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La luna si stava mostrando, lasciando intravedere solo la sua metà sinistra, il restante candore occultato dietro la buia cortina notturna. Tutti sapevano che allora era quella la forma della luna, benché la fitta rete di foglie e rami la celasse agli occhi dei mortali della foresta.

Sulla piattaforma continuava a baluginare la calda luce delle fiaccole, che avevano visto solo poche ore prima i guerrieri tutti, equipaggiati con il loro armamentario, una volta intonato l'inno di guerra, abbandonare il cuore del clan, forse per sempre. E il movimento del fuoco persisteva ancora, nulla lo estingueva. Proprio come l'animo di Tou Gheneiou.

Molti di coloro rimasti al sicuro erano tornati agli oikaria, già predisposti con tutto l'occorrente per curare i feriti, ma Em e Raya erano ancora in piedi sotto il simbolo del clan, in silenzio, mantenendo la testa bassa, per fissare gli occhi sui tronchi percorsi dai compagni. Quanti li avrebbero calpestati ancora, quanti avrebbero potuto ricordare il canto levato non appena era calata la notte? Quel canto antico, che spronava al coraggio e al valore, che esortava a morire per la propria gente. Per quanti si sarebbe rivelato un canto profetico? Magari lo aveva già fatto. Chissà se la battaglia era iniziata...

Em guardò di sottecchi Raya, turbata come non l'aveva mai vista, ancor più di quando aveva appreso la notizia della guerra. Non poteva essere diversamente: il giorno era giunto.

«Raya,» la chiamò, prendendole una mano per infonderle una forza che fingeva soltanto di avere, «andrà tutto bene».
La mano della ragazza si strinse alla sua. «Em, io... ho come l'impressione che potrei perdere tutto da un momento all'altro. Kairos è tutto ciò che ho!»

E come poteva biasimarla? Em stessa temeva che ciò che aveva ottenuto a Tou Gheneiou, quel bene immateriale che mai avrebbe pensato di possedere, potesse andare in frantumi. Era terrorizzata dalla prospettiva della morte di ognuno degli amici che stavano andando a combattere: Morag, Kairos, Germanico, Spiro. Sentiva le loro vite pesare già sulla sua coscienza; del resto, in parte era la responsabile delle imminenti vicende.

«Andrà... tutto bene» ripeté, cercando di convincersi lei stessa delle sue parole. Purtroppo non sarebbe stata la loro speranza a determinare gli eventi. Ma non potevano più stare in quello stato di inerzia: all'oikarion, Anita preparava instancabilmente la sua lozione curativa, mentre i ragazzi dovevano essere dispersi nel villaggio a consegnarla a tutte le piattaforme di cura. «Forza, andiamo dagli altri. Ci staranno aspettando».

~

Centinaia di uomini si trovavano sopra gli enormi rami degli alberi di quel tratto di foresta. Ad alcuni cadevano le palpebre, rimpiangendo le calde capanne che avrebbero occupato, se non fossero stati costretti a indossare la cintura carica di bronzo; altri conversavano tranquillamente, cercando di evitare di parlare di cosa sarebbe successo, e discorrendo su facezie quotidiane; altri ancora, evitavano gli sguardi dei compagni, si rinchiudevano in loro stessi, inorridendo per lo scempio che erano chiamati a compiere.

Tra questi una donna nella prima fila, né giovane né vecchia, appesantita più dalla spada che pendeva dalla cintura che dal peso degli anni, teneva la testa bassa e intrecciava instancabilmente le dita, le une con le altre, tirandole, scrocchiandole, creando le forme più improbabili.

«Che c'è, cara?» Con dolcezza una mano le aveva preso il volto, perché si voltasse. Gli occhi che aveva amato la osservavano con premura, accortisi certo dello stato irrequieto in cui riversava.

