Tunnel, ore 3:24

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Mi lancio a peso morto sulla porta blindata del bunker 305. Non si apre, e mi viene da ridere per la felicità. Perché per qualche strano motivo la sostanza nera smette di procedere a metà strada e non ha mai raggiunto questo posto. Almeno, non per ora.

Dopo la morte di Maria, sono tornata indietro per cercare Cris, che ovviamente non ho trovato. Proprio come è accaduto ad Ivy, è scomparso nel nulla. Ho versato qualche lacrima, non so neanch'io se fosse per lui o per Ivy o per me stessa, poi mi sono rimessa in marcia. Camminare senza mai fermarsi né dormire non credo sia umano, eppure la paura che quello schifo possa strisciarmi addosso e farmi sparire chissà dove mentre mi riposo è abbastanza per spingermi a continuare.

Per qualche istante chiudo gli occhi. Ormai l'odore umidiccio di muffa e quella di zolfo si mischiano nella mia testa. Non riesco più a distinguerle l'una dall'altra, e non ho idea di quale stia inalando tanto a fondo adesso. Appoggio la testa contro la porta e rimango così.

Vorrei tanto che il mondo si bloccasse a questo momento. Con i muscoli stanchi che pulsano per lo sforzo, il dolore al braccio che mi ricorda di essere viva nonostante il buio e la calma. Questa calma a cui non sono più abituata.

Inspiro ed espiro. Inspiro ed espiro. Inspiro ed espiro.

E finalmente busso contro la porta per annunciare la mia presenza. Busso con tanta di quella forza da spellarmi le nocche. Ma nessuno mi risponde.

Forse non mi apriranno. Se sanno anche solo alla lontana dei pericoli che si annidano al di fuori, non correranno mai il rischio.

Attendo qualche minuto buono.

Proprio come è giusto che sia, la porta resta chiusa. Alzo la mano per bussare ancora, ma mi blocco a metà. A che servirebbe continuare a provare? Magari dentro non c'è proprio nessuno che possa sentirmi, forse è come il bunker 306: hanno chiuso le creature fuori e quei pochi sopravvissuti stanno cercando di ricostruirsi una vita.

Riabbasso il braccio. Dovrei andarmene, cercare il bunker 300 e provare a salvare Ivy. Prima però una bella dormita non ci starebbe affatto male.

Scivolo contro la superficie fredda della porta, che scompare il secondo dopo. Cado di schiena.

«Porca troia!» bestemmio.

«Oh, è lei!» Una voce familiare. «Fatela entra' e chiudete, iamm

Mi sollevo sui gomiti. Un uomo dalla barba incolta e un paio di ridicolissime bretelle logore mi fissa dall'alto. Accanto a lui, compare il volto ancor meno curato di Davide, che tuttavia ha un sorriso talmente largo da contagiarmi.

Mi porge una mano, e l'afferro senza pensarci troppo. Ha una maglia pulita, una vecchia t-shirt nera dal disegno ormai cancellato; per aggrapparmi a lui ed evitare di cadere, gliela sporco di sangue. Non appena trovo l'equilibrio, mi allontano. «Scusa» bofonchio.

«La', sei viva!» dice lui. Neanche se n'è accorto. Contro ogni aspettativa, mi prende fra le braccia.

Erano anni che non mi ritrovavo chiusa in un abbraccio. Seppur di solito il calore altrui mi infastidisce, per questa volta mi lascio cullare. Accosto la testa al suo petto. Nonostante gli abiti che indossa siano puliti e aleggi un vago odore di disinfettante sulla sua pelle, sento ancora una punta di sudore nascosta. Ma scaccia lo zolfo dal mio naso, e per me è talmente umano che è paradisiaco.

«Quindi questa è la tizia di cui stavi a parla'?» chiede il tizio barbuto, mentre richiude la porta. «Non ci doveva sta' pure qualcun altro?»

Stringo la stoffa della maglia di Davide fra le dita. «Cris è...» comincio a dire, ma un groppo in gola mi impedisce di terminare la frase.

«Almeno tu stai bene» risponde Davide.

«E voi?» salto su l'istante dopo. «Antonio? Tonino ha seguito a voi, no?»

«Antonio sta bene, sta a dormi' dopo che l'hanno medicato. Tonino è quel mostro, ve'? È vivo pure lui, ma in qualche modo l'abbiamo seminato. A un certo punto ha iniziato a strilla' e soffriva, così dal niente, e siamo potuti scappa'.»

Annuisco, tirando un sospiro di sollievo. Non sono riuscita a fare nulla per Cris, ma quando ho passato l'accendino sulla sostanza nera ho salvato anche loro.

«Ce la porto io» dice Davide, diretto all'altro tizio. Quello borbotta qualcosa senza senso, poi il ragazzo mi conduce lungo il corridoio. Anche questo bunker è identico al 307: stesse pareti, stesse stanze, stesso tutto. Capisco subito che mi sta portando all'infermeria e, anche se desidero più di ogni altra cosa trovare mia sorella, mi sta bene. Una cura e un sonnellino prima potrebbero giovarmi.

«Qua non è mai arrivato niente» mi spiega Davide durante il tragitto. «Ho provato a spiega' un po' la situazione là fuori, ma non è che ci ho capito tanto manco io di quello che è successo. Tu sei più intelligente, forse ci devi parla' tu.»

«Ho scoperto un po' di cose» ammetto. Nonostante Maria mi abbia lasciato diversi interrogativi, almeno conosco la risposta ad alcune delle domande. E suppongo di aver anche capito chi ha portato per primo il morbo – se così si può chiamare – nel mio bunker.

«Le devi di' pure a me, allo'» sorride Davide.

La prima volta che l'ho incontrato, l'ho giudicato male. Certo, non è capace di parlare in una lingua comprensibile e per capire cosa dice devo tenere le orecchie ben tese e il cervello attivo al cento per cento ogni volta, e no, i suoi piani non sono proprio geniali, ma se non l'avessi incontrato a questo punto sarei morta almeno tre volte. Nonostante tutto, non riesco ad attribuirgli nemmeno la colpa per la scomparsa di Ivy.

In infermeria mi accoglie il debole russare di Antonio, addormentato su uno dei lettini, e una signora dal camice bianco e delle occhiaie vistose. «Oddio!» esclama non appena mi vede. Mi prende per mano e mi conduce su uno sgabello.

«Stai ridotta male pure tu.» Un dolore pungente mi risale lungo il braccio mentre toglie la fasciatura zuppa di sangue per controllarlo. «Mannaggia santa, si sta a infetta'.» Cerca qualcosa fra i mille aghi e le medicine sugli scaffali.

«Da'» lo chiamo, e lui alza subito la testa.

«Oh?»

«Puoi farmi un favore?»

«Di'.»

«Mia sorella e i miei genitori dovrebbe sta' qua. Puoi andarli a cerca' per me? Mia sorella si chiama Giulia Di Francesco.»

Davide esita per un istante. Lo osservo, ma non capisco cosa frulli nella sua testolina vuota, né riconosco l'emozione che traspare nei suoi occhi. «Va bene, vado» dice soltanto, prima di uscire.

La signora con le occhiaie torna da me con una bottiglietta di disinfettante dell'ovatta. «Tu sei la sorella di Giulia, eh?» Più che come una domanda, la sua la prendo come un'affermazione, perciò non rispondo. «Ti brucerà parecchio.»

Chiudo gli occhi, rilassata. Cosa vuoi che sia, un po' di bruciore, dopo tutto lo schifo che ho passato?

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