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«Quindi sono diventati degli eterni bambini in cambio dell'immortalità» constatò Bellatrix, dopo aver ascoltato con attenzione il racconto di Mijime.

«Esatto». Era passata almeno mezza giornata da quando erano stati rinchiusi in quello spazio buio e angusto: mentre cercavano di slegarsi a vicenda le corde attorno ai polsi, entrambi d'accordo nel posticipare i loro battibecchi a quando fossero tornati all'aria viva, Mijime aveva avuto tempo di raccontare la storia di Ton Paidon, che finalmente non rimase inascoltata. «Non conosco con esattezza tutti i particolari, ma in sostanza è successo quello che ti ho spiegato. Almeno, da ciò che mi aveva detto Anita, dovrebbe essere andata così. Per conoscere una realtà più certa, dovresti chiedere a loro. Ma non penso sia la tua massima aspirazione in questo momento».

Bellatrix ignorò il discorso e continuò il suo ragionamento ad alta voce. «I daimona, anche se hai detto che non potrebbero, decidono quindi, talvolta, di favorire qualche clan rispetto ad altri. Probabilmente sanno anche dove si trova il tesoro... Come si potrebbe entrare nelle grazie di questi?»

«Ho capito dove vuoi arrivare, ma escludila subito come opzione» sentenziò il giovane dietro di lei, continuando a tirare le corde attorno ai polsi della compagna. «Innanzitutto, non seguono alcun criterio logico. Sono divinità immortali che non avrebbero alcun bisogno di noi. Forse non siamo altro che il loro intrattenimento, per il resto potrebbero benissimo fare a meno della nostra presenza. Dunque, cosa potremmo offrire loro per essere dalla nostra parte che non abbiano già? Nulla. Ogni tanto "favoriscono" qualche clan - anche se non credo che Ton Paidon abbia davvero ricevuto un giovamento - per qualche ragione comprensibile solo a loro e che, probabilmente, non ci sarà mai rivelata; per quello che ne sappiamo noi, potrebbero non utilizzare alcun criterio. Inoltre, pur essendo dalla nostra parte, non ci aiuterebbero mai a trovare il tesoro. Keizah ha donato l'immortalità a Ton Paidon, ma quelli sono qui da cinquecento anni e non sono ancora riusciti a fuggire».

«Se parli così sembra che non ci sia alcuna speranza di andarsene da quest'isola» disse Bellatrix e Mijime si accorse di come abbassò profondamente la voce: cercò di voltarsi verso di lei, per quanto poteva, come a constatare che sul suo volto fosse sopraggiunta la stessa espressione di tormento che aveva quando era legata al palo.
«Be', intanto dovremmo trovare il modo per uscire da qui» disse nel mentre. «Finché non saremo liberi, è inutile arrovellarsi con questi pensieri».

Era lì infatti che sbagliavano, tutti quanti: cercavano di applicare criteri logici nella ricerca del tesoro, perché tipico dei razionali esseri umani, di qualsiasi civiltà siano, qualsiasi epoca abbiano vissuto, qualsiasi vita abbiano trascorso, è cercare di spiegarsi il mondo circostante per capirlo. Ma se qualcosa esce dagli schemi prefissati, che sembravano adatti in tutte le circostanze, tutto il loro modo di percepire la realtà viene completamente scardinato e gli animi cadono in un profondo turbamento e depressione da cui faticano a uscire, finché non trovano nuove risposte altrettanto soddisfacenti. E il processo si ripete all'infinito, dopo che anche queste vengono smontate. Mijime era certo che perciò nessuno aveva ancora trovato il tesoro. Ma cosa dovevano fare, allora, per appropriarsene?

Il giovane tacque, mentre le sue dita continuavano a tirare le corde: si aspettava una risposta di Bellatrix di qualsiasi genere, ma quella tardava ad arrivare, stupendolo. Era la prima volta che non ribatteva a un suo discorso. La determinazione della giovane e la sua positività anche nelle situazioni più critiche, da quando l'aveva conosciuta, erano sempre stati i suoi tratti distintivi, insieme a una certa arguzia. Vederla in quello stato voleva quasi significare che ogni speranza poteva davvero considerarsi perduta.

