12 - EVA, Inferno Purgatorio Paradiso

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A Michele



Cammino lungo il marciapiede dietro scuola guardando per terra. Non posso aspettarlo ancora, Marco non è arrivato. Dovrei preoccuparmi, ma la strada mi corre vicino e non la percepisco, mi sento leggera e, anche se sono consapevole che potrebbe essere successo qualcosa a mio fratello e che mia madre mi punirà, i miei passi planano su questo asfalto. Tengo stretto nella mano destra il vocabolario tascabile d'inglese e mi sembra di stringere il tesoro sommerso, il regalo più bello. Non ho idea di cosa dica la canzone ma sapere che Manuel me l'ha dedicata mi fa fibrillare. Mi sembra che il mondo sia diventato bellissimo, che i colori mi siano arrivati addosso e mi abbiano disegnata come non sono mai stata: accesa e non evanescente, viva e non vivida.

Sembra uguale, non è cambiato niente intorno a me, e non lo so spiegare ma la vita certe volte ti sorprende. E ti cambia dentro.

Una frenata brusca, un tuono alle spalle.

«Oh, Eva, cazzo, menomale, sali!»

Mio fratello ha spalancato la portiera della sua Golf e il motore sgasa, va di fretta e ha la faccia sudata.

M'infilo dentro al volo e non faccio in tempo ad allacciare la cintura che lui si è già lanciato su piazza Cavour come un pazzo col rischio di investire qualcuno.

Ha un livido in faccia, più o meno sotto l'occhio destro e le sue nocche strette al volante sono ferite, la pelle è chiazzata di rosso porpora.

«Hai fatto a pugni? Che succede? Perché corri così?»

Lui sterza, accelera, non mi guarda.

«Mi devo fermare a recuperare Noemi, tu non scendere dalla macchina per nessuna ragione.»

Inizio a provare paura allo stato puro, come se mi avessero dato due schiaffi e la pelle avesse preso a vibrare. Non ho il coraggio di obiettare, cerco solo di reggermi alla maniglia della portiera e mi inchiodo alla spalliera con occhi spalancati a osservare come angoli di strada ci arrivino in faccia e come a questa velocità ogni istante di vita sembri l'ultimo.

Percorre a sessanta via di Ripetta e raggiunge in pochi secondi lo slargo che accede a Piazza del Popolo, qui ci sono vigili e transenne e lui è costretto a frenare di brutto. Accosta sopra al marciapiede, lo sa che gli faranno la multa ma se ne infischia, sembra letteralmente fuori controllo.

Intravedo una folla immensa riversata sulla piazza di fronte alla chiesa della Madonna dei Miracoli, e vedo striscioni e ascolto cori da stadio urlare: assassini!

«Non scendere dalla macchina!», ordina Marco che smonta al volo, sbatte lo sportello e corre a infilarsi nella bolgia.

Ma non sarà mica il funerale di quella ragazza? Perché manifestano davanti al sagrato?

Sento un gelo arrivarmi sulla pelle, sono come immobilizzata, devo distrarmi, evitare di pensarci. Se mi torna in mente quella scena svengo.

Sangue. Urla. Il lenzuolo.

Sangue. Urla. Il lenzuolo.

Devo stare calma, devo rimuovere, lui torna subito, lui torna subito.

Decido di respirare e di concentrarmi su qualcosa di bello.

Mi metto a fissare la copertina del vocabolario. Ho un fremito. Sfilo il foglio ripiegato dalla tasca dei jeans e lo apro, ci passo la mano sopra per stirarlo e contemplo la sua calligrafia. Segni netti e decisi, un disegno anche nella scrittura. Sorrido silenziosa.

Mi si accorcia il respiro, non lo so, l'eccitazione, il terrore, non dovrei farlo qui, dovrei aspettare, tradurla stanotte, sul tetto, sotto le mie stelle, ma se poi sarò rinchiusa e senza vocabolario? Basta, provo a tradurre almeno il titolo.

Appena leggo mi sento confusa: creep. Se non sbaglio è una parola offensiva. Agguanto il vocabolario d'inglese e inizio a cercare, sfoglio con una foga tale che rischio di strappare le pagine e spero con tutta me stessa di sbagliarmi.

Oh mio Dio. Mi viene da piangere.

