10 - MANUEL, assenza d'amore

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Suono, non mi fermo. Nel suono avverto l'ostacolo. Sono in coma. Non reagisco. Il lavoro è tutto nella mia mente che si libra velocissima e non riesco neppure a starle dietro mentre cavalca le note e gli arpeggi e ogni passaggio mi porta altrove, da lei, in quel momento. Mi è caduta addosso come quando il mondo si spacca e cade e tu non puoi afferrarlo in tempo ma vorresti averlo fatto perché la caduta ha generato un frastuono che ha interrotto la musica. Allora l'ho toccata. Non avrei voluto sfiorarla ma l'ho fatto, l'ho stretta e lei era fragile, accecante, mi ha sconvolto. L'assenza prepotente di colore mi ha trafitto la mente. È stato difficile lasciarla andare ma avevo bisogno di ritrovare l'equilibrio cromatico che mi aveva starato con la sua luminescenza. È colpa della mia sinestesia, attribuisco ai colori le unità metriche e le scompongo come suoni; in assenza di un colore definito perdo l'equilibrio. In lei ce ne sono fin troppi di colori, per questo mi confonde, per questo non trovo la nota. Il bianco incanala ogni sfumatura e la pareggia, devo distorcerla per poterla trovare. La nota, dico. O lei. E sarebbe la prima volta che mi trovo a distorcere il suono per vederlo intonato.

Non lo sapevo ma la sto cercando, la voglio trovare dentro di me, voglio connotare anche lei. È un errore, lo sento, dopo averlo fatto che succederà?

«Ci sei? Sei con noi?»

Mi accorgo che Massimo e Fabrizio mi fissano accigliati. Devo averlo fatto di nuovo, ho suonato da solo.

Siamo in sala prove da otto ore e fuori è buio pesto. Abbiamo rifatto More Than Words e stavolta ci siamo, suona, è la versione definitiva, sono abbastanza soddisfatto.

Spengo l'amplificatore e la chitarra lancia un verso acuto che si distende nell'aria come un'eco. Massimo resetta il campionatore della tastiera e Fabrizio mette via il basso, lo infila nella custodia. Il batterista, Velasco, è già uscito, accompagna a casa le coriste peruviane. Ho dovuto dire ad Alessia che ceniamo insieme ma stasera se c'è una cosa che non mi va di fare è stare con lei e le sue carezze, le sue parole latine un po' masticate che suonano di versi spagnoli, stasera ho bisogno di me. Ma dirle di no equivale a litigare un'ora e sto già per farlo qui, una lite a sera può bastare. Immagino le loro facce quando dirò di domani, ma so che è giusto.

Sto per fare la mia dichiarazione e mio fratello mi precede con la sua.

«Ma', al concerto di apertura dell'autogestione ho chiamato anche Nicola.»

Avverto un fastidio leggero percuotermi le tempie.

«A che ci servono due chitarre?»

«Non ricominciare, Nico fa parte del gruppo. S'è già perso tre concerti perché tu pretendi che suoni come te e sai che non è possibile ma lui è bravo, è uno di noi, è --»

«Va bene. Nessun problema.»

So di averlo stupito con la mia resa istantanea, ma adesso arriva la parte difficile.

Prendo fiato e intono un: «Domani alle diciassette suoniamo».

Mio fratello mi osserva confuso, «Hai rimediato un ingaggio veloce?»

«Dove?», s'infila Fabrizio.

«A un funerale.»

Li ho zittiti.

Massimo si fa subito cupo, «Non vorrai suonare al funerale di quella del Ripetta che s'è ammazzata.»

Mi provoca un fastidio immediato.

«Qual è il problema, scusa?»

«No, dai», interviene Fabrizio, «il funerale col prete che parla di suicidio, no. Ve prego.»

Massimo alza la voce: «Senti, Ma', tu sei un buono e tutto, ti dispiace per la gente, vuoi bene a tutto il mondo ma io mi sono rotto il cazzo di fare beneficenza. 'Sta gente, 'sti complessati che se buttano di sotto secondo te vanno celebrati?».

Inizio a sentire una vena nervosa gonfiarsi nella testa.

«Faccio finta di non aver sentito quello che hai detto.»

Fabrizio si mette in mezzo, «Poi guarda», dice a me, «che il funerale di quella poveraccia diventerebbe una ressa solo per vedere noi, e glielo rovini pure il funerale.»