«Non...» iniziò, ma bloccandosi subito.
«Cosa?» chiese Bellatrix, la voce atona.
Mijime si morse il labbro inferiore: cosa andava pensando? Non sarebbero certo state poche parole di conforto a farla stare meglio, anche se quello era il suo intento. Anzi, provenendo dalle sue labbra, le sarebbero risultate come l'ennesimo scherno. A che, allora, sprecare fiato? Tutto quello che poteva fare era impegnarsi praticamente per liberarli almeno da quell'impedimento fisico. Quasi a farlo apposta, proprio in quel momento sciolse il nodo che legava Bellatrix.

«Finalmente!» si lasciò sfuggire, esultante, attirando l'attenzione della compagna. La corda di Bellatrix era andata, e presto anche i suoi polsi e le sue caviglie sarebbero stati liberi. Ma non era il momento di distrarsi, pensando di aver già terminato il loro lavoro: finché non fossero stati fuori e lontano da quei bambini pestiferi, non avevano tempo di gioire.

«Cosa? Ci sei riuscito? Come...» Bellatrix era incredula: aveva ormai ceduto alla prospettiva che non sarebbero stati in grado di uscire nemmeno da quello stato di immobilità forzata e invece, proprio allora, Mijime era riuscito a liberarla. Provò a muovere le braccia e sentì le corde, che le avevano quasi bloccato la circolazione, scenderle dolcemente dai polsi. Li portò davanti a sé, massaggiandoli e continuando a strizzare gli occhi per osservarli nella penombra, ancora attonita per quello che stava vedendo.

«Non fare troppi complimenti» commentò l'altro, sentendo l'improvvisa euforia della giovane. «E adesso, se non ti dispiace...» disse poi, allungando le braccia da dietro, per quanto riusciva, per porgere i polsi ancora legati alla compagna.

«Oh, scusa». Le guance di Bellatrix si colorirono appena di rosso, invisibile nell'oscurità a cui ormai si erano abituati. Era talmente estasiata, vedendo quel piccolo spiraglio di libertà, soltanto con la consapevolezza di riuscire di nuovo a muovere le mani, che aveva quasi dimenticato che anche il suo compagno si trovava nella medesima situazione.

Lo sentì sbuffare ancora. «Prendi il coltello che avevo nascosto come riserva nella tasca interna della camicia: abbiamo visto che a slegare quel nodo con le mani ci si mette troppo tempo...»

A quelle parole la mascella di Bellatrix cedette. «Hai ancora quel coltello?» chiese sbalordita: fino a pochi istanti prima aveva creduto che non avrebbero mai più rivisto le stelle, relegati per sempre là sotto. E, invece, la situazione stava pian piano capovolgendosi.

«Sì, insieme a un piccolo vasetto della lozione di Anita. E sbrigati a-».
«Ma allora siamo praticamente salvi!» esclamò lei, saltando in piedi e capitombolando a terra. Che sciocca, aveva dimenticato che anche le sue caviglie erano state legate. Sorrise a quella piccola disattenzione e la sua bocca, senza che lo volesse, si schiuse appena, emettendo una risata ingenua e cristallina. Cosa c'era di cui disperarsi ormai? Ridere era l'azione più naturale che le venisse in mente, considerando come la fortuna fosse finalmente girata dalla loro.

Dalle sue spalle provenne un secco colpo di tosse. «Non vorrei risultare noioso, interrompendo questo gaio momento di ilarità, ma vorrei essere gentilmente liberato anche io» commentò Mijime, senza nascondere una nota inacidita.

«Sì, scusami, hai ragione» si affrettò a dire Bellatrix, ancora con il sorriso sulle labbra, mentre si rialzava per avvicinarsi al giovane, muovendosi sulle ginocchia. Si sedette di fronte a lui e pose le mani sul colletto della camicia; stava per eseguire ciò che Mijime le aveva chiesto, quando sopraggiunse un'idea stuzzicante. Siccome ora sarebbero certamente riusciti a scappare da lì, si sarebbe adoperata in ogni modo per far impazzire Mijime, proprio come lui aveva fatto con lei nei giorni precedenti, con i suoi continui scherzi. E sapeva benissimo come fare.

Si sorprese, accorgendosi del comportamento tipicamente infantile che aveva assunto - non era da lei! - ma l'idea dell'invertimento dei ruoli era così appagante che non riusciva a togliersela dalla testa.

