Capitolo XXXI

Màu nền
Font chữ
Font size
Chiều cao dòng

Un sole pallido era salito lento dietro la massa di nubi e ora illuminava Roccacorva e la valle sottostante, incuneata tra il colle di Mesamena e la linea dei monti a settentrione dell'Altavalle. Il bianco della neve si ritirava al tepore del giorno e si macchiava del paesaggio sottostante: le tegole di legno dei tetti, l'acciottolato delle strade, la pietra dei merli della rocca e, più in basso, il verde scuro dei boschi di larici, il giallo marrone dell'erba dei prati bruciata dal freddo e il nero fumante della terra arata nei campi.

Erano trascorsi nove giorni dal rilascio di Nicodemo e non era successo niente. Era uscito dalle prigioni, si era fermato a riprendere i suoi averi e si era recato senza indugi nei bordelli della città bassa, dove ancora trascorreva tutte le sue notti e buona parte dei suoi giorni. Per il resto del tempo intratteneva qualche sporadica trattativa per la vendita della sua mercanzia. Seguire ogni sua mossa e indagare su ognuno dei suoi contatti si stava rivelando, giorno dopo giorno, un'assoluta perdita di tempo.

Il Capitano Iorio trascorreva quelle giornate di attesa ascoltando resoconti inconcludenti e leggendo i dispacci che pervenivano dalle varie unità impegnate nei preparativi per la guerra.

La squadra di Mesamena aveva quasi completato le riparazioni alla torre di avvistamento e con il disciogliersi della neve nella parte bassa della valle i ricognitori avevano preso a battere il territorio in cerca di forze nemiche in avanscoperta.

Ogni sera, al calar del sole, si recava al Carrettiere, cenava e poi saliva al piano di sopra per trascorrere la notte con Alice. La passione per la bella cameriera si agitava costantemente nei suoi pensieri e dominava il suo corpo, ne era divenuto dipendente come un beone dall'ebbrezza data dal bere. Più volte si era ripromesso di interrompere quel rapporto immaginario, quell'amore scandito dal tintinnare delle monete lasciate sul bancone di Mastro Berto, ma poi gli bastava vederla sorridere per persuadersi che per Alice, come per lui, le cose erano ben diverse. Ogni notte la guardava sciogliersi i capelli e poi togliersi gli abiti alla fioca luce di una candela, la guardava entrare nel letto vestita solo delle tremolanti ombre della stanza e si convinceva sempre più che la loro passione era autentica.

Nella Casa Nera, con il passare dei giorni, Irina si faceva sempre più dispotica man mano che l'attesa le logorava i nervi frustrando il suo bisogno di trovare il nemico. Di pari passo, il cordiale e loquace Sebastiano si faceva, di giorno in giorno, sempre più scontroso e taciturno, ma in questo caso non vi era alcun nesso con l'inconcludenza delle ricerche. Cercando un modo per ammazzare il tempo nonché una valida scusa per evitare Irina, Dego si era così dedicato a indagare sulla metamorfosi caratteriale del giovane.

Innanzitutto Sebastiano aveva smesso di uscire ogni sera per tornare all'alba, mangiava con i soldati e per la notte si era sistemato nel palco sopra le stalle. A questo si aggiungeva che il suo malumore peggiorava visibilmente ogni volta che giungevano soldati della Rocca. Dego era quasi giunto alla conclusione che avesse problemi con la legge, quando aveva notato che la presenza del Capitano tra i soldati implicava il sentire risuonare i colpi di martello nella stalla o nelle sue immediate vicinanze. Sembrava che Sebastiano avesse un bisogno viscerale di sfogarsi colpendo qualcosa ogni volta che vedeva Iorio. A quel punto non era stato difficile scoprire che il motivo del malumore di Sebastiano aveva un nome, lunghe ciglia e un magnifico petto.

***

Alice stava spazzando i gradini all'ingresso del Carrettiere osservando il via vai, ricambiando distrattamente i saluti di quanti la conoscevano. Ogni tanto lo sguardo coglieva un movimento, una macchia di colore che sembravano familiari e si levava in cerca di qualcuno che invece sapeva non sarebbe venuto. Subito dopo si riscuoteva e costringeva la mente a focalizzarsi sul lavoro.

Qualcuno la salutò, fece un cenno in risposta e nuovamente il suo sguardo percorse tutta la lunghezza della via. Fu allora che lo vide. Fermo all'angolo del vicolo del bottaio, parzialmente nascosto da due massaie intente a scambiarsi lamentele sul prezzo del sale e sulle prepotenze dei mariti.