«Che c'è?» ripeté la donna, retorica, in un sussurro: non poteva farsi sentire da nessun altro. «E me lo chiedi anche? Sarà una strage senza alcun senso».
L'uomo sospirò, senza staccare la mano dal volto di lei. «Lo so, nemmeno io vorrei andare a far ciò che ci ordina la Geisha, ma questa è la sua scelta e noi dobbiamo onorarla».

Certo, logicamente era così. Quella donna - quella ragazza: aveva solo ventiquattro anni, la stessa età del minore dei suoi fratelli - aveva deciso di sacrificarsi per tutti loro, atto per nulla scontato. Ogni volta che ne moriva una, il clan temeva che nessun'altra scegliesse di portare avanti il fardello che quella magnanima eroina aveva deciso di addossarsi, cinquecento anni addietro, e, di conseguenza, l'oppressore compiesse quell'azione lasciata in sospeso per tanto tempo: il loro sterminio. Assecondare allora la loro salvatrice in ogni suo progetto era il minimo che il clan potesse fare, per mostrare la sua gratitudine.

Ma la guerriera non riusciva comunque ad accettare quel destino. Non era per questo che le avevano insegnato a combattere: la spada serve per difendere i propri figli, non per sottrarre la vita a quelli degli altri.

«Pensa se fossi tu al suo posto...» tentò di farla ragionare ancora il marito, poiché lo sguardo un po' perso non scompariva dal viso di lei.
«Non serve che me lo ricordi ogni volta che non voglio obbedire a un ordine della nostra signora!» sbottò la donna, muovendo aggressivamente un passo verso di lui. Si fermò: lui non aveva colpa. «Obbedisco lo stesso, non mi opporrei mai, ma se penso che adesso sto per uccidere persino dei bambini come la nostra Fanny...» Abbassò il capo: temeva che una lacrima potesse abbandonare il suo corpo.

«Eva». Il suo nome, sulle labbra del marito che la chiamava, senza alcuna durezza, per quanto le sue fossero solo sterili lamentele. Le si era avvicinato un poco; il calore che emanava la tranquillizzò. La sua mano le scostò i capelli dagli occhi, indugiando mentre portava le varie ciocche dietro le orecchie; quel tocco la trasportò per un attimo lontano da quella foresta e la spada smise di gravare sul suo fianco. «Fanny è al sicuro perché la Geisha si è concessa a Mortino». Per l'ennesima volta la riportò alla realtà: la donna non poteva più ribattere.
«Lo so» disse, ormai arresa, piegando la testa a quella verità che non si poteva controbattere.

«Sarà breve» la rassicurò di nuovo. «Noi siamo più di quattrocento, senza contare i Mortinou, il loro clan conterà ottocento individui. E presto potremo riabbracciare Fanny». Pose due dita sotto il suo mento e glielo fece alzare: il pensiero della loro unica bambina - sebbene di bambina le fosse rimasto solo qualche tratto -, accompagnato dal sorriso buono di lui, ne fece spuntare uno analogo sul suo volto. «Pensa, adesso sta dormendo beata, sapendo che domani mattina saremo con lei a darle il buongiorno».

"Sarà breve" ripeté nella sua testa la donna. Nessuno degli sventurati immaginava la fine che avrebbero fatto di lì a poco: stavano dormendo, proprio come la sua piccola Fanny, ignari dell'arrivo della propria fine. Non avrebbero fatto in tempo a prendere le armi, a lanciarsi su di loro, sarebbero morti prima. Loro dovevano solo uccidere; se non altro, non correvano alcun rischio.

«Hai ragione» annuì con più forza la donna, intrecciando una mano in quella dell'uomo. «Posso-posso farcel-».
«Aspetta». Il guerriero si staccò da lei, scostandola da un lato e sporgendosi dal ramo: delle figure tra le ombre stavano risalendo alla loro altezza. «Gli uomini che dovevano recuperare i Mortinou sono tornati».
«I Mortinou li staranno seguendo» ipotizzò la donna, guardando oltre, per scorgere il manipolo che arrivava dalle terre del nord. Ma nessuno accompagnava i loro, neanche da lontano.