Prese un bottone tra le dita e, molto lentamente, indugiando un poco e avvicinandovi le labbra, lo fece passare fuori dall'asola, sfiorando per sbaglio la pelle scoperta. Continuò allo stesso modo, rendendo di volta in volta più sensuali le sue azioni, mentre il suo sguardo andava a fissarsi in quello del giovane, dove cercava di cogliere espressioni di imbarazzo o, ancora meglio, di eccitazione. Quanto gliele avrebbe rinfacciate non appena fossero usciti! Peccato che non riuscisse a distinguere un qualsiasi sentimento forte sulla sua faccia, anzi sembrava che non lo provocasse in alcun modo.

«Hai finito?» chiese lui, una punta di irritazione nella sua voce. «Non vorrei interrompere qualsiasi cosa tu voglia fare con la mia camicia, ma gradirei che mi fosse tolta la corda dai polsi».

Un po' delusa per non essere riuscita nel suo intento, Bellatrix proseguì l'operazione. Quando la camicia fu abbastanza aperta da poter rivelare la tasca a cui Mijime faceva riferimento, la giovane infilò dentro la mano, afferrando l'arma per l'elsa. Dopo averla estratta la posò al suo fianco e rimise le mani sui lembi dell'indumento, per riallacciarlo.

«Non importa: lo farò da solo dopo» disse in tutta fretta Mijime. «Procedi con il taglio».
«Ai suoi ordini, signore» sorrise Bellatrix, riprendendo il coltello e spostandosi dietro di lui: quando sarebbero usciti da quell'oscura prigione gli avrebbe ricordato l'irritazione con cui si era rivolto a lei in quei momenti.
"Eri per caso imbarazzato, mio caro?" Già si pregustava la scena.

La giovane posizionò la lama sotto la corda e con un movimento veloce la sollevò verso l'alto, recidendo la fune in un colpo solo. Compì lo stesso procedimento con il laccio che legava i propri piedi: finalmente poté alzarsi, vacillando dapprima a causa delle gambe intorpidite per essere state a lungo costrette nella stessa posizione.

Porse nuovamente il coltello a Mijime, che si liberò a sua volta delle corde attorno alle caviglie e si rimise in piedi.
«Era ora» disse, riponendo con cura l'arma nella tasca della camicia e iniziando a richiuderla.
«Adesso che siamo liberi possiamo anche andarcene» affermò Bellatrix tutta contenta, saltellando da un piede all'altro mentre guardava verso l'alto, dove si trovava la botola da cui erano caduti. «Non è molto in alto: se salissi sulle tue spalle forse potrei arrivare ad aprirla e...»

Ma Mijime ridacchiava, con il suo ghigno sarcastico, e Bellatrix si interruppe, sbuffando: com'era possibile che quello avesse sempre qualcosa da contestare?
«Cosa c'è adesso? Ho detto qualcosa di così strano?» chiese piuttosto irritata. «Sentiamo: come vuoi uscire? Facendoti spuntare le ali?»
«Si vede che non sei mai stata in prigione» continuò lui, sorridendo.
«Sì, invece» affermò con fermezza Bellatrix.
«Come detenuta?»
«Ma certo che no!»
«Appunto». Mijime chiuse gli occhi e scosse la testa. «In realtà chiunque potrebbe capire questa cosa basilare: prima di scappare devi conoscere alla perfezione il luogo e gli aguzzini».

«Quindi tu sei stato in prigione?» chiese Bellatrix, sorniona: ecco un'altra occasione per fargliela pagare. «Ma come? Non eri il criminale che riesce a rimanere sempre nell'ombra? Ah, no, non criminale. Come ti eri definito? Sì, ecco: fornitore di notizie per i giornalisti. Quindi questa leggenda sarebbe finita in prigione?»

«Intanto, non penso tu sia nella giusta posizione per criticarmi: non mi sembri essere la regina delle spie, da quanto ho potuto notare qui sull'isola» iniziò Mijime, continuando a sorridere beffardo. «In secondo luogo, nessuno nasce già esperto: ho acquisito una certa abilità solo con il tempo, ma da adolescente ho avuto un periodo di assestamento. E sì, a quattordici anni ho passato qualche mese in un riformatorio, da cui sono riuscito a evadere con successo. Non denigrarmi, mia cara: questa esperienza potrebbe tornarci utile per riuscire a togliere il disturbo da questa cantina putrida».

