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La foresta non era avvolta dalla solita quiete di ogni tardo pomeriggio, quando tutti gli animali iniziano ad assopirsi per il prossimo arrivo della notte. I giovani abitanti di quel luogo selvaggio erano in subbuglio: alcuni trasportavano legna, altri intrecciavano corde, altri si calavano in un sotterraneo, altri ancora si limitavano a gridare e a saltare in estasi per ciò che sarebbe accaduto all'alba.

In tutto quel clamore, nessuno sarebbe stato in grado di udire il flebile pianto di una piccola creatura dall'umano sembiante e i vani rimproveri della sua compagna.

«Mai avrei pensato di poter soffrire così tanto in vita mia! Una sciagura così grande...» singhiozzava, volando per la selva. «Perché a me?! Non ho fatto nulla di male, se non qualche sgarretto condonabile!»
«Piantala, Elvira: è solo un mortale» sbuffava la compagna, più insofferente a ogni attimo che passava.

«Ma, Elpenore, non capisci!» continuò a piangere la prima: Elpenore non capiva, non ne sarebbe mai stata in grado se non avesse provato la stessa esperienza che era capitata a lei. «Io lo amo!»
«Sei solo attratta dal fatto che sia un bell'uomo».

«Non è vero! Non è solo questo!» affermò con forza. «Anche...» fu costretta a mormorare, non potendo mentire alla compagna, nascondendole che il primo impulso era scattato per quell'elemento fisico. «Ma non solo! Altrimenti non avrei deciso di continuare a seguirlo, pur sapendo che Zarkros odia lui e il suo clan e potrebbe iniziare ad adirarsi anche con me».
«Be', in ogni caso te lo dovrai scordare».
«Non posso! Non posso scordare colui che amo!»

A quell'ultima esclamazione, la compagna non si contenne più. Volò fin davanti a lei, stringendola per le spalle e scuotendola con veemenza.
«Elvira! Sei dura a comprendere, ma non tanto da capire la cosa fondamentale, che tutti sanno: le fate non provano sentimenti. E, se anche tu davvero lo amassi,» concluse, arricciando il naso al pronunciare quella parola, «non potresti mai averlo».

«Lo so» sospirò la fata dei fiori, ma senza scoraggiarsi. «Ma non è questo che mi importa: mi basterebbe poterlo contemplare da lontano, senza nemmeno farmi notare, come ho fatto in questi ultimi tempi. E potrei anche accettare di non vederlo mai più, pur sapendolo in vita».

«Bene, in ogni caso, prima o poi, diventerà vecchio e brutto: lo amerai ancora?»
«Sì».
La fata degli alberi si voltò, con la chiara intenzione di abbandonarla. «Sei proprio bugiarda» continuava a borbottare, allontanandosi.

Elvira non poteva trattenerla con sé: capiva lei stessa che ciò che le stava chiedendo era una pazzia. Voleva salvare il suo mortale ma per farlo dovevano esporsi a un grandissimo rischio: se i daimona le avessero notate, o se fossero venuti a saperlo, nulla le avrebbe risparmiate. Poteva passare seguirlo tacitamente, parlare con lui, rivelargli qualche informazione in merito a loro creature; persino far crescere una radice in mezzo alla gola dell'isola delle maghe poteva essere accettabile, perché avevano un salva-esistenza abbastanza valido da mostrare davanti alla boulé. Ma quale motivazione potevano addurre davanti all'esplicito salvataggio di due mortali?

Ma la fata non si sarebbe rassegnata.
«Forse,» iniziò a dire, richiamando l'attenzione dell'altra, che, benché giunta al livello minimo di sopportazione, si girò, «quando iniziai a provare questo sentimento, forse allora la sua bellezza era essenziale. Poi però ho sentito i suoi discorsi, quelli che faceva, tutto adirato, mentre tornava nei territori del clan che lo ospitava, oppure quelli che rivolgeva alla sua compagna là sotto. Ho sempre considerato noiosi i discorsi dei mortali, ma, per una volta, siccome era lui a parlare, ho deciso di ascoltare. Sai di cosa parlava, Elpenore? Certo che no, eri occupata a ridere per gli insulsi racconti dei folletti. Tra le tante cose grazie alle quali ho compreso quanto i mortali siano in realtà interessanti, parlava della vita, quella che è l'ultima delle nostre preoccupazioni, a cui non dobbiamo nemmeno dare un senso, visto che c'è sempre e non sparisce mai. Per loro non è così: devono trovare un senso, altrimenti, sul punto di morte, pensano di aver vissuto a vuoto. Quindi cercano la felicità. Sai, però, lui non l'ha mai trovata. Per questo dico che non può morire così, non può morire ora: prima deve dare uno scopo alla sua vita, deve essere felice, e io voglio aiutarlo in questo» concluse, più determinata che mai: si sarebbe persino sacrificata per lui, se fosse stato necessario.

