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I Doomsday Studios erano uno studio indipendente di produzione e sviluppo di videogiochi nato nel luglio 2012, a pochi mesi dalla fantomatica "fine del mondo" preannunciata dal calendario Maya. Da qui il nome dell'azienda che, a dispetto dei toni apocalittici, era stato di buon auspicio al suo lancio.

I suoi fondatori, Mark Elliott e Stan Lewis – programmatore informatico l'uno, game desiger e animatore l'altro – avevano condiviso nove anni addietro la loro abilità tecnica e creatività con un fidato gruppo di collaboratori per dar vita a quella che, nonostante la recente storia, era riuscita ad affermarsi come una realtà competitiva nel panorama inglese della gaming industry.

L'azienda aveva sede presso un edificio a tre piani ristrutturato e di un bianco accecante nel cuore di Soho, una delle zone più celebrate, dinamiche e costose di Londra.

Jem viaggiò lungo la Northern Line per sei fermate fino a Warren Street, cambiò con la Victoria Line e scese a Oxford Circus. Uscì nella trafficata Oxford Street, imboccò Wardour Street e fece una breve sosta da Starbucks prima di raggiungere gli Studios.

Gli uffici si dividevano su tre piani: al primo, contabilità e personale; progettazione e produzione al secondo, segreteria e direzione al terzo. Al piano terra, la reception e una sala convegni.

Jem salì al secondo piano, superò la gaming room e lo studio di registrazione e aprì con il suo badge la porta in fondo al corridoio. Al centro dello stanzone dalle pareti nere era collocato un lungo tavolo occupato da sei postazioni pc con monitor ultra wide, dispositivi e accessori di ultima generazione. I led installati nel controsoffitto rendevano l'illuminazione dell'ambiente diffusa, mentre le tende tirate sulle tre finestre di fronte all'entrata neutralizzavano la luce esterna. Una libreria gialla a forma di alveare dava un tocco di colore alla parete in fondo a sinistra, così come la porta rosso carminio all'altra estremità. Sulla superficie scura dei muri spiccavano il logo dei Doomsday Studios – un'immagine stilizzata del calendario Maya racchiusa in un cerchio bianco sopra alle lettere "DS" – poster di videogiochi e fiere internazionali.

«Mornin'!» si annunciò il membro italiano del team, sollevando il suo bicchierone di caffellatte bollente in direzione dei tre presenti che ricambiarono il saluto, chi con un cenno della mano, chi con borbottii disarticolati.

«Good morning, JJ» il biondo e scapigliato Benji si staccò dal suo schermo e lo accolse con un sonoro sbadiglio.

«Tutto ok, B? Ti vedo un po' sciupato» notò Jem squadrandolo con disappunto. «Sciupato?! Rincoglionito, vorrai dire! Oggi la centralina funziona a intermittenza» si lamentò il ragazzo dandosi dei colpetti alla testa.

«Solo oggi?» scherzò Jem arruffando con la mano quell'ispido nido di paglia.

«Eeeehi! Fallo ancora e sei fuori dalla prossima partita a D&D!» lo minacciò indispettito Benji schiacciandosi i capelli sulla fronte.

Benjamin Steven Collins, Benji per gli amici, era il loro game designer: colui che sviluppava l'idea, la struttura e le regole del videogioco.

All'inizio del 2021, Stan gli aveva ufficialmente passato il testimone per dedicarsi, insieme a Mark, alla gestione aziendale. Ormai trascorrevano gran parte delle loro giornate al terzo piano, sebbene chiedessero costanti aggiornamenti ai portavoce del team di produzione. Tra questi c'era Benji.

Ma perché proprio lui? Come poteva dietro a un ruolo così delicato e specializzato esserci quel ragazzino dall'aspetto scialbo e l'aria trasognata?

Perché dietro a quel viso roseo e imberbe, da eterno teenager, si nascondeva un venticinquenne visionario. Le straordinarie capacità logico-analitiche, unite alla sua abilità di intessere trame intricate e fantasiose lo avevano reso il fiore all'occhiello dei Doomsday Studios. Il concept degli ultimi due videogiochi era stato interamente partorito dalla sua mente geniale. I numeri delle vendite (quantificabili in milioni di sterline) ne confermavano il successo di pubblico.

«Stanotte non ho chiuso occhio, dannazione» stava borbottando Benji mentre tentava di domare le punte bionde sparate in aria.