Ringhio: «Ma stai a di' serio?».

«Che è, adesso, 'sta smania di assecondare i reietti?», provoca Massimo. «Tu la devi smettere di sentirti diverso, sei migliore di tutta questa gente e di sicuro essere dalla loro parte non ti fa bene.»

Non ho capito se parla così perché si preoccupa per me o se è impazzito e basta.

«Io non assecondo un cazzo. È solo un funerale e faccio un favore a un amico.»

«E allora l'albina?», chiede secco.

Mi fa sussultare.

Lui approfitta del mio smarrimento e insiste: «Dici a una che è oggettivamente impressionante che è molto bella. Ti ho sentito, sai, oggi in corridoio. Fai il gentile perché ti darà ripetizioni di cui, tra parentesi, non hai alcun bisogno e lo sai, perché la roba che studiano in classe tua la impari in meno di una notte con le tue capacità, e invece la illudi con i complimenti sapendo che in realtà quella tipa non si può guardare».

Non riesco a reagire, non mi sento bene, il fiato si accorcia, il battito aumenta. Devo stare calmo, devo controllarmi.

Fabrizio crede di sdrammatizzare ma peggiora le cose, «Va be', porella, è una brava ragazza, non è mica colpa sua se è nata così».

Massimo lo fulmina e affonda la lama, «No, sentite, cerchiamo di essere realistici: io per un attimo mi sono esaltato vedendola. Ho pensato, cazzo questa sì che è arte! Ma arte, capito? Non una che gli puoi dire che è bella. E che cazzo. Quella se la incontri di notte ti fa fare un salto, sembra un fantasma.»

Non riesco più a fermare il battito, mi piego sulle ginocchia.

Fabrizio mi arriva addosso, «Oh, frate', che c'è? Stai male?».

Non posso ascoltare altro. Ho una vertigine.

Fabrizio mi prende per le spalle, lo spingo indietro e mi metto dritto.

Indico mio fratello: «Non ripetere mai più queste parole. Non ripetere mai più queste parole. Non ripetere mai più...».

Mi sono inceppato.

Massimo capisce che ho una crisi e mi arriva vicino, «Scusa, dai, no, scherzavo».

Ma è troppo tardi.

Parlo col fiato nella voce, col diaframma che si gonfia e si sgonfia, con i pugni chiusi a morte fino a sbiancare le nocche: «Non ripetere mai più queste parole, non ripetere mai più queste parole», la crisi aumenta e con essa i decibel. Urlo forte, fortissimo, e i pugni li porto alle tempie: «Non ripetere mai più queste parole! Non ripetere mai più queste parole!».

Lui mi afferra i polsi e grida più forte: «Ci andiamo! Va bene! Domani andiamo a suonare al funerale! Va bene, ci andiamo!».

E io mi fermo. Divento un vegetale. Improvvisamente muto. Annuisco.

«Va bene», ripete più calmo, «domani andiamo a suonare al funerale».

E io non la smetto di annuire.

Servono venti minuti per ritrovare l'equilibrio dentro di me.

Quando sono sicuro di essere sobrio mi rivolgo di nuovo a Massimo: «Se è davvero come un soggetto d'indagine che l'hai guardata e non come un essere umano, voglio che ti scusi con lei domani a scuola.»

Massimo allunga le braccia per bloccarmi, «Ma no, dai. Ma guarda che non ha capito niente, non ti preoccupare, ma de che!».

«A questo punto credo di sì, invece. Se n'è andata di corsa!»

Fabrizio mi arriva vicino, «Senti, facciamo una cosa, mo' la chiamiamo dalla cabina e tu senti che dice, se sta bene è tutto a posto, no?».

Adesso ho il cuore che batte regolare ma lo vedo che si scambiano sguardi complici, che pensano di assecondare un malato. Non mi importa, io la voglio chiamare davvero.

Scendiamo in strada, tutti e tre. Andiamo verso la cabina telefonica a due passi da piazza Cavour. Mi frugo in tasca per trovare le monete e intanto ho un sussulto.

Dico: «Fabri', come la chiamo? Non lo so il numero».

Lui ha paura che mi riprenda la crisi, lo vedo, cerca subito una soluzione, «No, ma non c'è problema, sono amico della tipa del terzo D e quella conosce benissimo Virginia, la migliore amica dell'albina.»