Elpenore rimaneva davanti a lei, sciogliendo le braccia incrociate e andandole a sbattere lungo i fianchi. «Che noia... però non ho altra scelta, se non voglio sentire parlare di queste menate da mortali per tutto il resto della mia esistenza. E va bene: ti aiuterò».
«Davvero?»
«Sì, però non ho intenzione di perdere l'esistenza o di essere punita per l'ennesima volta: si fa a modo mio».

~

Mijime teneva lo sguardo fisso davanti a sé, dondolandosi un po' avanti e indietro per fare in modo che la sua percezione del tempo accelerasse. Aspettava. Attendeva con pazienza l'ultima ora, che sapeva ormai essere prossima. Sul suo volto un sorrisetto divertito, quasi volesse prendere sul ridere lo scherzo che era da sempre stata la sua vita. Dopotutto, piangere era inutile: non lo avrebbe riportato indietro nel tempo e nemmeno avrebbe cambiato il suo passato.

Legato da capo a piedi, senza che potesse muovere un muscolo, e appeso a un ramo ad almeno cinque metri d'altezza, pur non sapendo quando i suoi aguzzini lo avessero spostato dal sotterraneo, era da un tempo interminabile che cercava di farlo scorrere più velocemente, con scarsi risultati.

Ogni tanto lanciava qualche occhiata a Bellatrix, legata di fianco a lui, con la quale si era rassegnato a comunicare. A cosa sarebbe servito, ormai?

Poco lontane provenivano le voci dei bambini, in trepidazione per l'imminente sacrificio che avrebbero compiuto, non appena fosse giunta l'alba.

«Le fiaccole sono tutte pronte?»
«Sì, Nobile Fossa».
«Le pire?»
«Arturo ha fatto crollare quella dell'adulta, ma hanno già quasi finito di sistemarla».
«Bene, bene. Quanto manca?»
«Il cielo è quasi azzurro».
«Dai, Sole, sali più veloce!»

Aveva smesso da tempo di prestare attenzione alle parole dei bambini, udendo passivamente le vocine infantili senza capire le loro argomentazioni. Non voleva pensare al momento in cui lo avrebbero issato sulla catasta di legna.

Avrebbe preferito una morte indolore e invece gli sarebbe toccato essere bruciato ancora cosciente. Be', pazienza. Non poteva aspettarsi che la fortuna gli venisse incontro negli ultimi attimi della sua vita, quando da sempre gli stava girando le spalle.
"Forse quella dell'essere arsi vivi non è neanche una delle morti peggiori" provava a consolarsi. Presto, in ogni caso, lo avrebbe sperimentato.

Guardò in alto: chissà che ora poteva essere, chissà tra quanto sarebbe giunta la sua fine. Distolse dopo poco lo sguardo, smettendo di crucciarsi inutilmente. In ogni modo, sarebbe finita, il sipario sarebbe calato sulle sue drammatiche vicende e sarebbe scomparso per sempre dal mondo e dalle menti della gente: figuriamoci se qualcuno avrebbe avuto la volontà di ricordarlo!

Così si compiva il destino che le maghe avevano profetizzato per lui. Mijime. Miserabile, nella sua maledetta lingua di origine. Quella parola che aveva sempre odiato, ma che continuava a perseguitarlo da quando ne aveva memoria.

Aveva capito dal primo momento in cui le fate l'avevano pronunciata che nulla di lì in avanti sarebbe andato bene; eppure aveva comunque cercato di mutare il futuro a suo favore, di fare in modo che quel nome non lo condizionasse, cercando di scappare dall'isola prima che fosse troppo tardi.

E invece eccolo lì. A penzolare da un albero dopo essere stato catturato da un clan di bambini e aver trascorso una settimana in un sotteraneo putrido a mangiare insetti, con la sola compagnia di una giovane spia moribonda e senza piedi. A ripensarci, quella situazione pareva una barzelletta, seppur di pessimo gusto.

Lanciò uno sguardo fugace a Bellatrix: la sua condizione non era molto cambiata rispetto a quando si trovavano sottoterra, se non per il fatto che dove era ora poteva respirare un'aria più pulita. Come se cambiasse qualcosa. La sua pelle era colorata dalla tinta dei cadaveri, gli occhi chiusi e la testa piegata sulla spalla sinistra. Aveva smesso di mormorare, persino di emettere quel suono raggelante che era stato il sottofondo dell'ultima settimana. Probabilmente, per lei la morte sarebbe stata una liberazione, se non aveva già abbandonato il mondo dei vivi.