"Strano". Lanciò un'occhiata interrogativa al marito, la cui attenzione si era però spostata sulla figura irrequieta che, avvolta nel suo manto bianco, percorreva avanti e indietro il ramo per la sua larghezza, a grandi falcate.

«Allora? Siamo già in ritardo» disse, fermandosi immediatamente non appena il primo degli esploratori che erano scesi le si mostrò davanti.
«Non c'è traccia di quelli, mia signora».
«Avete cercato bene?»
«Per questo abbiamo impiegato tanto tempo, signora: abbiamo percorso tutta l'area qua sotto, alla base degli alberi, ma non ci sono, neanche l'ombra».

La chioma rossa tornò a ondeggiare avanti e indietro, mentre lei, una tigre imprigionata, riprendeva la marcia.
«Eppure avevo detto proprio qui, me lo ricordo: il luogo in cui le mangrovie e la mia giungla iniziano a mescolarsi e che confina con i territori dei Mortinou».

«Sei sicura di essere stata specifica per l'ora?» azzardò l'esploratore.
«La notte in cui la luna fosse stata a metà del suo ciclo calante!» ringhiò lei, sempre più adirata.
«Ma forse non hanno capito quale parte della notte: magari sono partiti adesso dal loro villaggio più vicino».
«No, no! L'avevano capito, quei...» si bloccò, respirando profondamente per cercare di calmarsi. «L'avevano capito, che voglio attaccare Tou Gheneiou di notte, con la luna alta nel cielo. Sono dei guerrieri anche loro, del resto, sanno che gli attacchi di notte, quando il sonno regna sovrano, sono molto più efficaci di quelli alla luce del sole».
«Certo, signora, ma la notte è lunga. Aspettiamo ancora-».

La Geisha lo prese sottobraccio, avvicinandoglisi drasticamente. Sui suoi occhi scintillò uno sprizzo di follia. «No, non un istante di più, partiamo subito. Voglio che la luna che ha visto morire mio padre e mia madre osservi bene anche la strage che sto per compiere». Lo lasciò andare, ormai incurante di quell'esploratore. Mosse un passo nella direzione di Tou Gheneiou e, senza staccare lo sguardo dal luogo del suo desiderio, concluse a gran voce, cosicché tutti i guerrieri della prima linea poterono udirla: «Che sia dato l'ordine di avanzare».

~

«Ancora niente?»

La voce di Kairos arrivò alle orecchie di Morag dai rami superiori. Si voltò appena, scorgendo il volto del ragazzo, che continuava a chiedergli puntuali aggiornamenti, non vedendo nulla dalla sua posizione, quella che era stata assegnata a tutti i Cacciatori, un poco arretrata rispetto a quella degli Avventurieri. I suoi grandi occhi azzurri erano intrisi di preoccupazione, che era andata accrescendosi con il passare delle ore: l'attesa era ancor più estenuante di ciò che doveva accadere.

«Niente» rispose Morag, tornando ad abbassare lo sguardo sui grandi tronchi, illuminati dalla luna alta nel cielo: era da almeno due ore che stavano attendendo l'arrivo dei nemici, ma la giungla di confine che si stagliava di fronte a lui persisteva nel suo silenzio.

«Il piano è fin troppo perfetto...» commentò Kairos con il tono sempre basso: dalla sua voce non faceva altro che trapelare una tensione sempre maggiore.
«Arriveranno, Kairos» continuò Morag. «Ti ho già spiegato le motivazioni della Geisha: non rinuncerà alla sua vendetta».

«Ma se non si dovesse presentare, tutto il piano fallirebbe. Non possiamo aspettare qui in eterno. Magari ha capito che siamo stati noi ad architettare la messinscena dei Mortinou, e sta solo aspettando che ce ne andiamo, per attaccarci a sorpresa» sbuffò, scosso. «Ma perché non possono soltanto parlare e accordarsi! È ingenuo, lo so, ma verrebbero salvate centinaia di vite».