«Si chiama Eva!»

«Sì, scusa, Eva. Insomma, chiamo quella del terzo D. Non mi ricordo però come cazzo se chiama de nome.»

Tira fuori l'agendina dalla tasca del trench e scorre col dito su una serie di numeri e di nomi di ragazze. Ferma l'indice su pettegola terza D; a quanto pare non ha un nome ma solo una funzione.

Poi infila la moneta e compone il numero. Mi fa cenno di avere pazienza.

Dopo alcuni secondi dice: «Ciao, senti, bella, sono Fabrizio, il bassista dei Pride--».

Non finisce di dirlo che scansa la cornetta dall'orecchio e fa una smorfia, la tipa ha urlato così forte che ho catalogato la nota: era un si bemolle.

Dopo una serie di risate convulse e di scomposizioni di sillabe, la tipa ritrova la calma e Fabrizio fa la sua richiesta.

«Senti, siccome devo parlare di una cosa di scuola con Virginia della terza A, che mi puoi dare il suo numero?»

Non è così facile, quella fa domande su domande, sembra una giornalista, alla fine però cede, anche perché Fabrizio è uno un po' rozzo quando ci si mette, e diventa scorbutico.

Quando finalmente ci liberiamo della tipa del terzo D, Fabrizio procede con la telefonata a Virginia. Nel frattempo mio fratello passeggia avanti e indietro sul marciapiede e sembra insofferente. Lo so cosa pensa, che sono un pazzo e che Fabrizio fa male ad assecondarmi.

«Ciao, scusa, sei Virginia?», sento.

Pochi secondi e Fabrizio continua: «Sì, senti, sono il bassista dei Pride, Fabrizio, scusa il disturbo, piacere, senti mi serve il numero dell'amica tua, Eva. C'è una cosa di scuola che devo dirle urgente.»

Niente urla stavolta però lo vedo rabbuiarsi. Diventa serio, le ciglia aggrottate.

Poi dice: «Non ho capito, cioè non posso chiamarla?».

Forse non vuole dargli il numero.

Lui insiste: «Ma due minuti soli, è una cosa importante», fa una pausa e annuisce, poi riprende, «Sì, scusa, ma che significa non le è permesso ricevere telefonate la sera? 'ndo' vive?».

Resta in ascolto per un po'. L'amica di Eva deve essere stata eloquente perché vedo un segno di resa disegnarsi sul volto di Fabrizio; abbassa testa e voce con la cornetta stretta a morte.

Dice: «Ma senti, mi pare il medioevo, facciamo che mi dici il numero e io ci provo, poi se la madre non me la passa, pazienza».

Ce l'ha fatta. Lo vedo che segna il numero con la penna sul bordo della pagina sotto all'altro.

Dopo un po' esce dalla cabina e mostra l'agenda, «Mi sa che non ti conviene chiamarla, l'amica sua dice che ha una specie di coprifuoco e che, non lo so, ti conviene dire che sei un professore, se gli dici che sei un amico non te la passano, così mi ha detto Virginia là».

Leggo il numero e mi lancio nella cabina senza rifletterci.

Fa otto squilli. Risponde una voce di donna, riconosco il suono inedito, non è la sua voce.

«Buonasera, signora. Sono il professore di italiano di sua figlia Eva, avrei bisogno di parlarle un momento, se non è troppo disturbo.»

La signora dice: Chi? A quest'ora? Guardi non credo proprio.

Poi scosta la cornetta e parla con qualcuno, Agata, qui c'è il professore di tua figlia al telefono.

E una voce se possibile ancora più molesta dice Un professore a quest'ora? Sarà uno scherzo, oppure un maniaco, Uga riattacca.

E quella, senza neanche farmi parlare mette giù.

Aggancio la cornetta all'apparecchio. Sospiro forte.

Fabrizio e Massimo mi osservano confusi attraverso il vetro.

Esco dalla cabina e in pratica parlo guardando nel vuoto, «Raga', non lo so ma credo che Eva abbia una vita alquanto complessa.»

Sono già le dieci di sera, attraversiamo il ponte che collega la stazione Tiburtina all'arteria principale e abbiamo in spalla chitarra e basso. Arriviamo sotto casa di Ale e io citofono due volte.