Bellatrix si morse la lingua, pur sentendosi profondamente colpita all'orgoglio: capiva che sarebbe stato infruttuoso intraprendere l'ennesima lite. Avrebbe conservato tutte le sue risposte e quando fossero usciti gliele avrebbe sputate in faccia.
«Bene» disse, irritata, ma senza mostrare risentimento. «Ti ascolto, di' quello che faresti».

«Per evadere facilmente e senza crucciarsi troppo, basterebbe ingraziarsi le guardie, cosa che qui mi sembra a dir poco impossibile: i mocciosi ci odiano e non esiste un modo per farli passare dalla nostra parte, se non forse renderli di nuovo adulti o consegnar loro il tesoro» iniziò a spiegare Mijime. «L'unica cosa che potremmo fare è trovare una via di fuga; ma, attenta, non è così semplice come sembra: nel caso ci fosse, dovremmo essere pratici del luogo e soprattutto dei movimenti dei bambini durante il giorno, per poter prevedere il momento più adatto alla fuga. Non è detto però che ci sia, e, anzi, mi sembra piuttosto improbabile. In tal caso, saremo noi a crearla, e per farlo dovremo conoscere ancora meglio questo sotterraneo. Tutto ciò per dirti che, per iniziare, bisogna percorrere ogni centimetro della nostra cella, fino a conoscerla a memoria. E non solo: anche ascoltare con attenzione quello che succede fuori, per imparare e arrivare a intuire ogni mossa e abitudine dei mocciosi».

«Ci metteremo un'eternità, ne sei consapevole?» sottolineò Bellatrix, preoccupata: il loro soggiorno non sarebbe stato breve come aveva sperato.
«Non ho mai detto il contrario: perché la nostra fuga vada a buon fine, serve tempo. Altrimenti puoi provare a scavare una buca già adesso, pregando che durante il percorso tu non rimanga bloccata sotto i cumuli di terra oppure che tu, supponendo anche che riuscissi a tornare all'aria aperta, non venga catturata dai ragazzini».
«Hai messo in conto che potremmo non avere mezzi per vivere, durante il tempo da trascorrere qui sotto?»
«Sì, ci ho pensato: anche per questo dobbiamo iniziare a controllare questo spazio. Mi sembra utopico, ma potremmo trovare qualcosa per sopravvivere il tempo necessario a fuggire».

«Va bene» sospirò rassegnata Bellatrix. «Non mi pare che abbiamo molte alternative, quindi...» esitò, scrutando intorno a sé con attenzione per la prima volta: nel buio si intravedeva che lo spazio proseguiva sia a destra che a sinistra. «Quindi dividiamoci, per ottimizzare i tempi: io andrò a dare un'occhiata a tutto quello che c'è a destra, tu, al contrario, dall'altra parte».

La giovane si era già voltata per andare a perquisire la zona di prigione che si era accaparrata, quando sentì una mano di Mijime posarsi sulla sua spalla. Girandosi, i misteriosi occhi di lui la stavano squadrando, rigorosi, come se tutto ciò che fosse accaduto di lì in avanti avrebbe segnato completamente le loro vite, come se anche soltanto un loro minimo errore avrebbe potuto portarli alla rovina. E così era.

«Se dovessi trovare qualcosa di interessante non urlare: anzi, non alzare mai la voce, finché resteremo qui dentro. Solo uno strato non so quanto spesso di terra ci separa dai nostri carcerieri: potrebbero ascoltare i nostri discorsi anche se mantenessimo un tono di voce normale. Non devono minimamente sospettare che stiamo organizzando la fuga. Quando avremo finito ritroviamoci qui: solo allora potremo discutere. Non dobbiamo fare nulla in modo frettoloso».

Mijime sgranò maggiormente gli occhi e diminuì la distanza tra loro. «Capito?» le intimò.
«E non guardarmi così!» protestò Bellatrix, scansando la mano del giovane dal suo corpo e allontanandosi, già protesa verso la parte che avrebbe esplorato. «Ho capito: pensi che sia del tutto idiota?»
«No, tutt'altro, e proprio per questo mi aspetto che tu non commetta stupidaggini. Niente mosse avventate» scandì infine. «Eri un'agente segreto: in teoria non dovrei dirtelo...»