«Magari fosse così» sospirò Morag, mentre nella sua mente si riproponevano gli occhi dolci e crudeli di Alycia, desiderosi di ammirare solo la sua vendetta. «Magari si scegliesse sempre la via più semplice; ma dimenticare i rancori non è facile e, anzi, serbarli nel proprio animo così a lungo come ha fatto lei fa sì che questi diventino sempre, sempre più grandi».

Tra i due calò di nuovo il silenzio, finché Kairos non lo chiamò di nuovo: «Morag, è da codardi avere paura in questa situazione? Non ho paura di morire: qua sopra, nella seconda fila tra l'altro, so di non rischiare la vita. Ho paura di non riuscire a scagliare una freccia contro di loro... Ho ucciso non so quanti meranghi durante la caccia, però erano animali. Adesso sto per ritrovarmi davanti delle persone. Magari hanno una famiglia, magari sono state felici fino a questo momento. Però sono i nemici e quindi devono essere uccisi. Morag, sono un codardo a pensare questo?»

Morag stava per rispondere all'amico, pacatamente, per tranquillizzarlo ma, all'improvviso, arrivò al suo orecchio un rumore man mano più forte, di piedi che marciavano sopra agli alberi possenti che formavano la loro strada.

«Kairos, va' alla tua postazione» ordinò secco e, dopo aver udito il frusciare delle foglie prodotto dall'amico, si sporse appena dal suo nascondiglio: erano ancora lontani e irriconoscibili ma davanti a lui aveva iniziato a rendersi visibile un'orda di combattenti che si stava rapidamente avvicinando, chi camminando sui tronchi, chi spostandosi con le liane.

Gettò un occhio dall'altra parte, dove era lo schieramento dei loro guerrieri: la giovane Genew, che nonostante tutto era stata nominata comandante per quella battaglia, in testa, caratterizzata dal suo sguardo fiero e pieno di ardore, guardava fisso davanti a sé, attendendo pazientemente lo scoppio dello scontro; la spada di Mortino - che non poteva aver avuto altro possessore se non lei - scintillava sotto i raggi della luna.

Il giovane si affrettò a prendere dietro di lui l'arco e la prima faretra, riempita con una trentina di frecce dalla punta di bronzo bagnata con il veleno: un solo colpo e qualsiasi guerriero non sarebbe stato in grado di proseguire il combattimento.

Tornò ancor più celermente alla postazione: l'esercito nemico, che ormai vedeva nella sua interezza, era quasi giunto al punto cruciale, dove sarebbe caduta sulle loro teste la pioggia di dardi, non appena Genew avesse dato loro l'ordine.

E finalmente vide anche lei, con la sua chioma focosa che risaltava nel verde della foresta. Avanzava, in testa a tutti, la spada sguainata e già protesa contro il suo nemico, il mantello che la copriva totalmente. Dalla sua posizione Morag non riusciva a cogliere l'espressione, ma sapeva che ne aveva assunto una di totale follia, per la consapevolezza che il suo unico ma vitale scopo stava per compiersi.

E avanzava, imperterrita nella sua alterigia di combattente, nella presunzione di una vittoria facile.
"Scappa, finché sei in tempo!" le avrebbe voluto gridare Morag da lassù. "Non hai ancora superato quella linea di demarcazione annunciatrice della tua fine. Scappa, Alycia!"
Ma se anche lo avesse fatto, lei non lo avrebbe ascoltato: pur di arrivare a uccidere Genew, non avrebbe risparmiato la vita di nessuno, continuando nella sua avanzata furiosa.

L'urlo di battaglia clamoroso lo tirò fuori a forza dalle sue preoccupazioni. Genew aveva dato il segno. Prese subito una freccia e la posizionò sull'arco; si sporse ancora un poco verso l'esterno, tendendo al massimo il legno e mirando contro uno dei combattenti dello schieramento nemico.

