ricoperte dai rovi e le nuvole nascondevano il sole del tardo autunno. Quanti anni erano passati? Sebastiano si mosse nel sonno, il calore del suo corpo era penosamente piacevole contro il proprio. Veglia e sogno si mescolarono. La voce del Maestro le ordinò di uscire dal letto dopo il sesso e di andarsene. Era freddo mentre camminava nuda nella grande casa fino alla propria camera. Spinse la schiena contro la pelle calda del petto alle sue spalle. Non era quello del Maestro. Cos'era quel tepore? I raggi del sole bucarono le nuvole. La bambina protese il suo unico braccio sulla punta del suo unico piede verso le nocciole dei rami più bassi. La guardò incuriosita, non era la bambina dai capelli neri che da sempre popolava i suoi sogni. Era lei quando il Maestro l'aveva trovata. Lui era alle sue spalle, non poteva vederlo ma sapeva che c'era. La bambina si protese in avanti, perse l'equilibrio, le mani alle sue spalle anziché sostenerla la spinsero. Cadde.

«Mi hai tradito» dissero assieme la voce del Maestro e quella di Sebastiano.

Era caduta in una buca, una fossa, stesa tra decine di corpi. Cadaveri smembrati, coperti di fuliggine, abbandonati.

«No!» avrebbe voluto urlare a entrambi, ma la sua bocca non si mosse, restò spalancata mentre una mosca ci passeggiava sopra. Colma d'orrore li guardò, entrambi immobili, intenti a fissarla dall'alto.

«I morti non devono giocare a fare i vivi» le disse crudele la bambina che era stata, in piedi sull'orlo della fossa in cui lei si trovava.

«I morti non si innamorano» disse la bambina dai capelli neri comparendo nel suo campo visivo, gettando nella fossa una manciata di terra che la colpì sul petto e in faccia. Incapace di muoversi vide se stessa bambina prendere una seconda manciata di terra e tirargliela addosso.

«Smettetela!» provò a gridare contro di loro, ma il suo corpo rimase completamente immobile e muto mentre altra terra le pioveva addosso.

Il Maestro diede a Sebastiano un grosso badile.

«Aspetta!» avrebbe voluto urlare, era certa che se Sebastiano l'avesse sentita si sarebbe fermato, ma non un solo fiato uscì dalla sua bocca. Il badile rovesciò una palata di terra nella buca, la sentì coprirle il ventre e pesare fredda su di lei.

«Non ho mai saputo nemmeno il tuo vero nome» disse triste Sebastiano mentre una palata di terra le copriva le gambe.

«Il tuo nome è Ka Rhana» disse il Maestro mentre una palata di terra la copriva il petto.

«No!» avrebbe voluto negare mentre la bambina che era stata la guardava con un'espressione triste.

«Il mio nome è Vania!» avrebbe voluto dire a Sebastiano mentre una palata di terra la precipitava nell'oscurità, riempiendole la bocca, azzittendola per sempre.

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