«Va bene, va bene: sarò muta come un pesce» tagliò corto Bellatrix: era inutile che le rinfacciasse che, pur essendo stata una spia, sembrava che avesse le stesse abilità di una persona comune. Secondo lui, lei stessa non si era accorta del proprio cambiamento, che sembrava ancora in corso? Nemmeno lei non riusciva a capacitarsene: pareva che si fosse dimenticata ogni nozione, ogni tecnica, ogni esperienza che aveva accumulato nel corso di anni. Nelle sue precedenti condizioni come avrebbe potuto farsi catturare da dei bambini, lei che aveva fronteggiato per anni il crimine.

Ignorando la donna dai ricci neri che, come al solito quando si immergeva in quei pensieri, le si era presentata davanti per rimproverarla a sua volta, si inoltrò nella zona d'ombra che intravedeva davanti a lei.

Mijime le voltò le spalle, pronto a controllare la parte di sinistra, stupendosi già da subito di come quel luogo non fosse affatto piccolo. Ma come avevano fatto quei bambini a costruire degli spazi sotterranei così articolati, senza pavimentazioni, murature o, almeno, travi di legno o blocchi di pietra che sorreggessero il soffitto? Era stato tutto scavato e basta. Oltre allo spazio in cui erano caduti, c'erano altri due ambienti di dimensioni minori, collegati a quello maggiore tramite due corridoi. Forse una struttura simile poteva essere speculare anche dall'altra parte. Se lo sarebbe fatto dire da Bellatrix, una volta che avessero finito di ispezionare.

Continuando a camminare, urtò per sbaglio qualcosa di liscio e duro: ossa, con ogni probabilità umane. Evidentemente non erano i primi prigionieri dei bambini. Incuriosito, ne afferrò uno, constatando meglio come tutto ciò che lo ricopriva era solo la polvere che impregnava quel luogo: chissà quanto doveva essere vecchio, per non presentare più neanche una minuscola particella di carne in macerazione. Se lo gettò alle spalle, non essendo certo utile alla sua ricerca, se non come ammonizione: la loro fuga sarebbe stata più ardua del previsto.

Entrò nel primo ambiente che si trovò davanti, notando con un certo ribrezzo di non essere solo: dal soffitto cadeva ogni specie di aracnide, mentre in mezzo alla polvere strisciavano blatte dalle più svariate dimensioni; serpenti più o meno grandi accompagnavano gli altri insetti in quel disgustoso andirivieni.

Mijime sentì uno di quei rettili striscianti avvicinarsi a lui per provare a morderlo. Velocemente prese il coltello e glielo lanciò addosso, tranciando il corpo dell'animale a metà. Proseguì, distogliendo lo sguardo da quella creatura. Quegli esseri lo ripugnavano più di tutti gli altri: soprattutto i più piccoli, quelli maggiormente subdoli e silenziosi, che si avvicinano alle caviglie degli uomini strisciando, senza farsi notare, emettendo solo un impercettibile sibilo, per poi attaccarli con il loro veleno quando meno se lo aspettano. Gli ricordavano così tanto se stesso: forse era per quello che non li sopportava.

Se lo spazio in cui erano capitati era praticamente occupato solo dai resti dei corpi dei precedenti prigionieri, le due stanze laterali erano piene di contenitori di più o meno grandi dimensioni. Si avvicinò ad essi speranzoso: magari contenevano qualche utensile utile o qualche provvista essiccata. Dopo un'occhiata generale, aveva subito capito che sarebbero occorsi almeno tre giorni per organizzare una fuga ben strutturata. Avevano bisogno di acqua e cibo.

Prese a frugare all'interno di uno di quelli che sembravano bauli, sperando di trovare piccoli sacchetti di pelle contenenti un po' di frutta secca o, ancora meglio, della carne. Chissà, forse i bambini tenevano alcune provviste là sotto. Ma non ci fu nulla da fare: tutto ciò che tastava erano materiali duri e compatti, probabilmente metallici.

L'oscurità e il vistoso strato di polvere che li sovrastava non gli permettevano di distinguerli bene, ma sembravano piccoli monili. Ne prese uno, per curiosità, e lo ripulì alla meglio dalla sporcizia: un piccolo ciondolo arrugginito, all'interno del quale era presente un minuscolo dipinto a olio sbiadito dal tempo, raffigurante il profilo di una donna graziosa ed elegante.