Tornò a spazzare come niente fosse mentre sentiva un brivido risalirle dalla schiena lungo il collo e le mani contrarsi impercettibilmente attorno al manico della scopa. Pur senza guardarlo percepì il suo muoversi. Si stava avvicinando. Valutò che l'eventualità di essere stata scoperta era improbabile, ma analizzò comunque le sue opzioni in caso di fuga o di scontro e, per ogni evenienza, scelse di spostarsi all'interno. In caso di fuga la locanda offriva molte uscite e avrebbe coperto i suoi movimenti, in caso di scontro avrebbe avuto il vantaggio di un campo di battaglia ristretto. Dava il suo meglio nel corpo a corpo. Batté la scopa a terra per scuoterla dal fango e rientrò, usando il movimento naturale della testa per guardare i dintorni. Nella strada, fino ai margini del suo campo visivo, nient'altro si muoveva. Non era ancora detto che fosse lì per lei, ma in ogni caso i suoi rinforzi non erano in vista e ciò le avrebbe concesso più tempo per organizzarsi.

Attraversò la sala e varcò la porta della cucina. Berto le dava le spalle, intento a seguire la cottura della zuppa di cavolo. Afferrò un lungo coltello osservandola schiena dell'oste e il collo ben esposto sotto i capelli arruffati e radi. Se si fosse voltato proprio in quel momento, mentre nascondeva il coltello, sarebbe stata costretta a ucciderlo, ma non accadde. La lama scomparve nella manica prima che Berto si voltasse.

«Hai già finito di spazzare?»

«Abbiamo ospiti.»

«Dunque che ci fai qui?! Hai forse dimenticato il tuo mestiere? Su ragazza! Togli quell'espressione cupa, un bel sorriso e vai ad accoglierli.»

Alice annuì e tornò verso la porta spalancandola, pronta a reagire. Lui era entrato e ora sedeva a uno dei tavoli. Si guardava attorno. Se stava recitando era un attore molto abile, il suo corpo non tradiva alcuna tensione. Si volse, la vide e le sorrise, un sorriso rilassato, nessuna incongruenza con l'espressione degli occhi. Rispose al sorriso e si avvicinò, la mano pronta ad afferrare il manico del coltello. Il suo avversario portava la spada alla cintura, niente pugnale. Era destro quindi si accostò da quel lato, ove il tavolo gli sarebbe stato d'intralcio per estrarre l'arma. Un ritardo nella sua reazione sufficiente a ucciderlo.

«Buongiorno e benvenuto al Carrettiere» sorrise, un sorriso da manuale, indistinguibile da uno sincero. Anche lei era un'attrice molto abile.

«Buongiorno a te. Tu sei Alice, vero?»

«Sì, Signore» annuì notando il brillare della cotta di maglia sotto la casacca. Doveva colpire al collo. Sotto la gonna i suoi piedi si spostarono per accompagnare il movimento fluido che avrebbe reciso trachea e giugulare con un unico fendente.

«Posso avere una birra, Alice?»

«Certamente» fece per voltarsi, ma non intendeva perdere la sua posizione di vantaggio, finse esitazione poi tornò a guardarlo. «Voi siete l'Inquisitore, vero?»

«Sì, sono Dego, figlio di Tonio il Rosso, Inquisitore del Sacro Ufficio di Varona, detto l'Esecutore e, più recentemente, anche il Cane della Vergine, quest'ultimo poco lusinghiero a dire il vero. Tu comunque puoi chiamarmi semplicemente Dego.»

Il tono rilassato non le fece abbassare la guardia. Mosse il polso sentendo la tensione della stoffa allentarsi attorno al coltello. Era pronta a colpire.

«Siete qui per arrestare qualcuno?»

«Sono qui per te» disse serio Dego, ma i suoi occhi continuavano a sorridere e solo questo evitò che il suo sangue lordasse il pavimento del Carrettiere. «Sono venuto perché credo che abbiamo un amico in comune. Un giovanotto gentile con un cuore grande e gli occhi di un bambino» continuò Dego ignaro della mano di Ka Rhana che si allontanava lenta dal pugnale ancora nascosto nella manica.

«Ultimamente non lascia più le stalle dopo il lavoro e la sua risata non accompagna più le mie pessime battute. Mi sembra di aver capito che il motivo di tale cambiamento sia tu.»

«Sebastiano» disse Alice addolorata, stavolta senza finzione.

Dego sorrise comprensivo e lei andò a prendergli il boccale che aveva chiesto.

«Mi sembra di capire che anche tu provi affetto per lui.»

«Non è così, mi spiace» disse Alice volgendogli le spalle mentre spillava la birra, ma con i sensi affinati dal suo mestiere, stavolta Dego riconobbe la menzogna.

