Capitolo XXXVI

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Sul colle l'estate era alle porte, il cielo era azzurro, l'erba verde e sotto l'ombra del giovane nocciolo, i rovi sulle macerie si erano riempiti di more.

La bambina era stesa al sole, sul cumulo di terra e rovine della vecchia casa, guardava assorta una farfalla appena posata sulla punta dell'indice dell'unica mano. Lei sedeva sull'erba, le braccia raccolte attorno alle ginocchia e aspettava. Lo spaventapasseri si muoveva lento nel lieve vento caldo mentre i corvi banchettavano indisturbati ai suoi piedi, mangiando le sementi sparse tra le zolle e le stoppie. C'era qualcuno sulla strada in fondo alla valle, non riusciva a vederlo muoversi, era come cercare di vedere il sole spostarsi nel cielo, ma ogni volta che spostava lo guardo era più vicino. Non lo vedeva chiaramente, ma sapeva chi era e che stava venendo per lei. Quando fosse giunto l'estate sarebbe finita.

«Vania che aspetti! Vieni a giocare!» era la voce di Mina, sua sorella. La chiamava da dietro le rovine della casa, dal cortile invaso dai rovi. Era sorpresa di ricordare ancora la sua voce. Il volto invece era confuso, sfocato nella memoria, perso tra le ombre.

«Vania» quello era il suo nome. Provò a ripeterlo e le piacque come suonava.

«Sai che non dovevi farlo» disse la bambina afferrando la farfalla e stringendola nel pugno. «Lui sta venendo per questo.»

Lei non replicò. Lo sapeva. Rimase seduta in attesa.

I corvi si erano appollaiati sulle spalle dello spaventapasseri, gli beccavano il volto cercando di strappare i bottoni che lei e sua sorella avevano cucito al posto degli occhi. Gracchiavano, si assembravano tra le zolle e le stoppie. Erano centinaia.

Lui aveva lasciato la strada e ora saliva verso il colle. La sua figura proiettava una lunga ombra che sembrava una lama affilata.

«Sai come fermarlo Ka Rhana» disse la bambina. Sì, lo sapeva: il pugnale era posato ai suoi piedi.

I corvi volavano attorno allo spaventapasseri, i loro becchi colpivano il volto di tela facendolo sanguinare.

«Sai cosa devi fare Ka Rhana» ripeté la bambina guardando tra le dita la farfalla che aveva ucciso.

Il pugnale brillava sinistro. Lo spaventapasseri aveva il volto di Sebastiano. Il pugnale era nella sua mano, l'ombra nera e affilata puntava verso la gola dello spaventapasseri.

«Sai cosa devi fare Ka Rhana» disse la voce del Maestro.

«Il mio nome è Vania» disse lei volgendosi a guardare l'ombra alle sue spalle.


Si svegliò di soprassalto guardando la penombra circostante, quasi aspettandosi di vedere il Maestro comparire. La camera, immersa nel tenue chiarore delle prime vestigia del giorno, rimase invece vuota. Mentre ritrovava il controllo del respiro e del battito del cuore, un lieve russare attirò la sua attenzione. La mole ingombrante di Iorio invadeva più della metà del letto. Vederlo lì le provocò un accesso di rabbia e assieme le gonfiò gli occhi di lacrime.

Scivolò fuori dalle coperte, volendo allontanarsi il più possibile da lui prima di fare qualcosa che avrebbe compromesso la missione. Incurante del freddo girò attorno al letto nuda e andò a dischiudere le imposte. Aveva bisogno di respirare.

Si affacciò alla finestra e inspirò a fondo l'aria gelida, riempiendosi gli occhi con la vista delle montagne parzialmente nascoste da nubi grigie. Nella pallida luce dell'aurora i ripidi tetti di Roccacorva erano lucidi della pioggia caduta durante la notte. Il suo sguardo andò a cercare quello nero, di lastre d'ardesia, sotto al quale dormiva Sebastiano.

Lui se n'era andato di nuovo.

Per tre giorni l'assenza di Iorio, impegnato prima col massacro della torre e poi con la caccia a Nicodemo, li aveva lasciati sospesi, aggrappati alle parole di Sebastiano. «Alice, io ti amo» e alla silenziosa risposta di lei, stretta in un abbraccio. Per tre notti si erano amati avidamente e si erano poi tenuti per mano, senza voler pensare a nient'altro che non fosse quel presente in cui erano assieme. Erano stati solo loro due.

Poi era giunta voce del rientro dei soldati in città dopo aver catturato e giustiziato il fuggitivo Nicodemo. La notizia aveva preceduto Iorio, varcando la soglia del Carrettiere due giorni prima del suo arrivo. Era bastato quello a cambiare le cose. Sebastiano aveva iniziato a cercare nei suoi occhi una risposta che lei non poteva dargli e lei aveva evitato quello sguardo e quella domanda fino a quando era stato possibile. In realtà lui conosceva già la risposta: l'aveva saputa fin dai primi momenti, solo che sperava che nel corso di quei pochi giorni fosse cambiata. Quei pochi giorni che avevano avuto solo per loro. I momenti rubati al lavoro all'osteria, i baci fugaci nascosti dietro gli angoli, nel vicolo o nella stalla. L'amore fatto tra la paglia oppure di notte, in silenzio, tappandosi la bocca per poi restare stesi a guardarsi negli occhi. Era finito. Lo sapevano entrambi.