Ragionando sul nome di lei, però, la situazione ancora non tornava: secondo la parola che le maghe le avevano imposto, doveva essere destinata a compiere qualcosa di eccezionale o, almeno, a combattere. Bellatrix, una delle stelle più luminose del firmamento oppure guerriera, avevano detto le maghe. Eppure non era successa né l'una né l'altra cosa. Forse le due megere glielo avevano affibbiato solo perché di lì a poco avrebbe preso fuoco, bruciando proprio come una stella.

"L'umorismo di quelle creature sarebbe esilarante, se non mi toccasse personalmente".

E così in tutto il tempo che loro erano rimasti in "viaggio", gli altri del loro clan dovevano essere riusciti a uccidere Mortino: evidentemente la profezia doveva essersi avverata se loro adesso stavano per morire.
Mijime si chiedeva, pur sapendo che la sua curiosità non sarebbe mai stata appagata, come fosse possibile che quell'inetto di Germanico fosse stato davvero in grado di togliere la vita a Mortino, quando anche lui stesso si era trovato in difficoltà affrontandolo. Be', buon per loro. O, viceversa, peggio per loro. Forse in quel momento stavano festeggiando per la morte del più spaventoso di tutti gli uomini dell'isola e, un attimo dopo, si sarebbero trovati senza vita.
Qualora due ne moriranno, gli altri li seguiranno.
Avevano ucciso Mortino per niente.

Mijime sospirò ancora. Per quanto cercasse di vedere in modo sarcastico quella circostanza, non ne era più capace. La sua mente era spezzata: da un lato voleva ridicolizzare gli ultimi momenti della sua vita, come da sempre aveva imparato a fare negli attimi più bui per evitare un totale sconforto, ma dall'altro si rifiutava di trascorrere in modo tanto superficiale anche gli istanti prima della morte. Voleva riflettere su quella che era stata la sua esistenza. Ma così avrebbe dovuto ricordare! No, no, era meglio continuare a pensare ad Arla che forse li stava osservando e sghignazzava, crudele come il destino.

Ma a un tratto una luce provenne dalla vegetazione. Cos'era? Il giovane cercò di sforzare lo sguardo verso quella direzione per poter almeno farsi un'idea di cosa fosse: piano piano la luce stava aumentando, come se il sole stesse sorgendo.

Mijime sussultò: ecco l'alba, e la pira dietro di lui era pronta a ospitarlo. Chi voleva prendere in giro quando scherzava su quello che gli sarebbe accaduto? Ne era terrorizzato e, adesso che si stava per realizzare, più che mai! Si strinse a sé, per quanto poteva, quasi sentisse già i piedi, le gambe, tutto il corpo in fiamme. Che atrocità! Non poteva accadere, non poteva accadere!

«Oh, ecco, Selena, eccoli lì! Siamo arrivate in tempo!»

Il giovane alzò un poco la testa, talmente stranito da accantonare per un attimo il pensiero della sua morte, attratto e sorpreso da quella voce così limpida e poco umana. Non era l'alba che aveva provocato quel cambiamento di luminosità: una figura femminile era sbucata dagli alberi, maestosa, sublime per la bellezza, ma soprattutto lucente. Una luce calda e rassicurante, come quella del sole al suo sorgere, si diffondeva dalla pelle abbronzata e andava a coprire tutto il resto, persino gli accesi colori rosa e bruno degli esserini che le volavano davanti, frenetiche.

In un primo momento impassibile, segnata solo da un lieve sorriso sereno, ma, non appena Mijime poté scorgere gli occhi atri e brillanti che si erano sollevati su di lui, un turbamento leggero come un fil di vento la scosse al pari di una tempesta: lacrime dense e dorate abbellirono il terreno melmoso.

«Povere creature!» Tra i rumori trepidanti dei bambini in festa, il melodioso mormorio giunse fino alle orecchie di Mijime: una carezza, morbida e calma, capace di annullare lo stridore circostante. La sua doveva essere un'esclamazione, ma il tono di voce era talmente pacato che pareva solo affermativo. «Non si meritano questo... No, no di certo!»

Elvira si posò sui capelli della creatura.
«Li puoi aiutare?» chiese, il tono quasi implorante. Mijime non credeva di aver sentito bene: quelle tre erano davvero venute per loro? Ma per quale scopo? Perché andare contro alle leggi dei daimona per dei mortali? Se già era incredibile che Elvira, che più di una volta gli aveva manifestato il suo supposto interesse, fosse arrivata a tanto, per la nuova arrivata, Selena, era ancora più inspiegabile.

«Potrei, però... sapete...» Ecco infatti che tentennava. Mijime tornò ad abbandonarsi alla stretta delle corde: anche quella era stata l'ennesima illusione.
«Ma non se ne accorgeranno!» insisté la fata dei fiori.
«Una mia sorella fu eliminata, in questo modo...»
«Ma, Selena, oggi hai il nostro aiuto!»
«Mh, è vero, siete molto intelligenti. Però il mio genitore e i suoi fratelli lo sono di più...»