«Lui è solo un cliente come molti altri. Ora che il Capitano Iorio di Roccacorva mi ha concesso il suo favore non intendo contrariarlo frequentando altri uomini. Mi spiace che lui stia male, ma non è affar mio. Sapeva chi ero quando ha iniziato a frequentarmi.»

«Capisco» disse Dego. «Una ragazza come te deve prima pensare a sé stessa.»

Alice annuì raddrizzando il boccale e avvicinandolo alla spilla per riempirlo lentamente fino all'orlo mentre la schiuma gonfiava e traboccava.

«Dunque posso dire al buon Sebastiano che il suo amore non è ricambiato. Lo aiuterà a dimenticarti.»

«Sì, fatelo» disse Alice dirigendosi verso il tavolo col boccale al centro del vassoio. «Non merita di stare male.»

Dego prese il boccale guardandola negli occhi. Per quanto si aspettasse di trovarvi sofferenza, il lacerante tormento che si agitava nel profondo del suo sguardo gli fece provare una sincera pena per la ragazza.

***

La sera calò sul giorno, avvolgendo il sole in una fitta nebbia, portandosi via ogni traccia di tepore nell'aria. A Roccacorva nessuno degli abitanti vide il tramonto arrossare le cime dei monti, neppure coloro per i quali sarebbe stato l'ultimo.

Con le tenebre che si infittivano, la bruma che gravava su tutto, in pochi incrociarono il silenzioso viandante e coloro che lo fecero affrettarono il passo o cambiarono lato della strada, intimiditi sia dalla mole dell'uomo che dal lugubre mantello che lo avvolgeva dalla testa ai piedi. Al rintocco della campana che segnava la prima ora della notte, un gruppo di guardie intirizzite dal freddo e troppo prese a lamentarsi del turno notturno lo incrociò senza vederlo mentre scompariva, inghiottito dal buio di un'arcata. Lor Kon attese paziente che si fossero allontanati prima di riprendere il cammino.

«Vi state sbagliando» si accalorò Manfredo mentre Sua Signoria osservava assorto il grigio mare di nebbia oltre il vetro piombato della finestra. «Quella donna sta abusando della vostra indulgenza, coinvolge impunemente gli uomini della vostra guardia in inutili pedinamenti e finirà col farvi perdere la faccia di fronte al popolo. Alla fine sarete voi ad aver fatto rilasciare l'unico colpevole della morte di Madre Lucrezia, il nome usato per liberarlo è il vostro, non quello di quella donna.»

Seduto comodamente vicino al fuoco con la pancia piena di anatra e i sensi leggermente appannati da scura birra torbida, Learco ridacchiò tra sé e sé al pensiero di come "quella donna", poco prima, avesse fatto fare al Castellano una ben misera figura. Da giorni l'ostilità tra Manfredo e Irina aveva oltrepassato ogni protocollo e i due disputavano velenosi duelli verbali ad ogni loro incontro. Poco prima lui era tornato a consigliarle di ammettere il suo errore e di far rimettere ai ferri il prigioniero liberato, aggiungendo che averlo rilasciato solo per vederlo passare una notte dopo l'altra in un bordello era indecoroso; al che Irina gli aveva consigliato di andare anche lui a rinchiudersi in un bordello per vedere se questo sarebbe bastato a calmargli l'isteria. Learco si era astenuto dal commentare la faccia paonazza di Manfredo e paragonarne il rossore a un imbarazzo virginale solo perché non riusciva ancora a fare comunella con l'Inquisitrice, ma la tentazione era stata forte.

«Manfredo non intendo tornare sulle mie decisioni» stava dicendo Sua Signoria. «Sia io che Learco abbiamo già sentito il tuo parere in merito, ma ancora una volta ritengo che dobbiamo perseverare sulla strada intrapresa.»

«Non è solo il mio parere, ma anche quello del popolo. In molti si domandano il perché della vostra decisione.»

«E da quando ti curi dell'opinione del popolo?» domandò Learco. «Il tuo naso è talmente puntato verso il cielo che non la vedi neppure, la gente comune.»

«La vostra arroganza è intollerabile!» boccheggiò Manfredo indignato, volgendo la sua frustrazione contro Learco visto che non poteva farlo con Sua Signoria. «Dite di me che sono sempre pronto a biasimare chiunque, ma voi non fate meglio di me. Anche voi siete convinto che siano sempre gli altri a sbagliare. Cosa vi fa pensare di non aver mai preso un abbaglio? Di aver ritenuto il giusto un errore?»