Sono riuscito a convincere Fabrizio a unirsi a noi; Massimo no, lui ha sempre qualcos'altro da fare.

Alessia esce dal portone tutta in ghingheri, strizzata in un tubino nero come la notte che mi riconduce subito a un do minore. Non va bene così, mi cambia l'umore.

Lei peggiora le cose: affila lo sguardo e me lo spara contro. Minacciosa.

Fabrizio si avvicina al mio orecchio: «Mi sa che non è contenta di vedermi».

Mi arriva davanti e si aggrappa al mio collo, le sue labbra che sembrano una ventosa si incollano alle mie e d'istinto sposto il mento provocandole un ennesimo lampo di rabbia nello sguardo.

Guarda negli occhi me ma si rivolge a Fabrizio.

«Te che ci fai qua?»

In effetti è come se lo avesse chiesto a me: stiamo insieme da un anno e ti porti l'amico a cena fuori con noi?

Fabrizio si passa una mano nel ciuffo e abbassa la testa.

Sono io a rispondere per lui: «Abbiamo finito adesso, c'ha fame pure lui, che problema c'è? Dobbiamo andare in pizzeria, mica a sposarci».

Lei ora fa un passo indietro e ci osserva entrambi con la stessa aria severa e un po' delusa.

«Mio amor, sarà un mese che non passiamo una serata da soli, non ho capito cual es el problema?»

«Appunto, il problema non esiste. Andiamo.»

Lei si mette in marcia a braccia strette al petto e sculetta sui tacchi come una che ha i razzi nel sedere. Fabrizio ridacchia, e un po' pure io. In pratica la stiamo inseguendo. Ci vogliono dieci minuti contro i soliti venti per raggiungere la pizzeria di Gigetto, siamo arrivati quasi correndo.

Ci sediamo al nostro tavolo, quello accanto al muro zeppo di fotografie di attori e di cantanti, quello con la nostra foto, la foto dei Pride al FestivalBar autografata da Massimo.

Alessia è seduta dall'altro capo del tavolo, di fronte a noi due, come una che ci deve interrogare. Lancia un'occhiata alla fotografia del gruppo e poi fa una smorfia rassegnata.

«Erano altri tempi. All'epoca mi amavi.»

Fabrizio sparisce dietro al menù rettangolare che illustra le pizze e si mette a ridacchiare come uno scemo pensando di non essere ascoltato.

Io invece non so perché ma avverto una nota stridermi dentro e di getto me ne esco: «Ma guarda che non ti amavo nemmeno allora.»

Il mio tono era ironico, la prendo spesso in giro su questo argomento, ma mi sa che stasera non è serata.

Stavolta Fabrizio al menù ci si abbassa letteralmente dietro e mi lancia un'occhiata obliqua, mima con le labbra un ma che sei scemo?

Alessia però non si scompone, la conosco, è troppo orgogliosa per fare una piazzata.

Fa un sorriso sarcastico e tace.

Quello che Fabrizio non sa è che sono mesi che lei mi ripete che mi ama e che io ribatto di non provare lo stesso sentimento, per lei non è una rivelazione. Forse non gradisce che lo abbia dichiarato davanti a qualcun altro, magari le piaceva fingere che fossimo una coppia navigata e non un sonetto spento, ma è la prima volta che riesce a stupirmi: afferra una forchetta, ci si specchia e sistema una ciocca di capelli sfuggita al mollettone tempestato di strass mentre dice «Certo, adesso hai cambiato scuola, hai cambiato classe, hai cambiato gusti», e ora mi fissa torva, «Adesso ti piacciono le bionde».

Nota il mio mutismo, il mio sguardo neutro e corruga la fronte fino ad accartocciarla. Alza anche la voce, giurerei di un semitono: «No, giusto, che bionde. Le vecchie. Quelle coi capelli bianchi.»

Avverto lo stesso sussulto di prima in sala prove.

Fabrizio quasi scatta, forse memore della mia crisi, dice: «Oh, vogliamo prenderci quella con le olive? Che dite? Anzi con le alici, eh? Quella con le alici sarà un secolo che non ce la prendiamo!».

Il duello di sguardi non si intacca, continuiamo a fissarci senza respirare.

Lui insiste, piazza il menù plastificato davanti a noi per impedire ai nostri occhi di lanciare fulmini.