"Elvira, ma perché ti dai tanto da fare?" scuoteva la testa il giovane. Avrebbe davvero desiderato una risposta: perché una creatura che è risaputo non essere capace di provare sentimenti, se non minimi e superficiali, si stava comportando come se davvero le premesse la vita di un uomo, come se tenesse a lui, come se l'amasse?

Un'altra luce baluginò alle sue spalle: calda, scottante, focosa. Mijime sgranò gli occhi e subito i timpani furono lacerati dall'incredibile urlo levato dai bambini.
"Elvira, costi quel che costi, fammi scendere da qui!"

Anche la fata dovette accorgersi della pira che aveva preso fuoco, rimanendo bloccata nella posizione che aveva preso poco prima che iniziasse a vedere tra gli arbusti le fiamme che Mijime percepiva soltanto. Fu allora che Elpenore, immobile e zitta fino ad allora, si pose davanti agli occhi della creatura divina.
«Selena,» la chiamò, perentoria, «ma te l'abbiamo raccontata, la loro storia?»
«Uhm... non che ricordi» fece l'altra, solleticandosi il mento con le dita, un po' trasognata. «Però la mia memoria è debole».
«Allora è il momento: ascolta, o ninfa Selena, padrona di questa foresta, come il destino fu crudele con i mortali che vedi davanti a te».

Cos'aveva in mente, quell'esserino? Un presentimento gli suggeriva che era qualcosa che lo avrebbe reso ridicolo davanti alla ninfa. In quel momento, però, pur di scampare alle fiamme che si alzavano dietro di lui, avrebbe accettato qualsiasi umiliazione.

«Vengono da un piccolo clan di neoteroi, venti trenta mortali in tutto, costretto a vagare per l'isola perché nessuno vuole ospitarli».

Mijime alzò gli occhi al cielo: ecco che Elpenore si stava reinventando il loro passato, in modo che potesse compiacere la ninfa e intrattenerla - del resto, questo erano gli uomini, agli occhi degli immortali. E, se ricordava bene dai discorsi delle due fate, l'unico pensiero che dilettasse le divinità seconde solo ai daimona erano le storie d'amore. Se tragiche, ovviamente riscontravano più consenso.
Be', che si godesse quella messinscena anche lui, a questo punto. Era in realtà piuttosto curioso di scoprire cos'avessero architettato quei due esserini che aveva sempre ritenuto di scarse capacità intellettuali. Forse doveva ricredersi.

«Questi sventurati, da quando giunsero, hanno patito la fame, non conoscendo alcun modo per trovare il cibo da sé - sono neoteroi, non le sanno queste cose e nessuno gliele ha insegnate. Così, ancora adesso, tutto ciò che fanno è provare ad avvicinarsi ad altri clan, supplicando e umiliandosi, per poter mangiare qualcosa - perché sai che i mortali devono mangiare, altrimenti muoiono. Poche volte ottengono qualcosa, oltre a essere cacciati in malo modo; il più delle volte, coloro a cui tocca fare l'elemosina vengono presi a legnate finché non tornano da dove sono venuti. In questa situazione sono cresciuti, quelli lassù, giunti ancora bambini sull'isola e vivendo senza mai conoscere un giorno di sollievo» concluse Elpenore con una nota grave, come aspettandosi un commento da parte dell'uditrice.

«È tremendo!» esclamò Selena, le cui lacrime aumentarono, pur rimanendo sempre contenuta: quello doveva essere il massimo della disperazione che poteva provare.
«Lo sappiamo!» gridò a sua volta Elpenore.
«Ma aspetta il seguito: è ben più tragico» finse Elvira, sconvolta, portandosi una mano alla fronte.

«I due crebbero e trovarono una consolazione alla loro miseria» proseguì la fata degli alberi, ammiccando in direzione della ninfa con un'espressione maliziosa, che Mijime capì subito essere l'antifona di un solo argomento. «L'amore».

"Infatti mancava ancora l'ingrediente essenziale".

«Con il loro amore riuscirono a sconfiggere ogni paura, davanti a loro si estendeva solo un futuro che poteva portare cose migliori».

"Ma guarda, tutto il miele prodotto da questo sentimentalismo stucchevole ha placato la nostra fame".

«Presto concepirono un figlio».

"Perché si sa che, una volta riottenute le energie, queste devono essere impiegate in qualche attività..."

«Erano al massimo della felicità!»
«Ma allora non è tanto triste, questa storia...» rimbrottò la ninfa, un po' perplessa.
«Abbi pazienza, Selena, abbi pazienza» la tranquillizzò Elvira, condiscendente.