«Di che ti lamenti? Non ti piace passare le notti a giocare di ruolo?» s'intromise Wang con un ghigno impertinente sul viso tondo e lucido. Wang Xiaocheng era il programmatore della squadra, un mago del coding cresciuto a pane e tecnologia. Figlio di migranti cinesi, nato e cresciuto a Londra, era approdato agli Studios tre anni addietro, fresco di laurea a pieni voti in ingegneria del software all'Imperial College London. Sebbene il suo nome fosse Xiaocheng, tutti lo chiamavano con il suo cognome perché era più breve e facile da pronunciare. Ormai ci aveva fatto l'abitudine.

«Io dico che giochi pure nel sonno» riprese Wang, sistemandosi gli occhiali dalla montatura spessa e squadrata.

«Ha parlato il campione di tornei a Fortnite!» lo rimbeccò Benji facendo una pallina di carta e tirandogliela addosso.

«Wee weeeee, smettetela di frignare voi due e statemi a sentire: questo venerdì team meeting da me. Pizza, birre e tornei all night long. Che ne dite?»

Lucas García era sfrecciato tra loro a bordo della sua sedia rotante, i lunghi e ondulati capelli castani tenuti assieme da uno spesso elastico. Indossava una t-shirt nera con smile giallo dei Nirvana e un paio di jeans sdruciti. Oltre a essere il designer e l'animatore dei videogiochi, era un fanatico di Star Wars e dei supereroi della Marvel, nonché rockettaro e otaku della prima ora. Aveva contagiato un po' tutti là dentro con la sua passione per anime e manga grazie alla quale, già in tenera età, si era accostato al mondo del fumetto e alle arti visive del sol levante. Le sue abilità di modellatore e grafico gli consentivano di dar vita a personaggi iperrealistici, definiti in ogni minimo dettaglio dal punto di vista anatomico ed estetico.

«Oooh, finalmente una bella notizia!» si animò Benji allargando le braccia.

«Era ora, Lux» sospirò Wang mentre lo spagnolo si rivolgeva a Jem.

«Tu ci sei, vero?» gli chiese puntandogli contro la penna grafica.

«Certo» confermò lui, indicando gli altri due. «Non mi perderei una partita a COD tra quei due per niente al mondo» fece, raggiungendo la porta rossa in fondo alla stanza e lasciando i tre a discutere i dettagli della cena. Fece scattare l'interruttore e si accomodò alla scrivania; avviò computer, casse, schede audio e video, tastiera musicale workstation e sintetizzatore. La postazione al suo fianco era vuota. Alex doveva essere in sala registrazione, dedusse mentre i dispositivi elettronici emettevano bassi ronzii.

Alexej Agapov era stato il primo tecnico del suono nella squadra di lavoro di Mark e Stan e l'unico, a oggi. Il suo ruolo di supervisore era indispensabile in un team che negli ultimi anni si era quasi interamente rinnovato. Non che fosse vecchio: Alex era appena trentenne ma, data la sua consolidata esperienza a fianco dei fondatori, era già considerato – e a buon titolo – un veterano degli Studios. Era un tipo serio, dedito più all'aspetto tecnico del lavoro che a quello ludico.

«Oh oh, eccoti qui!» la voce tonante di Andrew raggiunse la postazione di Jem insieme alla sua figura corpulenta e, a tratti, goffa. «Volevi metterti al lavoro senza salutarmi? A proposito, come procede il nostro sonoro?»

«Ciao, Andy. Abbastanza bene: il main theme è quasi pronto. E tu? Eri di sopra?»

«E dove potevo essere? Mark e Stan mi hanno commissionato la pipeline di lavoro e sono salito a portargli il prospetto aggiornato.»

«Com'è andata?» s'informò Jem bevendo un sorso del suo caffellatte. Le larghe spalle dello scozzese si alzarono e abbassarono pesantemente.

«Ma che ne so, non l'hanno neanche guardato: "lascialo pure qui, ti facciamo sapere" e tanti saluti e grazie!»

«Perché quella faccia sconsolata, dude? Non ci sarai rimasto male! Lo sai che sono sempre incasinati.»

«Lo so, lo so. È che non ci ho dormito stanotte, Cristo santo!» sbuffò Andrew grattandosi la barba incolta attorno al viso paonazzo. «Spero non abbiano niente da ridire. Sono dei cazzo di stacanovisti quei due... l'ultima volta mi hanno fatto cambiare il layout dei grafici e ho dovuto ristampare tutto!»