Avevano continuato a baciarsi, a cercarsi, ma era cambiato tutto. Le labbra non sapevano più di sole e frutta matura, ma del sale delle lacrime e del freddo di un camino spento. Il loro fare l'amore era divenuto un reciproco, disperato tentativo di trattenersi mentre il tempo incalzante li allontanava.

La domanda restava sospesa tra loro due come la scure del boia. La domanda la cui risposta avrebbe decretato la loro fine. La risposta era Iorio. Al suo ritorno lei avrebbe dovuto scegliere e avrebbe scelto Iorio. L'avrebbe fatto perché gli ordini del Maestro non erano discutibili, perché non aveva scelta, perché alla fine di tutto avrebbe dovuto uccidere Sebastiano. Era condannato lui, era condannata lei. Si dibattevano senza scampo nella presa ferrea del destino mentre si avvicinavano verso il patibolo. La scure del boia li attendeva entrambi, Sebastiano avrebbe messo la testa sul ceppo, lei impugnato l'ascia. L'avrebbe ucciso e sarebbe morta anche lei, una volta di più, forse l'ultima dopodiché sarebbe rimasto solo un guscio vuoto. Un corpo senza più niente a riempirlo, incapace di provare alcunché.

La notte precedente aveva visto Sebastiano piangere. Aveva sempre trovato le lacrime patetiche, un segno di debolezza; aveva provato vergogna quando le era successo di piangere, provato disprezzo per coloro che aveva visto piagnucolare o supplicare davanti al suo pugnale. Piangere era un segno di sconfitta, di qualcuno che si arrendeva, di qualcuno che non meritava rispetto. Questo le era stato insegnato.

Nelle lacrime di Sebastiano invece non aveva trovato debolezza, per esse non aveva provato niente di lontanamente simile al disprezzo. Aveva riconosciuto le stesse sconvolgenti lacrime che lei stessa aveva pianto più volte in quegli ultimi giorni. Così aveva capito.

Lei amava Sebastiano. Non stava recitando, non si era immedesimata troppo nel ruolo di Alice.  Era lei, Vania, che si era innamorata di lui. Aveva aperto la bocca per dirglielo, ma non era riuscita a farlo. L'aveva stretto forte e avevano pianto assieme, in silenzio.

La mattina successiva lui era uscito dall'osteria prima che il chiarore del giorno giungesse a cacciare la notte. Ferma sulla soglia lei lo aveva baciato un'ultima volta, mettendosi appena sulla punta dei piedi. Si erano stretti, guardati negli occhi senza proferire una sola parola eppure dicendosi tutto quello che c'era da dire.

«Addio Alice» aveva detto lui facendo un passo indietro. La mano di lei si era protesa per trattenerlo, ma poi era ricaduta senza avere il coraggio di sfiorarlo. Lui aveva comunque visto il gesto, il suo sguardo aveva posto la domanda ancora una volta. Lei aveva scosso impercettibilmente la testa.

«Addio Alice» aveva ripetuto allora Sebastiano, girandosi per allontanarsi.

«Il mio vero nome è Vania» aveva detto lei, prima ancora di riuscire a imporsi il silenzio. Sebastiano era tornato a guardarla, sorpreso.

«Non è importante, ma volevo che tu lo sapessi.»

«Vania» il suo nome pronunciato da lui aveva un suono diverso. Era più bello, più profondo. «Perché ti fai chiamare Alice allora?»

«Te l'ho detto, non è importante.»

Sebastiano era rimasto assorto, osservandola come se valutasse se aggiungere qualcosa, poi invece aveva preferito il silenzio e le aveva sorriso. Un sorriso triste.

«Allora, addio Vania.»

Lei non aveva detto niente, lo aveva guardato volgersi e poi allontanarsi, sul selciato sconnesso, tra le pozze.

«Ti amo» le era uscito dalle labbra, niente più che un filo di voce. Lui non l'aveva sentita.


Richiudendo leggermente le imposte e guardando la schiena di Iorio, Ka Rhana ripensò al pugnale nascosto sotto al letto e ripensò alle sue dita che lo cercavano la sera prima mentre il Capitano si muoveva sopra di lei nel letto. Mentalmente divise la schiena di Iorio in più settori ripassando dove un colpo di pugnale sarebbe stato letale e dove avrebbe inflitto un'agonia più atroce. Immaginò di farlo, di colpirlo. Pensò alla stupida smorfia della sua faccia mentre lo facevano, la sera prima, e si domandò se avrebbe avuto un'espressione così idiota anche quando si fosse svegliato con una spanna di acciaio nelle reni.

Alla fine, stufa di quel gioco e di stare ad ascoltare il suo respiro pesante, sì vestì e scese al piano di sotto, del tutto ignara di essere seguita.

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