«Il loro bambino nacque» riprese Elpenore, sforzando al massimo il suo sorriso, mentre Selena aveva riacquistato una perfetta serenità. «Non immagini neanche la gioia: noi mica possiamo provarne una così intensa».

Continuava a ridacchiare, ma subito mutò ancora tono, incupendosi come all'arrivo delle tenebre. «Ma non tutto il clan la condivideva: una bocca in più da sfamare era inaccettabile. I due innamorati avrebbero dovuto abbandonare il piccolo, così da non macchiarsi di omicidio con un altro membro del clan e, al contempo, eliminare il problema».
Selena era esterrefatta, al massimo delle sue possibilità: gli occhi appena sbarrati, la bocca semi aperta. «Ma... è un'ingiustizia!»
«In più proibirono loro di vedersi in qualsiasi circostanza, così che non avrebbero più potuto creare altre rogne, facendo altri bambini».
«È ancora peggio!» Le sue guance furono di nuovo solcate da due ruscelli dorati.

«Cercarono in ogni modo di opporsi, ma il giudizio era stato emesso e più sarebbe stato cambiato. Così, proprio la notte in cui sarebbero ripartiti e avrebbero dovuto abbandonare il piccolo, scapparono: non potevano separarsi e, più di tutto, non potevano lasciare il figlio. Scapparono, aiutati dal buio, corsero nella foresta vicino a cui si erano accampati. Ma anche allora il caso si mostrò avverso: una tigre, enorme, si avventò su di loro e...»

«E uccise il bambino?!» completò Selena, sporgendosi verso le fate.
«Aspetta!» esclamò Elpenore, spazientendosi. «Non uccise il bambino! Un uomo che passava proprio per quelle parti ammazzò la tigre» completò, irritata.
«Oh, menomale».

«I due gli dissero che erano neoteroi e lo pregarono di accogliere loro tre nel suo clan. Allora egli gli fece una proposta: avrebbero potuto rimanere, se avessero ottenuto dei poteri dal Vulcano, come solo i neoteroi possono fare. Così, lasciato il piccolo alle donne del clan, si misero subito in cammino, increduli anche loro della svolta che per una volta aveva avuto la loro vita».

«Avrebbero avuto una casa, avrebbero potuto costruire la loro famiglia, non avrebbero più sofferto la fame». specificò Elvira, con aria sognante.
«Ma non erano stati avvisati dei pericoli che sorgono sulla strada per arrivare a Robero» riprese Elpenore, rabbuiandosi ancora una volta. «Incapparono in Ton Paidon, che li imprigionò perché adulti, li torturò e attese con ansia il momento per sacrificarli».

«E il momento ora è giunto!» gridò Elvira, le mani tra i capelli.
«Li senti, i bambini di Tancresea, come gridano, come gioiscono?» Elpenore indicò il tratto di foresta alle spalle di Mijime, sempre più in fermento.
«Selena» aggiunse infine la fata dei fiori, supplicante. A Mijime parve di sentire un singhizzo, non forzato, come i precedenti, non finto. Lontano dagli schemi di distacco tipici di quelle creature divine. «Hanno ancora una possibilità... Possono ancora raggiungere la felicità che sperano. Fa' che il destino gli sorrida».

Selena guardava le fate e guardava poi in alto i due giovani appesi al ramo, muovendo le braccia e dondolandosi sulle gambe, come se stesse rimuginando intensamente, finché...

«Oh, va bene, mi avete convinta!» sbottò infine, alzando la mano destra con il palmo aperto. Gli occhi di Mijime si fissarono su di lei, semplicemente increduli. «Speriamo che nessun daimon stia passando di qui».

Un movimento si ripercosse su tutta la foresta. O, meglio, un non movimento. Tutto era come se si fosse fermato: le urla dei bambini, le loro corse frenetiche e tutti i più piccoli rumori della foresta si erano inibiti, lasciando il luogo in un silenzio innaturale. La luce della fiamma si era spenta. L'alba si faceva strada.

«O anime misere!» Il suono melodioso emesso dalla ninfa avvolse ogni elemento addormentato. «Che storia tristissima! Poveri voi. Che mai avete fatto per meritarvi questo? Anche se foste i peggiori malfattori tra tutti i mortali, la vostra storia d'amore non ha il diritto di essere interrotta così bruscamente. Io sono Selena, la ninfa di questa foresta che da me prende il suo nome, e vi aiuterò».

Alzò un braccio nella direzione di Mijime, muovendo le dita come se stesse pizzicando le corde di uno strumento: il giovane sentì il suo corpo man mano più libero e intanto vedeva che le funi che lo avevano avvolto stavano scomparendo un po' alla volta. Per un instante agghiacciò, temendo di cadere da quell'altezza ma, quando anche l'ultima corda sparì, continuò a rimanere in aria, fluttuando. Sempre molto lentamente, iniziò a scendere fino a toccare con i piedi il suolo e sentire di nuovo il peso del suo corpo.