«Però secondo me fanno bene anche il calzone ripieno», lo indica, ce lo mostra, «vedete? C'è la foto della mozzarella filante--».

Alessia scansa il menù con un gesto nervoso e mi guarda in cagnesco: «Eres un chico malo!», quasi urla, è salita di un tono e mezzo.

«Io dico calzone!», esclama Fabrizio.

È stato bravo, si è tarato sulla stessa nota di Alessia, ha intonato lo stesso sol.

«Respondeme, te gusta ella?», quasi ringhia, ha perso l'intonazione.

«Ma pure con le patate la fanno buona!»

Ha stonato anche Fabrizio.

Ho bisogno di scrivere, mi serve un tovagliolo di carta, mi serve una penna. La peruviana mi ha ispirato un passaggio, è perfetto per la strofa del nuovo pezzo.

Non cede alle provocazioni, è vero, ma mi è sfuggito che non tollera la mia disattenzione, e infatti batte un pugno sulla tavola di legno e i bicchieri tintinnano.

Non posso impedire alla mia mente di estraniarsi se lei emana colore e suono, non posso smettere di visualizzarlo e devo incastrarlo. Devo scrivere, devo trovare una penna. Mi serve un tovagliolo di carta.

Arriva quasi al do di petto, «Mi vuoi rispondere? Ti piace quella cessa scolorita?».

Mezza trattoria ha smesso di brulicare e fornire il sottofondo al nostro show, ora sono rivolti verso di noi e tacciono a unisono.

E qui davanti a me non c'è oggetto per trasporre quello che sto vedendo nella testa. Niente carta per scrivere! Niente carta per scrivere! Li osservo stizzito: «Questi sono tutti di stoffa!».

Li afferro uno dopo l'altro dal tavolo e li lancio per terra.

Alessia e Fabrizio ammutoliscono all'istante.

Tre, due, uno. Respiro.

Alessia abbassa di due toni la voce e si rivolge a Fabrizio: «Sì, prendiamo il calzone, è buonissimo, lo fanno bene.»

Fabrizio guarda la gente che ha preso a fissarci tutt'intorno e dice piano anche lui: «Te l'ho detto, ci mettono la mozzarella di bufala».

Io mi chino a raccogliere i tovaglioli e intanto penso che il pianissimo non ci sta bene, dovevano prima rimeggiare. Mi hanno rovinato la composizione. Non ho più fame.

Mi perdo dentro di me mentre vago con lo sguardo su questa strada di Roma, in mezzo ai platani e al fruscio che col vento sussurrano. È difficile starmi accanto, lo so, non riesco a farmi capire, a mostrare quello che vedo io. Non voglio isolarmi come ho fatto in passato, mi sforzo di essere qui ma sono già a percepire l'ombra che si frastaglia laggiù.

Il buio spaventa lo stolto che crede che senza ombre proiettate non si definisca il confine. Io vedo nel pieno di un nero totale ogni confine e so decidere verso quale camminare. Non è presunzione la mia, è consapevolezza che le cose, anche quelle che non sembrano reali, hanno un nome. Basta trovarlo. Alle mie note, ai miei confini, non ho ancora dato una traccia, suonano lente e spesso caotiche ma so che presto le metterò in fila e le afferrerò una ad una per farne collana di musica e tutte insieme suoneranno la mia sinfonia, quella che dall'oblio mi riporta la divino. Ci sarebbe bisogno di una mano, da soli è dura, ma la mano lunga del fato arriva per sua decisione e non su mia richiesta e non posso impedire che il destino faccia il suo corso anche laddove abbia l'intenzione di ferirmi, arroventare la mia pelle e lasciarla a lacerare giorni, fino quasi alla combustione. Non c'è perdono per uno stolto che nel buio non trovi il confine. Ma c'è redenzione per chi s'azzardi nelle tenebre a intraprenderne uno, pure fosse la scelta sbagliata.

«A cosa pensi? Quando ti assenti dove sei?» mi domanda lei, Alessia, con la Tuborg in mano e il culo sul muretto.

Alle spalle ha l'intera città: Roma, magnifica e luminosa. L'ultima fetta di notte da sopportare con lei che ha preteso che la portassi qui.

«Non sono da nessuna parte.»

