19 - Ink, Tears, Blood

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Il rumore dei suoi passi riecheggiava secco e cadenzato come un ticchettio di orologio sul marmo policromo. Le porte a due ante che si avvicendavano su un lato del corridoio riportavano una targhetta aurea con sopra un numero romano e una lettera dell'alfabeto; il legno, usurato dagli anni, era stato di recente trattato e tinteggiato di grigio. Si poteva ancora sentire l'odore pungente della vernice passandoci accanto.

Dalle finestre lunghe e strette all'altro lato, protette da grate arrugginite, filtrava una luce densa e sanguigna, insolita per quell'ora del mattino.

Stava percorrendo l'ala est dell'edificio - quella più antica, che ospitava le aule e la biblioteca. Abbassò gli occhi sui suoi palmi: erano macchiati d'inchiostro. Gli era scoppiata la penna tra le mani e aveva chiesto il permesso di andare a lavarle.

Giunto alla fine del corridoio, spinse col gomito la porta d'accesso ai bagni dei maschi; anche quelli erano vuoti, constatò entrando. Un paio di passi più avanti, però, dovette ricredersi: qualcuno tossiva dentro a uno dei cubicoli.

«Ehi, tutto ok?» domandò avvicinandosi cauto alla porta dalla quale proveniva la fonte di quegli spasmi.

«S-sì.»

Jem ebbe una stretta al cuore. Conosceva quella voce.

«Will?!» disse incredulo, accostando con circospezione l'orecchio alla porta.

Quando era uscito dalla classe? Possibile che non se ne fosse accorto?

«S-sto ben...» la risposta del compagno fu interrotta da un altro colpo di tosse.

«Non mi risulta» constatò Jem, sentendolo ansimare pesantemente oltre il legno che li separava. Aveva proprio una bella faccia tosta a mentire davanti all'evidenza.

«Will, mi dici per favore che hai, così posso aiutarti?»

«N-niente. Non puoi fare niente.»

Ancora tosse.

«Guarda che mi sto preoccupando! Vuoi dirmi che cazzo hai?» insisté, battendo il pugno contro la porta nella speranza che l'amico gli aprisse. Secchi e ripetuti colpi di tosse furono la sola risposta che ricevette.

Jem sentì l'ansia salirgli al petto. Quella faccenda non gli piaceva. Era chiaro che Will gli stesse nascondendo qualcosa.

«Oh, al diavolo!» sbottò, scardinando con una spallata la vecchia porta e irrompendo nello stretto cubicolo.

Will era raggomitolato in un angolo, una mano sulla pancia, l'altra sulla bocca; i capelli castano chiaro erano scompigliati e il bel colorito roseo aveva lasciato le sue guance.

«Si può sapere che ti è successo? Cosa ti fa male?» domandò apprensivo Jem. Questi, vedendolo avvicinarsi, sgranò gli occhi e scosse il capo, schiacciandosi contro il muro come un uccellino ferito.

Appariva spaventato, oltre che nauseato. Ma da cosa?

«Jem, per favore, va' via! Non voglio che tu mi veda cos...» disse tutto d'un fiato prima che un violento colpo di tosse gli mozzasse la voce, facendolo sussultare e stringere nelle spalle.

Jem vide con orrore le sue dita imbrattarsi di rosso.

«Merda, Will! Ma che...? Vieni qui!» si chinò e lo tirò su di peso; lo accompagnò al lavandino, aprì il rubinetto e allungò le sue mani tremanti sotto il getto gelido.

L'acqua si tinse d'inchiostro e sangue.

«Vuoi ancora farmi credere che non hai niente?» lo rimproverò Jem esasperato. Il compagno non fece in tempo a protestare che un nuovo e più forte spasmo lo colse, costringendolo a piegarsi sul lavabo. Quando la crisi passò e Will risollevò il capo, Jem si trovò sotto agli occhi bianchi petali di rosa sporchi di sangue. Si voltò sconcertato verso il suo migliore amico: era pallido come un fantasma, gli occhi rossi e lucidi di lacrime, le mani gocciolanti artigliate ai bordi del lavabo.

«Will, che... che significa?»

«L-lo sai che significa» gemette Will col fiato corto, sfregando il polso sulle labbra tremanti.

«Ma tu... No, non è possibile! Come... Chi?» domandò Jem incredulo. Will lo guardò per un istante con occhi sofferenti prima di venire travolto da un secondo, violento conato che gli fece rigettare un'altra manciata di petali insanguinati.

Jem restò paralizzato di fronte a quello spettacolo terrificante.

La bellezza in sfacelo.

Il bianco e il rosso.

La purezza e la passione.

La pace e il tormento.

La vita e la morte.

Due facce della stessa medaglia unite da un destino crudele.

La sindrome di Hanahaki: una malattia rara che colpisce chi sviluppa un sentimento amoroso intenso e totalizzante nei confronti di qualcuno che, tuttavia, non lo ricambia. Dai polmoni dell'innamorato germogliano fiori che crescono e si ramificano all'interno del corpo, sottraendogli energie vitali; al crescere della pena amorosa, essi guadagnano sempre più terreno nell'organismo ospitante, provocandogli fitte indicibili e portandolo a una lenta e penosa morte.

Due sono i rimedi a oggi noti per sperare di guarire dalla sindrome di Hanahaki: essere contraccambiati nell'amore, oppure sottoporsi a un intervento estremamente delicato e doloroso che estirperà i fiori del male e, con esso, anche il sentimento che lo ha generato. Al risveglio dall'operazione, il paziente non serberà alcun ricordo di quel sentimento, né della persona a cui esso è legato.