«Tranquillo. Se il piano e le stime vengono approvati, potremmo avere la first playable già entro la fine dell'anno.»

«Me lo auguro! Detesto questa fase, la pre-produzione mi uccide.»

«Vedo che siete tutti belli freschi e riposati oggi» ironizzò Jem vuotando il bicchiere di carta e lanciandolo nel cestino alle sue spalle. Andrew emise un basso grugnito, poi lo squadrò con sospetto.

«Tu, piuttosto! Mi sembri fin troppo di buon umore. Di' un po', che hai combinato?»

Jem sollevò un sopracciglio e lo guardò interrogativo.

«Oooh, c'mon! Niente look total black oggi? Niente faccia da funerale? Mmm, fammi indovinare,» disse Andrew con l'aria di chi la sapeva lunga «notte di fuoco con la tua bella?» suggerì con una strizzatina d'occhio.

«Cazzo, Mc Carthy, ma che vuoi?» esplose Jem in tono tutt'altro che ostile. «Sembra di stare al Grande Fratello qui. Scommetto che mi piazzeresti le telecamere in casa, se potessi.»

«Non mettermi in testa strane idee» sogghignò Andrew, prelevando dalla scrivania un foglio imbrattato di note per soffiarsi il volto accaldato. «Sono un uomo dalle mille risorse.»

«Sei un pervertito.»

Andrew si abbandonò a una grassa risata.

«Oh, beh, una cosa non esclude l'altra» dichiarò deliziato. «Lo dicevo io che te l'eri spassata! Ho un sesto senso per certe cose» si vantò battendosi la mano sul petto e strappando una smorfia rassegnata al suo interlocutore.

Andrew era un lupo travestito da agnello. La corporatura massiccia, le guance piene coperte da una folta barba castano-rossiccia e i vispi occhietti color cioccolato lo rendevano quanto di più simile vi fosse a un orsacchiotto di peluche. Tuttavia, bastava un semplice scambio di battute per far emergere la sua indole provocatoria. Era una mina vagante, pronta a esplodere in qualunque momento. Ed era un demonio con le parole! Non per niente era l'addetto alle sceneggiature dei videogiochi.

«Insomma, avrò pur imparato qualcosa sul tuo conto in questi due anni» stava dicendo Andrew.

«Se ti fa piacere crederlo» lo assecondò Jem con una punta di cinismo.

Si erano conosciuti al primo anno a lezione di critica letteraria e si erano scoperti tanto appassionati di lettere quanto diversi di carattere da legare subito. Era stato Andrew a proporgli di lavorare con lui e ad assicurargli un colloquio con i capi. Non gli era stato difficile ottenerlo, dal momento che avevano bisogno di un sound designer: figura imprescindibile nel processo di creazione di un videogioco ma, date le sue peculiarità, non facile da trovare.

«E continui a sopportarmi?»

«Finché mi passi i riassunti di letteratura inglese...»

«Ah! Dunque è su questo che si basa la nostra amicizia?»

«Mi sembra una base più che solida.»

«E io che ci guadagno?»

«Un imbecille sempre pronto a sorbirsi i tuoi patemi d'animo e ad allietarti con battutine sconce.»

«Bah... tutto sommato, non è male» ammise Jem intrecciando le dita dietro la nuca. «Soprattutto la parte delle battute.»

«Puoi giurarci» decretò Andrew mollando il foglio sgualcito e tirandosi la cintura sul pancione. «A dopo, genio incompreso.»

«Guarda che ti tengo il posto in aula. Non darmi buca.»

Andrew si fermò e lo fissò interdetto.

«Le lezioni, Andy» scandì Jem. «Iniziano oggi, te lo sei scordato? Non vorrai eclissarti come l'anno scorso con la scusa del lavoro.»

Lo scozzese si batté la mano sulla fronte ed emise un sonoro latrato.

«Ok, JJ, sarò onesto: preferirei farmi linciare giorno e notte da Mark e Stan piuttosto che sorbirmi i monologhi fracassapalle di Walker su Shakespeare e il teatro elisabettiano.»