Lei adora venire al Gianicolo in mezzo alle coppiette, col panorama romantico e nessun suono se non il rumore costante della città e lo schiamazzo molesto dei bevitori più in là.

Io invece detesto venire qui, in posti come questo, dove si inseguono rituali che omologano e non si percepisce il senso di quello che si sta facendo, lo si fa per moda non per necessità, luoghi statici che sembrano fotografie e basta, troppo lontani per ascoltarli e troppo immensi per catturarli. Servono solo a ingozzare l'ego di chi ha bisogno di salire in alto per avere la sensazione di afferrare qualcosa; senza suono, perché il rumore costante dei motori che si accendono e si spengono, il brusio senza sosta di voci sovrapposte che ogni tanto lanciano note più alte o sequenziali senza intonarne nessuna, non è un suono, è solo rumore.

«Ecco, tipo adesso, ti sei di nuovo assentato. A cosa pensi, dove sei?»

«Pensavo all'omologazione della gente e all'oblio dell'assenza di suono.»

Io ti ho risposto ma tu non mi credi o non mi capisci, mi stai guardando male, come una che si sente presa in giro. Allora perché mi fai domande, perché cerchi di entrarmi nella testa se poi quello che ci trovi non ti piace?

Tracanna come un'assetata, quasi si scola mezza bottiglia senza riprendere fiato, poi la smette, forse ingoia, sospira di brutto.

«Ho solo paura di perderti, amor, lo capisci?»

La paura è una brutta bestia, ci impedisce di fare la differenza. Trattiene l'impeto, trasforma il limpido in torbido.

«Ma mi ascolti?»

«Certo che ti ascolto.»

«E non mi dici niente? Rischio di perderti, rispondi!»

«Fai sembrare l'amore una proprietà. Una proprietà si può perdere, l'amore no. L'amore evolve, cambia, muta, si sposta, ma se lo provi non puoi perderlo a meno di non averlo mai provato davvero.»

«Come si chiama la tua cosa, quella che hai o che sei e non ti sforzi di farti capire? hasperger- savant sinestesico-qualcosa? È per questo che dici tutta 'sta roba incomprensibile? Le conosco, le conosco le tue risposte difficili, se vuoi puoi parlare anche più facile ma tu a non farti capire lo fai apposta!»

«Che c'è di difficile in quello che ho detto?»

Lei mi tira per le spalle, mi costringe a starle addosso, gli occhi negli occhi. Con le gambe mi blocca e mi incatena a sé. Con le braccia mi avvolge il collo.

«Io non voglio litigare, io voglio te. Lo so che non ti piace quella tipa anemica, volevo solo provocarti, scusami.»

Provocazione. Anche noi lo abbiamo fatto, l'abbiamo provocata, messa con le spalle al muro; si sentiva a disagio, tremava, non riusciva a parlare; la circondavamo, l'assalivamo di parole e lei aveva paura di noi, l'ho visto, l'ho percepito. Mio fratello l'ha resa ancora più fragile, l'ha tirata in ballo e l'ha scossa e lei ha vibrato come una corda lontana, una corda sola; non so chi mi abbia risposto al telefono quando l'ho chiamata ma sembravano due comari inacidite, senza musicalità nell'intenzione, con la sola prerogativa di essere carcere. In quel corridoio Eva non riusciva a guardarmi negli occhi. Sono stato carcere anch'io. Mi sento in colpa, mi detesto per questo.

«Lo vedi?», Alessia è lamentosa come una cantilena, «ti sei assentato un'altra volta. Dove diavolo sei adesso?».

«Ami chi non ti ama. Io ti ho detto che mi piace stare con te, mi piace la tua voce, il modo in cui gestisci il coro sui nostri pezzi e il tuo sorriso che sa di sinfonia, ma non ho mai detto di amarti.»

Meglio una corda sola che un arpeggio vuoto.

Lei insiste, «Ma non capisci? È questo il tuo modo di amare, tu non sei come gli altri, tu ami così, i dettagli, non la punteggiatura che serve per scrivere frasi banali sui muri!»

«C'è la punteggiatura anche nella musica, la punteggiatura è la matematica del suono e della parola e l'amore è musica.»

«Punteggiatura, matematica, tutte regole inutili. Io e te stiamo benissimo anche senza.»

Non è vero, l'assenza di amore non suona. 

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