Non poteva crederci. Era salvo, la sua vita era ancora in corso ed era in tempo per portare a termine i suoi buoni propositi. Sul suo volto doveva essersi formato un enorme sorriso: sentiva i muscoli facciali completamente irrigiditi. Iniziò a ridere. Non ricordava quanto tempo fosse passato dall'ultima volta in cui aveva sentito scaturire dalla sua gola una risata così gioiosa, così liberatoria.

In quel momento avrebbe espresso la sua felicità in qualsiasi modo, correndo, buttandosi a terra, gridando, ma si limitò a ridere, lasciando uscire tutta la preoccupazione che lo aveva attanagliato in quell'ultima settimana e tutta quella che aveva nascosto prima.

Ma non era ancora finita: la sua mente volò a Bellatrix e rivolse la sua attenzione alla compagna, che aveva appena iniziato a essere calata a sua volta dall'albero. Il giovane si precipitò sotto di lei e aspettò fino a ritrovarsela tra le braccia.

Gli occhi della giovane, arrossati e stanchi si aprirono flebilmente, ma a Mijime non importava di come fossero ridotti anch'essi allo stremo: erano aperti!

«Bellatrix!» esclamò, immergendo il suo volto tra i capelli della compagna, mentre la sentiva prima irrigidirsi, per poi sciogliersi fino a ricambiare l'abbraccio con tutte le sue poche forze. "Cerca di dimenticarlo, questo momento, va bene?" pensò, un po' in imbarazzo: presto avrebbe ripreso i suoi soliti atteggiamenti, ma al momento comportarsi con freddezza e distacco era un'idea che non riusciva nemmeno a contemplare.

Dopo pochi istanti la giovane cedette di nuovo e Mijime cercò di sistemarla tra le sue braccia nella posizione più confortevole che riuscisse a offrirle.
"Hai quasi finito di soffrire, te lo prometto". Le carezzò la guancia cinerea e volse gli occhi verso le tre osservatrici, particolarmente attente a ogni sua azione. Lo avrebbero aiutato ancora? La ninfa era andata oltre i suoi limiti anche riportandoli a terra: forse richiedere anche una guarigione per Bellatrix era troppo. Doveva comunque tentare.

Un po' titubante, si avvicinò, per poi inginocchiarsi al cospetto della dea.
«Meravigliosa creatura» prese a dire, prendendo una mano della divinità, liscissima e morbida, e portandosela più volte vicino al volto, mentre teneva il capo chino: l'umiltà avrebbe di certo giocato a suo favore per ingraziarsi Selena. «Grazie, grazie e ancora grazie. Sono solo un semplice mortale e non so come ripagarti. Ci hai salvati, pur sapendo che non possiamo darti nulla in cambio, pur andando contro le leggi dei daimona. Possiamo solo offrirti la nostra infinita gratitudine, in tutti i modi che ti saranno graditi».

«Mortale» iniziò a rispondere la ninfa, flemmatica, senza che i suoi occhi cessassero di lacrimare, prendendo il volto di Mijime tra le sue mani e facendo in modo che la guardasse. La luce che sprigionava si impossessò di lui. «Io l'ho fatto con piacere. Sono nata da Baal e da una mortale e sento vicini voi e le vostre emozioni, nonostante mi sia precluso sperimentarle. Vorrei più spesso portarvi il mio aiuto, se solo non mi fosse vietato... Ma con voi ho dovuto fare un'eccezione: la vostra storia mi ha toccata e avrei continuato a pensare a voi per quelli che i mortali chiamano decenni, se non vi avessi prestato soccorso, rimpiangendo di non aver agito in alcun modo per paura. Ma basta parlare di me: recatevi da Robero e ottenete i poteri, così che potrete vivere insieme per il resto della vostra breve vita mortale. Non voglio null'altro da voi».

Non era il solo intrattenimento la motivazione del suo intervento. Mijime era confuso: perché quella creatura, pur non provando emozioni, arrivava a sentirsi in dovere di aiutare loro, esseri infimi ai suoi occhi?
"Non c'è tempo! Devo solo togliere Bellatrix dalla sua condizione di non vita".

«Le tue parole indicano una profonda saggezza e un'assoluta benevolenza verso noi umani, creature così semplici e meschine rispetto a voi esseri divini» continuò Mijime, pronto ad arrivare al punto cruciale, per cui temeva ancora un rifiuto. «Spero di non peccare di tracotanza, volendo approfittare ancora della tua bontà». Con un lieve cenno del capo indicò i monconi della compagna e, dopo aver scostato il lembo di veste che le copriva la spalla, l'infezione, gonfia e annerita.