«Fai come vuoi. Volevo solo richiamarti ai tuoi doveri accademici» rimarcò Jem eloquente prima di posare le dita sulla tastiera. «Ah, se posso darti un consiglio: vedi di farti vivo a lezione, ogni tanto. Non vorrai restare indietro col programma. E poi Walker ha un'ottima memoria visiva e tiene un registro delle presenze. Non serve che ti ricordi quanto s'indisponga con gli "sconosciuti" che si presentano ai suoi esami.»

Andrew ponderò le parole di Jem per una manciata di secondi; infine, fece spallucce e ammiccò nella sua direzione. «Tranquillo, conosco uno che può aiutarmi.»


Una fermata metro dell'azzurra Victoria Line copriva la tratta Oxford Circus-Warren Street. Cinque minuti dopo, Jem era all'ingresso della UCL in Gower Street. Superati i cancelli e il viale costeggiato da un prato alberato e panchine in legno, raggiunse il cortile su cui si ergeva l'iconico edificio in stile georgiano. A catturare lo sguardo, la facciata neoclassica con bianche colonne scanalate e capitelli corinzi, preceduta da un'ampia scalinata sulla quale passavano o sostavano ogni giorno migliaia di studenti. La commistione di stili architettonici vedeva il timpano sormontato da una cupola baroccheggiante, la cui grandiosità s'imponeva su tutta Bloomsbury.

Jem si unì al flusso di studenti che entravano e uscivano dal rinomato complesso accademico e raggiunse l'aula in cui si sarebbe tenuta la lezione di letteratura inglese. In pochi minuti, le file di banchi si riempirono di un concitato chiacchiericcio. L'euforia scemò come per incanto all'apparire del professor Walker: valigetta in una mano, tomi logori nell'altra, fronte corrugata e sguardo acuminato sopra le piccole lenti tonde.

Ti avevo avvertito, Andrew, non poté esimersi dal pensare Jem mentre Walker si aggiustava il papillon a pois rosso sulla giacca in tweed beige e scandagliava con occhio di lince le file di volti intimoriti che aveva di fronte.

Nelle due ore successive, la sua voce ruvida e monocorde illustrò nel dettaglio i contenuti del corso dedicato al Romantic Period: autori, opere, modalità di verifica, valutazione e scadenze per la consegna degli essays.

Quest'anno sarà tosto, dovrò impegnarmi al massimo, si disse Jem mentre l'aula riprendeva vita – segno che Walker si era congedato – e le sedie si liberavano. Aveva riposto penne e quaderni nello zaino e stava per alzarsi quando qualcosa, o meglio, qualcuno entrò nel suo campo visivo, attirando la sua attenzione.

Qualche fila dietro alla sua, al lato opposto dell'aula c'era...

Will?

Jem sentì la terra tremare sotto ai piedi.

Il suo cuore perse un battito, la vista si offuscò.

No.

Non può essere.

Scosse il capo e fece un lungo respiro prima di voltarsi di nuovo.

Quel che vide fu un ragazzo dal fisico massiccio e i tratti nordici che radunava le sue cose. Lo guardò portarsi lo zaino in spalla, estrarre dalla giacca di jeans cellulare e auricolari wireless e abbandonare l'aula a passo svelto.

Si accasciò sulla sedia e si passò le mani sul viso.

Come aveva potuto scambiare quel tipo per il suo migliore amico?

Will era morto, e nessuno gliel'avrebbe riportato.

Era chiaro che la vista gli aveva giocato un brutto scherzo, simili equivoci potevano capitare a chiunque. Di norma non sarebbe rimasto a rimuginarci su più di tanto, non fosse che si trattava di Will.

Negli ultimi tre anni il suo fantasma gli era apparso in sogno, facendolo svegliare sudato e stravolto nel cuore della notte. Era un'ossessione tremenda e, allo stesso tempo, comprensibile: aveva perso la sua àncora, lo spirito a lui più affine. Le sedute psicologiche, gli ansiolitici, sua madre, gli amici, lo studio, il lavoro ma, soprattutto, Sara l'avevano aiutato a lavare via il terrore e i sensi di colpa che gli si erano attaccati addosso come catrame sul manto di un gabbiano.

Dopo settimane di ritrovata quiete, appetito e creatività, si era sentito pronto a ricominciare e a lasciarsi definitivamente alle spalle gli spettri della notte.

Ma si sbagliava: il suo incubo era tornato e, stavolta, non poteva svegliarsi.

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