No no no, è assurdo! Quella sindrome non esiste davvero.

Eppure la realtà lo contraddiceva, bucando come spina di rosa l'incredulità nei suoi occhi.

Rigettava petali e sangue, il suo Will. Fiori incantevoli e letali germinavano dagli abissi della sua anima, schegge di un amore infranto che nessuno avrebbe raccolto; privati della loro candida e originaria fragranza, venivano alla luce già morti.

«Non preoccuparti, troveremo una soluzione!» cercò di rassicurarlo Jem, tradito da una nota di panico nella voce. «Ora cerca di rispondermi, è importante: pensi che quella persona possa ricambiare i tuoi sentimenti? Perché, se ci fosse anche una minima possibilità, varrebbe la pena tentare...»

Will fece ripetutamente di no col capo, mentre lacrime copiose colavano dal viso sul vermiglio dei petali che occludevano lo scarico. Solo allora Jem percepì l'odore acre che permeava l'aria attorno a loro: odore di rosa misto a sangue. Serrò le labbra e strinse i denti, costringendosi a non cedere alla nausea che gli mordeva le viscere.

«Ok ok! Non importa, non abbatterti» Jem strinse Will per le spalle e gli rivolse uno sguardo fiducioso. «C'è comunque l'intervento: so che sarà dura, ma potrai liberarti una volta per tutte di questo peso.»

«N-no!» si oppose Will con sua enorme sorpresa, guardandolo con una serietà mista a derisione che gli diede i brividi. I suoi occhi color miele, di solito docili e ridenti, erano spiritati come quelli di un pazzo.

«Cooosa?! Perché no?»

«Perché non voglio.»

«Ma che dici? Se non ti sottoporrai all'operazione morirai!»

«Preferisco morire piuttosto che privarmi del ricordo di ciò che amo!» gli urlò contro un Will delirante.

Jem non ebbe il tempo di ribattere che l'amico si era di nuovo chinato sul lavandino travolto dall'ennesima, sfibrante serie di conati. Gli si strinse a fianco, gli tamponò le guance e la fronte con acqua fredda mentre, impotente, lo guardava sputare sangue e lacerarsi anima e corpo per qualcosa che andava al di là del suo controllo.

«Adesso basta, dobbiamo fare qualcosa! Vieni, ti porto in ospedale. Di' quel che ti pare, ma io non ti lascerò morire» disse perentorio Jem tirandolo per un braccio. Ma Will non si mosse; le sue labbra insanguinate si piegarono in un sorriso dolceamaro.

«L'hai già fatto» rispose sommessamente prima che il bruciore al petto si acuisse di nuovo. Si lasciò scivolare a terra, sfinito, trascinando Jem sul pavimento bagnato.

«I-io?! C-cosa ho fatto io?» domandò Jem orripilato, scuotendo Will per la maglia chiazzata di sangue.

Cosa sta dicendo? Io non ho fatto niente.

Assurdo! Tutto questo è assurdo!

Il volto di Will assunse un colorito violaceo. Si aggrappò a Jem con tutte le sue forze e si piegò di lato mentre un'intera corolla seguita da un pezzo di stelo fuoriusciva dalla sua bocca.

«Non è colpa tua» disse Will con un filo di voce mentre una nuova lacrima bagnava la sua guancia incolore.

Le spine dell'amore avevano distrutto tutto ciò che avevano incontrato al loro passaggio.

Le sue palpebre si fecero di colpo pesanti, così come il suo corpo. Jem si trovò schiacciato dal senso di colpa, dal peso di Will e del mostruoso roseto che aveva attecchito dentro di lui.

«Will? Oh no, Will! Svegliati, per favore! Non puoi... non puoi lasciarmi così, hai capito? Non puoi farmi questo! Non puoi!»

Jem afferrò l'amico per le spalle, lo scosse, gridò disperato il suo nome pregando in una sua risposta. Ma invano. L'ultima cosa che uscì dalle sue labbra socchiuse fu un rivolo scarlatto che colò giù, lungo il mento e il collo, violando la purezza di quello sciagurato fiore del paradiso.

Un grumo di petali logori e rappresi di sangue li circondava, decoro funesto di un palcoscenico consacrato al martirio.

La vista di Jem si appannò.

«Will! Will rispondimi! Ti prego, non lasciarmi... non lasciarmi» ripeté in lacrime. Prese il volto cereo di Will tra le mani macchiate d'inchiostro, lo accarezzò e poggiò la fronte contro la sua, lasciando che le sue lacrime cadessero sulla sua pelle ancora calda.

Inchiostro, lacrime e sangue.

La tragica tavolozza di un quadro mai dipinto.

«P-perché? Perché mi hai fatto questo? Perché non hai voluto salvarti?» lo sgridò, sperando ancora in una risposta a una fine che non aveva saputo evitare.

Ma, poi, che diritto aveva lui di rimproverare Will?

Lui che non si era neanche accorto del tarlo che logorava l'anima del suo migliore amico. Lui che l'aveva lasciato morire davanti ai suoi occhi senza fare nulla per salvarlo. Come aveva potuto essere così distratto da non notare increspature nei suoi gesti e nelle sue parole, da non scorgere il dolore in fondo ai suoi occhi?

Il dolore che solo un amore non corrisposto può provocare.

Silenziosa e indisturbata, la malattia era cresciuta dentro di lui giorno dopo giorno; aveva trovato terreno fertile e scavato agevolmente il suo percorso, insinuandosi in ogni anfratto della mente e del corpo, mettendo radici, assorbendo voracemente la sua linfa vitale e avvelenandogli l'anima per ottenere ciò che bramava fin dal principio.

Una vita per un fiore.

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