Anche Selena si inginocchiò, per osservare meglio le parti indicate dal giovane, quasi con curiosità, mentre le due fate, dietro di lei, si esibivano in espressioni disgustate. «Dimenticavo che voi umani siete così fragili» disse infine, dopo un'attenta esaminazione, ma scuotendo la testa, dispiaciuta. «Però non saprei proprio come fare...»

Mijime sentì cadersi il mondo addosso: aveva appena riottenuto la libertà ma Bellatrix non poteva essere guarita. L'esistenza della sua compagna era ancora in bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La guardò, appoggiata alla sua spalla e già riaddormentatasi, con una smorfia che le segnava il viso: stava lottando, non avrebbe smesso. Non a caso le maghe l'avevano chiamata guerriera.

Il giovane strinse i denti: lei stava combattendo e lo avrebbe fatto anche lui, senza disperarsi e continuando a essere reattivo. Avrebbe raggiunto il Vulcano, ottenuto i poteri e l'avrebbe guarita lui stesso.

«Selena». Mijime alzò la testa: a parlare, la voce indulgente, era stata Elvira. «Con loro avevano una lozione magica in grado di guarire le ferite. Ti basterebbe solo potenziarla».

Gradualmente sul volto di Selena iniziò a formarsi un'espressione sempre più stupita, finché non realizzò quello che avevano appena affermato le due fate, che continuavano a mantenere sulle loro facce due sorrisetti imbarazzati.
«Avete ragione!» esclamò la ninfa.

«Vado immediatamente a prenderla». Mijime non se lo fece ripetere: adagiò a terra Bellatrix, per poi rialzarsi e correre verso il centro del campo di Ton Paidon.

Il giovane si ritrovò nello spiazzo in cui si era risvegliato la settimana precedente legato a un palo. Tra la piattaforma dei Nobili e quella dei prigionieri, erano state formate due grandi cataste di legname, da cui si levava un fumo sottile provocato dalla rapida inibizione delle fiamme portata dalla magia della ninfa. Tutt'intorno stavano i bambini, immobili come statue, nelle posizioni più disparate: si poteva ancora percepire la frenesia che aveva avvolto quel luogo pochi istanti prima.

Mijime corse subito alla piattaforma delle panche dei Nobili. Ricordava che i bambini avevano posto lì il vaso di Anita, insieme alle armi di Dejanira e Diamantina. Si precipitò sull'impalcatura, trovando con estremo sollievo tutto ciò che era stato di loro proprietà.

Si riappropriò anche della cintura con tutti i coltelli e tornò più veloce che poté dalla ninfa. Appena affannato per lo sforzo, le porse il contenitore. Selena raccolse con un dito le lacrime depositate sulle guance e le lasciò cadere all'interno del vaso. Con un sorriso sereno, si avvicinò poi a Bellatrix e applicò un po' della lozione sulla ferita dietro la schiena. Non appena questa entrò a contatto con la sua pelle, un vapore dorato scaturì dall'infezione e un bagliore del medesimo colore le passò sotto la cute, rivolto a tutte le parti del corpo.

Fu questione di un attimo, e subito l'effetto scomparve: la giovane tornò come poco prima, ma la piaga era scomparsa e le sue guance si erano appena colorate di rosa.

La ninfa rivolse un grande sorriso a Mijime, mentre gli restituiva il vaso.
«Per le altre parti il procedimento è più lungo e non posso trattenermi ancora: il mio genitore, daimon delle piante, passa spesso per la foresta che mi ha donato. Mi auguro non abbia notato nulla. Potrai guarirla tu, in ogni caso: ricorda solo che, prima che ricrescano le parti, dovrai metterla più di una volta. Intanto, adesso, non è più in pericolo di vita: quando si risveglierà, starà benissimo» concluse con un risolino e uno sguardo malizioso.

A Mijime erano state tolte tutte le parole di bocca: non gli era mai capitato nell'arco della sua vita che gli astri gli fossero così favorevoli, tanto da non dover compiere nulla affinché le situazioni proseguissero come volesse lui. Tutta questa fortuna in una sola volta lo preoccupava, ma non aveva il tempo per pensarci. Non sapendo più come replicare ancora, si limitò ad annuire, mantenendo quel sorriso che si era ormai impossessato del suo volto.

«Adesso dirigiti in questa direzione,» continuò la ninfa, indicando il nord con un dito, «e prosegui finché non sarai giunto ai piedi del pendio di un monte: non troverai nessuno lassù e potrete stare tranquilli finché tua moglie non sarà guarita. Da lì, la strada per arrivare al Vulcano è breve».

Mijime riprese Bellatrix in braccio e si rialzò in piedi.
La ninfa si apprestò un'ultima volta a lui, carezzandogli la guancia e guardandolo con apprensione quasi materna: «Addio, bel mortale. Se anche non ci rivedremo, non ti dimenticherò mai».
«E io nemmeno».