Continuò a frugare tra quel ciarpame, toccando spille, fermagli, piccoli braccialetti e tanti altri gioielli. Tutti gli averi che erano stati dei bambini. Gli tornò alla mente la loro storia, tra tutte quelle dei clan dell'isola ascoltate fino ad allora, la più raccapricciante e paradossale: a una prima riflessione poteva anche non sembrare così terribile, ma se ci si pensava bene la circostanza in cui vivevano era tremenda.

Avere i ricordi di una vita passata e sapere che non avrebbero mai più potuto riottenerla. Non avrebbero più potuto avere pensieri complessi, pur sapendo che erano riusciti a formularli; non avrebbero più potuto esprimersi come avrebbero davvero voluto, come invece sapevano di aver fatto; non avrebbero più compreso appieno il significato dei sentimenti e delle emozioni, pur avendole un tempo provate. Erano consapevoli dell'esistenza di una vita migliore, più piena, più varia del loro modo di trascorrere il tempo in giornate monotone, tutte uguali le une alle altre, non sapendo in che altra maniera andare avanti, ma quella vita non era per loro. Non più.

Mijime osservò più attentamente il primo ciondolo che gli era capitato in mano: la donna che era raffigurata sorrideva. Sembrava felice. Forse lo era stata.

E allora, cos'era meglio? Vivere nell'infelicità con la consapevolezza di essere stati felici un tempo, o essere infelici da sempre, senza aver mai sperimentato alcuna gioia in tutta la vita?

Forse poteva ritenersi fortunato o, almeno, di più rispetto ai membri di Ton Paidon: per lo meno non avrebbe mai avuto la nostalgia di qualcosa di bello che non sarebbe più arrivato. Non aveva mai avuto niente, cosa doveva rimpiangere? Da piccolo, quella situazione gli era parsa un'ingiustizia così grave, ma adesso non faceva che accettarla con indifferenza, come faceva con ogni cosa, del resto.

Persino la permanenza sull'isola non lo toccava particolarmente. Nell'Exo, in fin dei conti, cosa c'era per cui valesse la pena tornare? Nulla: nessuno lo stava aspettando, nessun parente, nessun amico, nemmeno un cane. Il suo lavoro, se così poteva definirlo, non era davvero importante: era piuttosto qualcosa per passare il tempo e ingannarsi di essere accettato e apprezzato da altre persone. O temuto, a seconda del punto di vista: l'importante era essere considerato.
Ma anche tutto questo era totalmente superficiale: nessuno gli aveva mai badato e aveva avuto bisogno che qualcuno lo notasse. Il modo non gli era mai importato: ciò che contava era non rimanere ignorato.

Forse allora valeva la pena tornare per riprendere gli incarichi che si prefissava, quelli che definiva i suoi giochetti. Nemmeno quello. Aveva visto le missioni che si poneva davanti come delle sfide per aumentare ancora di più la sua intelligenza. Non erano altro che un autocompiacimento, necessitando di trovare qualche motivo per piacersi, per non guardarsi allo specchio ed essere catturato dall'impulso di farlo a pezzi. La sua sagacia era tutto ciò che apprezzava e portarla ai livelli più alti possibili lo aveva aiutato di conseguenza a non detestarsi.

Quella era l'unica cosa a cui avesse mai tenuto; quella e la vita. Per quanto fosse sempre stata detestabile, gli era sempre stata cara, quasi come se un istinto primordiale emergesse e lo aiutasse a lottare a non cadere nella più totale depressione, a combattere perché, chissà, magari un giorno qualcosa sarebbe cambiato. Quella era la sua vera missione: diventare felice. Se lo ripeteva da quando aveva sette anni ma, a parte il reddito, tutto era rimasto invariato.

Forse però una possibilità c'era, continuava a sperarlo, ma se gli fosse venuta a mancare la vita non avrebbe mai potuto realizzarsi e sarebbe morto con, alle spalle, solo un'esistenza miserabile. Questo in realtà, lo sapeva, era l'unico motivo per andarsene dall'isola, per tornare nell'Exo: forse sarebbe accaduto qualcosa che avrebbe dato una svolta alla sua vita. Finché fosse rimasto su quel maledetto territorio, però, non avrebbe fatto altro che metterla a rischio, soprattutto essendo vincolata a un branco di idioti. Per quanto fosse un processo illogico, per quanto sembrasse impossibile, doveva andarsene.