Creep: strisciare, verme, serpente, nello slang è lecchino, viscido.

Mi fermo. È perché sono secchiona, perché sono la cocca del professore.

Il cuore esplode, corre a mille.

Lo sapevo lo sapevo, mi offende anche lui, era una trappola come il bucaneve, voleva ridere di me, voleva—

Una botta forte contro lo sportello mi fa fare un salto. La macchina è circondata da una folla che va verso la piazza, l'aggirano, mi passano accanto, uno scavalca montando persino sul cofano. Vedo creste colorate e orecchini voluminosi, cartelline nelle mani e rotoli in spalla: li riconosco, sono di scuola mia.

Uno del quarto A si china a guardarmi attraverso il vetro e colpisce il finestrino col pugno: ehi, cadaverica, scendi!

E prosegue con altri, corrono via, s'infilano e sgomitano.

Sto tremando di paura.

Ho un sussulto appena avvisto la camionetta della polizia di Stato che sgomma e frena e vedo saltare fuori una decina di poliziotti armati di manganello.

Marco. Starà facendo a botte con qualcuno? E se lo arrestano?

Mi osservo di nuovo il foglio con la canzone tra le mani e mi dico che mio fratello è l'unico che non mi abbia mai veramente derisa, che in fondo mi vuole bene, che sarebbe pronto a difendere anche una che gli procura solo rogne come la sua ragazza drogata, perché lui non è come gli altri, non ti ferisce senza una valida ragione, non gode a vederti soffrire.

Manuel la pensa come suo fratello che lo vedo come mi guarda, che mi ha presa per un'attrazione turistica fin dal primo momento.

Che illusa, stupida e immatura. Che tragica ragazzina scolorita. Mi faccio ancora più schifo, vorrei sparire. Mi sale un impeto di rabbia che non controllo e con una mossa fulminea strappo il foglio alla velocità di chi si dispera perché la mia vita, quella che doveva farmi una sorpresa, ancora una volta mi ha ferita. Non c'è cambiamento nell'immobilità e non c'è perdono per qualsiasi forma di razzismo.

Spalanco lo sportello per gettare a terra i brandelli di foglio e lo spostamento d'aria causato dalla folla mi colpisce, osservo l'esodo: sono tutti diretti alla piazza. E se a Marco servisse aiuto?

Non ci rifletto troppo, sono già abbastanza fuori di me, piena di rabbia, allora chiudo il pugno, stringo i resti di queste offese nel palmo, alzo gli occhi e mi metto in piedi, chiudo la portiera e m'incammino rapida. Seguo la carovana, m'infiltro nell'esodo.

Stretta nelle braccia arrivo al confine col la transenna dei vigili e vedo tutt'intorno all'obelisco centrale un gruppo di gente che urla con gli striscioni "l'avete ammazzata, siete assassini" e i poliziotti li spingono indietro perché sul sagrato della chiesa alla mia destra c'è il feretro e un prete col microfono recita una predica nel tentativo disperato di seppellire quel coro e di farsi ascoltare da quelli che sono qui per il funerale e non per manifestare.

Alle spalle del prete non posso fare a meno di vederli, sono loro, sono i Pride. In piedi tra i fiori suonano e accompagnano l'omelia.

Il pugno chiuso con dentro le sue offese trema. Stringo i pezzi sempre più forte e lo odio.

Mi infilo nella folla, mi muovo con le spalle come fossero un'arma di difesa, non li voglio nemmeno guardare i Pride, voglio cancellarli, io non sono una di queste tipe adoranti, non gli permetterò di colpirmi di nuovo.

Cerco di arrivare il più vicino possibile al sagrato e la vista della bara bianca circondata di bucaneve mi fa arrivare negli occhi un lampo di lacrime. Bucaneve.

Tutt'intorno è pieno di bigliettini colorati e di lettere e di disegni, fiocchi e graffiti e fotografie di lei, di quella ragazza bionda e dei suoi compagni di scuola. ANNA. La lacrima mi cola lungo la guancia e non mi accorgo che sto ascoltando le parole del prete, in piedi lassù, col vento che muove la sua tonaca e gli scompiglia i capelli.

Parla solenne guardando alla piazza.