«Invero ho sbagliato, a volte» annuì Learco affatto offeso. «Ma a differenza del tuo assiduo starnazzare, ho la buona creanza di pensare prima di dar fiato alla voce.»

Manfredo gonfiò come un rospo, si volse verso Sua Signoria, fece un rigido inchino e lasciò la stanza a passo di marcia. Learco se ne accorse a mala pena, le parole del Castellano, per quanto inique, avevano destato in lui una vaga inquietudine.

Gli ultimi avvenimenti dimostravano che Nicodemo di Cafria era tutto meno che uno stupido. La sua promiscuità, il suo costante girovagare per la città all'apparenza privo di motivo, il suo interloquire con chicchessia; tutto era studiato per frustrare i tentativi di seguire i suoi spostamenti, per rendere impossibile individuare chi veramente fossero i suoi contatti.

Eppure si era fatto beccare come uno stupido la mattina dopo l'omicidio, tornando nell'unico posto in cui era ovvio che l'avrebbero cercato.

Poteva spiegarsi con la paura. Anche le persone più intelligenti facevano delle immani sciocchezze quando era minacciata la loro vita. Ma se invece fosse stato un deliberato intento? A cosa era servito farsi catturare se non a dare ai segugi una volpe da inseguire?

Si era persuaso che il loro nemico avesse commesso due errori, ma forse non era così, forse di errore ce n'era stato soltanto uno. Solo il rosario di Lucrezia non faceva parte del piano del nemico. L'altro errore non era mai esistito. La favola di Lorcon era effettivamente una menzogna, ma con quella Nicodemo aveva indossato la coda da volpe e si era fatto inseguire.

L'altro errore l'aveva commesso lui sottovalutando il loro avversario e questo li avrebbe portati dritti nella trappola tesa dal nemico.

«È necessario convocare subito il Capitano Iorio e l'Inquisitrice» disse cupo, rivolto a Sua Signoria. «Dobbiamo rivedere immediatamente la nostra strategia.»

Elderico non fece domande, l'espressione grave sul volto di Learco bastava a motivare l'urgenza della richiesta, si limitò ad annuire dopodiché lasciò la stanza per dare disposizioni affinché i due venissero mandati a chiamare.

***

Nicodemo oltrepassò le porte della Città Vecchia sotto lo sguardo arcigno di uno dei soldati di guardia, fece un commento ironico su parti del corpo gelate, fu mandato a quel paese e svoltò seguendo la strada delle mura. Sapeva di non essere solo. Da quando aveva lasciato la prigione aveva sempre almeno un accompagnatore, ma andava bene così, anche quello faceva parte del piano. Era stato divertente, nel corso dei giorni, portare i suoi angeli custodi a zonzo per la città in giri sempre più ampi, fermandosi a parlare con genti di ogni schiatta, a volte con aria tanto circospetta e in luoghi tanto equivoci da far venire i dubbi anche sui cittadini più rispettabili. Sapeva che per merito suo il macellaio della piazza lunga aveva passato un brutto paio d'ore, rinchiuso nella sala interrogatori della Casa Nera. Era stato spassoso, eppure anche i giochi più divertenti erano destinati a finire.

Il piano di Ka Rhana si avviava alla sua conclusione e si stava dimostrando impeccabile. Quella bambola sinistra era stata perversamente geniale.

Farsi sorprendere a fare i bagagli era stato il modo giusto di attirare l'attenzione. Il sospetto si era poi trasformato in una falsa certezza quando avevano trovato le prove che lei gli aveva detto di artefare: quegli stupidi avevano visto solo quello che gli era stato messo davanti agli occhi. Così la scomparsa di Lor Kon era stata trasformata in una fuga quando avevano trovato le tracce nella torre anche se era stato lui, la notte del massacro, a smuovere le tegole per simulare il passaggio del bestione attraverso gli impalcati.

Quando lo avevano incarcerato e interrogato aveva raccontato la sua storia e usato il vero nome di Lor Kon nel resoconto degli eventi, proprio come lei gli aveva detto di fare. Giunto alle orecchie giuste quel nome era divenuto la prova del suo legame con Asmodeo. Così, non riuscendo a trovare un fuggitivo che non era mai fuggito, non avendo altri indizi, lo avevano rilasciato per pedinarlo e vedere se lui era tanto stupido da portarli da Lui.

E così quella sera lui li avrebbe portati proprio dove lei li voleva.

Dietro la curva della strada la sagoma scura della torre sud si andava delineando. Volendo aggiungere un po' di pepe per il suo pubblico, Nicodemo si guardò attorno circospetto prima di proseguire.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen2U.Pro