Così dicendo, iniziò ad allontanarsi nella direzione indicatagli dalla ninfa, mentre la sua figura scompariva pian piano tra le fitte piante.

Selena attese che non fosse più visibile, dopodiché compì un piccolo movimento circolare con il polso, chiudendo a pugno la mano e riaprendola.
«Cosa... è successo?»
«Nobili! Nobili! Il fuoco! Si è spento!»
«Cosa stai dicend-?! Il fuoco si è spento, ragazzi!»

«Meglio andarsene, prima che si accorgano di noi» rise Selena, riaddentrandosi nella sua foresta.
Elpenore stava facendo per seguirla, ma si accorse con la coda dell'occhio che lo sguardo di Elvira era ancora fisso nella direzione in cui era sparito il mortale.

«Be', contenta ora?» le chiese provocatoria, con una smorfia. «Abbiamo organizzato tutto questo ma la gratitudine se l'è beccata solo Selena. Bella soddisfazione, eh?»
«In realtà...» disse Elvira, sorridente, «io non avrei potuto chiedere nulla di più».

~

Facciamo suonare le campane! Finalmente gli sventuratissimi Bellatrix e Mijime sono salvi! Usciti per puro caso, grazie a un intervento inaspettato e piuttosto cringe (speriamo con tutto il nostro cuore non troppo 😅) ma, come dice Mijime, non dobbiamo essere schizzinosi: loro sono salvi e va benissimo così. Come avrete capito, questo capitolo voleva essere anche un po' divertente (come lo sarà il prossimo) per smorzare la continua tensione che abbiamo sperimentato negli scorsi. Speriamo di esserci riuscite! Tuttavia, potremmo riassumerlo con una frase-meme: fa ridere, ma fa anche pensare, e in particolare per Elvira, Elpenore e Selena. Pur essendo elementi della storia piuttosto buffi, nascondono qualcosa di profondo anche loro. Le fate e soprattutto Selena, si è capito (ho cercato di rimarcarlo il più possibile), sono sostanzialmente in uno stato di atarassia, imperturbabilità, l'eterna serenità delle divinità di ogni religione esistente, che possono provare sentimenti ma in modo molto pacato, tanto che non sembra li stiano provando davvero. Eppure, Elvira dice di amare Mijime (sentimento non certo leggero) e Selena arriva a salvarli perché si sente toccata dalla loro storia (anche perché è svampita, ma questo è un dettaglio). Com'è possibile, allora, tutto questo? Avanzate pure le vostre ipotesi, ché tanto noi non lo riveleremo ancora per molto tempo ;).

Passiamo invece a specificare qualcosina di cui possiamo parlare:
1) perché le tre creature stanno parlando nella lingua dei mortali e non nella lingua dell'isola? Domanda più che lecita: le ninfe, pur conoscendo la lingua dell'isola, la parlano solo con i daimona. Ricordo che uno dei loro genitori (al 99% dei casi la madre) è mortale e ancor più frequentemente il territorio occupato da una ninfa (ricordo anche che sono vincolate a una sola zona in tutta l'isola) è lo stesso in cui ha abitato il genitore mortale. Fin dalla nascita sono consapevoli della loro condizione divina ma crescono insieme ai mortali finché non hanno le sembianze di giovani donne. Si sentono quindi attaccate ai mortali, come spiega Selena, e anche per questo decidono spontaneamente di parlare una delle svariate lingue umane.
2) se Selena parla di "genitore" e non di madre o di padre, è per sottolineare la neutralità del daimon da cui è stata generata. Erola prende per lo più sembianze femminili, ma al concepimento di Selena era divenuta uomo, per questo la ninfa si rivolge a lei o al maschile o cercando di non specificare.
3) anche nello scorso capitolo la presenza della luce, dell'alba in particolare, è piuttosto evidente e ha pressapoco lo stesso significato che ho voluto attribuirle qui (ciò non significa che la luce sarà sempre un elemento positivo anche nel prosieguo, sia chiaro). Anche in modo simbolico, quest'alba, così a Tou Gheneiou come da Bellatrix e Mijime, suggerendo una rinascita che si contrappone all'oscurità portata dalla luna calante, rimarca come la situazione sia cambiata e, ormai, non possa che migliorare. Un po' banale come riferimento alla luce, mi serviva anche per collegare un minimo le due storie parallele 😅

E se avete altre curiosità in merito ai divini dell'isola (mi sono sicuramente dimenticata di spiegare qualcosa), prego, sono tutta per voi!

Ma ora smetto di rompere e torno a occultarmi tra i miei culmi di bambù.
A presto, carissimi lettori!
~🐼🐢

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