Gettò il ciondolo in mezzo agli altri monili e passò oltre: non doveva pensare ancora al suo passato. Lo aveva già fatto troppo a lungo. Iniziò a ispezionare il resto della prima stanza annessa alla loro prigione. Vasi, vasi e altri vasi: sembravano resistenti e di buoni materiali. Peccato che contenessero solo insetti disgustosi.

Continuava a guardarsi intorno ma aveva esaminato già tutti gli oggetti: gli restavano da controllare le pareti, il loro livello di spessore, la composizione... Per fare un buon lavoro gli sarebbe occorso parecchio tempo.
"Speriamo che Bellatrix sia stata più fortunata di me" si diceva, iniziando a percorrere con le dita il muro, decorato da piccole incisioni frettolose, sicuramente lasciate dai precedenti prigionieri.

Paura, angoscia, terrore: quelle erano le emozioni che scaturivano, toccando, intravedendo nel buio quelle linee spezzate, scalfite nella pietra con oggetti che avevano lanciato il grido delle unghie che stridono graffiando il muro. Quanta disperazione serviva per arrivare a una tale espressione di orrore? Cos'era accaduto a quegli uomini perché incidessero la parete della loro prigione? Erano impazziti, per carenza di mezzi per vivere, o anche solo per l'oscenità della loro cella? No, non bastava la follia. Non erano stati spinti a dilaniare il muro solo da un raccapriccio interiore, ma aveva contribuito un elemento esterno.

Soffrire, morire, sacrificare, tagliare, sgozzare, arrostire. Queste erano le intenzioni di Ton Paidon contro lui e Bellatrix. Non dovevano essere state diverse per i loro predecessori, torturati fino a scolpire il loro animo angoscioso direttamente sulla pietra.

Soltanto vedendo quelle incisioni confusionarie e inquietanti percepiva nella sua mente le urla di dolore, disumane, emesse mentre le risate dei bambini, così paradossalmente malvagie, si levavano in alto fondendosi in un solo suono dissonante con i ruggiti di sofferenza dei malcapitati.

Era come se fossero lì, dalla parte della prigione opposta alla sua, negli spazi a destra. La voce stridula di una donna gli perforò i timpani, giungendogli chiara ed evidente: sembrava reale. Non era disperazione, non era dolore, non era rabbia, non era un sentimento quello del suo grido: era solo un verso bestiale, ferino, privato da ogni umana emozione per i supplizi dei bambini malefici.

Il grido continuava.
"È solo nella mia testa" provò a dirsi, premendosi le mani sulle tempie perché quello si dissolvesse e iniziando a canticchiare la prima melodia dolce che gli sovvenne, tanto per distrarsi. Ma l'urlo copriva persino quella. L'intensità era sempre la stessa, variando appena, forse a seconda delle crudeltà subite. E continuava, continuava, sembrava non volesse avere fine.

Le sue orecchie non sarebbero riuscite a sopportarlo ancora: doveva distrarsi, cancellare quel pensiero. Mormorò con più convinzione la melodia allegra e spensierata che aveva bene in mente, ma più cercava di distogliersi dal grido, più quello gli perforava i timpani, più diveniva chiaro, tanto che, agghiacciando, ne riconobbe il timbro della voce.

Bellatrix.

~

Hola!
Tan tan taaaaaan! Un po' di suspence non guasta mai eheh! Ma prima di arrivare a quest'ultima parte, cerchiamo di esaminare il capitolo con un po' di lucidità in più: dopotutto, è la prima volta in cui Mijime, lasciandosi andare un po' di più ai suoi ricordi, ci rivela qualcosa di se stesso. Non è mai stato felice.
Lettore x: che grande scoperta!
Uff, come sei impaziente! Se vi dicessimo tutto subito che gusto ci sarebbe a proseguire? Non è forse meglio andare per gradi, hihi? Vabbè, siamo sinceri, la prima parte del capitolo è sostanzialmente statica, se non per le idee bislacche che vengono in mente a Bellatrix per vendicarsi di Mijime (sempre con un tempismo incredibile). La parte interessante (si speraaa 😅😅😅😅😅) è la fine: cosa mai sarà successo a Bellatrix???? Esponete tutte le vostre ipotesi qui nei commenti e, se volete, dateci un parere di questo capitolo. Promettiamo che il prossimo sarà decisamente migliore. Come potrei definirlo? Più... movimentato. Sì, proprio movimentato, capirete anche voi perché. E detto questo vi salutiamo!
~le vostre simpaticissime 🐼🐢

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