«Quando una persona ti muore vicino ti ricorda quanto la vita non ha senso. Che stai a fare lì contrito a chiederti come pagare il mutuo o l'asilo di tuo figlio se poi muori? Che lo cerchi a fare un lavoro se poi muori? Cosa studi a fare? Se poi muori. Certo, se la mettiamo così: tutti sotto a un treno, come ha fatto Anna, e non se ne parla più. Allora forse dovremmo chiederci dove sia il senso della vita, perché deve pur essercene uno. Anche quando facciamo uno spettacolo e il sipario si apre sappiamo che tra due ore finirà e si chiuderà; cosa lo facciamo a fare lo spettacolo? Noi abbiamo bisogno di sensare il nostro tempo su questo palcoscenico, dimostrare il nostro valore, affacciarci alla vita pur sapendo che finirà. Se questo sipario lo chiudessimo immediatamente e senza lottare, a cosa sarebbe servita l'occasione che abbiamo avuto di provarci? Il tempo che ci hanno dato andrebbe sprecato. Non possiamo decidere quanto lo spettacolo durerà, ma possiamo decidere di dare il massimo su questo palco. In fondo se la vita non avesse durata, non avesse una scadenza, se fosse infinita non avrebbe lo stesso valore che ha; ogni cosa fatta sapendo che finirà ha valore, perché ci vuole coraggio per farla lo stesso.»

E ora avverto un vuoto farsi strada dentro la mia anima, quella che non sono mai stata certa di avere e che adesso pare risvegliata per ferirmi e farmi male. Male come la morte di Anna, male come le offese di Manuel, male come le urla dei manifestanti. Ma soprattutto male come la mia codardia.

Si alza un applauso e i Pride intonano la canzone. Tutti cantano in coro More than words insieme a loro.

Sono piccola e indifesa sulle note di questa canzone e davanti a questo nuvolo di palloncini bianchi e rosa che si levano in cielo.

Stanno tutti col naso all'insù per vederli librarsi verso le nuvole.

Sono così tanti e infiniti e volano fino a coprire l'intero orizzonte. Di nuovo un applauso, di nuovo ho un fremito che mi fa vibrare il cuore.

I palloncini che volano alto sono il ricordo di tutte le persone che se ne vanno, che ci lasciano, che abbiamo perso. Sono le ali che portano gli angeli in cielo. Io che vivo all'Inferno mi chiedo dove sia il Paradiso, se davvero si possa raggiungere con un palloncino, o se sia ancora più vicino di quanto pensiamo. Magari è dentro e non intorno. Magari si esprime con le note e con l'amore. E se non riusciamo a sentire né le une e né l'altro siamo in Purgatorio.

Non ho avuto il coraggio di parlarne, di accettare la morte di Anna, di dire che io ero lì davanti a lei, e ora sono tutti qui a domandarsi perché si sia suicidata alla sua età. Piango in silenzio. Mi unisco a questi ragazzi che nemmeno conosco e per un attimo, un solo infinito attimo mi sento una di loro.

Avverto le urla dei manifestanti alle spalle farsi insistenti, se possibile sotterrano anche le note della chitarra e del pianoforte.

Si sente uno scoppio.

Ci voltiamo tutti ad osservare l'obelisco, è stato lanciato un fumogeno. La folla si sta disperdendo. Alcuni sono stati caricati sulla camionetta.

Mio fratello! Mi metto a sgomitare per andare in quella direzione, devo trovarlo.

Cammino fino allo schieramento dei poliziotti e uno mi fa un gesto, dice di spostarmi, di stare indietro. Ma io non posso farlo, ho visto Marco.

Noemi, la sua ragazza pailletata, urla contro i manifestanti, sembra impazzita e il solo a trattenerla è Marco.

«Mio padre non è un assassino, lui non c'entra niente, bastardi!», grida disperata.

Marco la prende con la forza e se la carica in braccio prima che un drappello agguerrito che ha rotto la fila le arrivi addosso e la picchi. Cerca di portarla via e due poliziotti fanno da scudo.

Vorrei raggiungerlo, andare con loro ma mi perdo tra la gente che ora ha preso a spingere e non riesco più a respirare.

Sono afflitta da un tremendo senso di colpa. Avrei dovuto parlare, avrei dovuto dire quello che ho visto.

Per un attimo mi sento schiacciata e l'unica cosa che tengo salda è il mio pugno che ancora stringe brandelli di una speranza che è svanita come i palloncini, perché sono svaniti, sono già arrivati lontano dove lo sguardo non arriva.