Era in procinto di togliere la vita a un uomo.
Come poteva farlo? Che diritto ne aveva? Germanico aveva ragione e le domande di Kairos erano assolutamente pertinenti. Con che coraggio sarebbe riuscito a scoccare davvero quella freccia? Ma, dall'altra parte, non farlo sarebbe stato soltanto un puro atto di egoismo e codardia, con la convinzione di voler rimanere nel giusto. Nessuno di loro poteva esserlo, nessuno lo era, per il semplice fatto che erano umani e che avevano sbagliato tutti, almeno una volta, in qualche modo. Anche quella guerra era un errore, un atto inutile portato dal rancore covato nel corpo e nella mente di una donna per tutta la vita. Loro, allora, che per primi le avevano sottratto nella felicità erano nel giusto? Chi poteva dire di esserlo davvero? Nessuno. Cercare di spiegare con una logica e trovare un primo motivo di quella barbara situazione chiamata guerra era impossibile. Tanto valeva battersi per i propri cari. O la loro morte o la morte del nemico.

Morag rivide davanti a sé i volti di tutti coloro che aveva acquisito come compagni e amici, da Kairos ai Melitos, e persino quelli dei Gheneiou che non lo avevano odiato. Rivide i volti gentili e sorridenti di quella cara famiglia che aveva accolto lui e gli altri come dei familiari stessi. E rivide il volto di superba bellezza di Em, quella giovane da cui non riusciva più a distogliere l'attenzione, che ormai aveva dimora fissa nei suoi pensieri.

Per loro, per la loro vita, per la loro felicità, macchiarsi l'animo era davvero il minimo che potesse fare. Preferiva vedere se stesso attanagliato dai più terribili rimorsi, piuttosto che sapere loro morti o schiavizzati, consapevole di non aver agito in alcun modo perché ciò non accadesse.

Scoccò la freccia.

~

Bonjour!
E con questo capitolo cortisstimo (per i nostri standard...), di introduzione, diamo inizio alla battaglia. Inizio col parlare del tempo in cui avviene, la notte: oltre alla motivazione che porta la Geisha, cioè quella di vendicarsi con le stesse condizioni in cui sono morti i suoi genitori, è da dire anche che la notte, nel mondo classico, ma non solo, era il momento in cui la battaglia veniva interrotta. Questo è un elemento importante, perché vuole mettersi nettamente in contrapposizione con le battaglie canoniche, quasi a sottolineare l'erroneità di questo evento: anche senza considerare i fasti della battaglie antiche, che potrebbero sollevare l'opinione del lettore su questo scontro, il buio e l'oscurità sono generalmente collegati a qualcosa di malvagio. Bene, tenetelo presente. In secondo luogo, non descrivo il campo di battaglia vero e proprio, se non di sfuggita, quando Morag osserva quasi per caso ciò che si trova sotto di lui. Anche questa scelta è voluta per non celebrare in nessun modo la guerra: nessuna vestizione degli eroi, nessun canto prima della battaglia (se non, anche questo, solo ricordato), nessun pensiero relativo all'onore e alla gloria. Ditemi che ve ne pare di questa scelta e se la trovate efficace ^^. Chiarito questo, passiamo alle vostre opinioni: che ne pensate di questi tre spaccati che abbiamo avuto modo di vedere, uno della gente rimasta a Tou Gheneiou, uno dei Gheisas e l'ultimo di Avventurieri e Cacciatori, al sicuro sulle cime degli alberi? Se poi, adesso che non è ancora iniziato nulla, volete supporre un totoschiatto, siamo ben contente di ascoltarvi. Fatevi avanti, non abbiate paura 😈
~🐼🐢

P.s. ricordate bene tutte le riflessioni di Morag in questo capitolo, quando leggerete la sua seconda parte: sarà importantissimo fare un confronto :)

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