Mi sto sentendo male in mezzo a questa folla e l'unica cosa che riesce a distrarmi è ascoltare la sua chitarra, le sue note, che ora volano alte, più di quei palloncini, acute più delle urla dei manifestanti, ora la piazza si è riempita dei suoi arpeggi e della voce di Massimo che canta i Pink Floyd:

So, so you think you can tell
Heaven from hell
Blue skies from pain
Can you tell a green field
From a cold steel rail?
A smile from a veil?
Do you think you can tell?

...

Quante notti intere l'ho ascoltata su quel tetto. Quante volte con Wish you Were Here ho detto a me stessa: resisti.

Trovo la forza di spingere via la massa che mi sta schiacciando, trovo in me il coraggio di reagire, vado avanti e per un attimo sfioro il sagrato, sfioro il sorriso di Anna fermo nella foto attaccata alla corona di fiori che sembra salutarmi, sfioro il vento e il sapore del sale che hanno le lacrime quando ti arrivano sulle labbra.

La musica lentamente svanisce sotto un tumulto di grida e di applausi, il prete sta congedando la folla, tra poco porteranno via il feretro.

Ho avuto l'impressione che qualcuno abbia chiamato il mio nome, ma ho quasi trovato una via di fuga e non posso fermarmi proprio adesso.

Sto correndo verso la prigione? Sono le sei del pomeriggio e io mi concentro per tornare verso la Golf col peso della certezza che mi punirà, mi chiuderà dentro. Aveva giurato che se avessi sbagliato ancora mi avrebbe mandata a vivere a Reggio da papà, che a Roma non avrei più messo piede, sono sicura che questa è la volta che manterrà la parola. Nei prossimi giorni non potrò ricevere telefonate, non potrò tornare a scuola. Il mondo andrà avanti senza di me, le persone cammineranno ancora, sorrideranno, urleranno e io non sarò tra loro. Io potrò solo immaginare. Ma dopo questo ennesimo scherzo del destino io credo di non meritarlo neanche un posto nel mondo, e Manuel Remis me lo ha fatto capire, mi ha aperto definitivamente gli occhi. È vero lo spettacolo ha una scadenza, dobbiamo viverlo fino in fondo senza temere la fine, perché vivere sapendo che ci sarà una fine ha più valore, ci vuole coraggio. Vorrei solo che le cose fossero più semplici, che le persone smettessero di ferirmi solo per il mio aspetto perché io non scavalcherò una banchina per gettarmi sotto a un treno in corsa, ma non riuscirò a vivermi la vita lo stesso se dovrò farlo dietro sbarre invisibili.

Eva!

Allora era vero, qualcuno chiamava il mio nome.

Non faccio in tempo a voltarmi che mi vedo arrivare incontro Manuel Remis che stringe nella mano sinistra il manico di una chitarra.

Ha il fiato corto e il viso arrossato, niente in confronto al sussulto che ha fatto saltare il mio battito appena l'ho visto.

«Ci sei anche tu!», ormai è proprio davanti a me.

Lo guardo male, malissimo, con odio, senza nemmeno pensarci apro il pugno e gli lancio in faccia il mucchio di brandelli.

Lui si guarda addosso spaesato, osserva i pezzi di carta e appena alza lo sguardo mi volto.

Riprendo la marcia. Quasi corro.

La macchina di mio fratello è a cento metri e lui mi sta cercando. Ha caricato Noemi sul sedile posteriore a sta urlando il mio nome.

Accelero, quasi salto e sento che il mio zaino è tirato indietro.

Manuel mi trascina fino a lui ma non sta guardando me, si guarda intorno, nota gruppi di ragazzine proiettate verso di noi, poi osserva l'angolo a destra. Senza dire niente mi trascina laggiù, dietro a quel muro.

Perché i nostri incontri sono sempre dietro a un muro?

Mi ferma col braccio e le mie spalle finiscono contro la parete di tufo e mattoni.

«Ma che cosa vuoi, lasciami in pace!»

E mentre mi guarda attonito la mia anima fugge da me, dalla tensione di questo stallo che sembra infinito, da noi due. La mia anima si libra in cielo e vola alto come quei palloncini sopra questi tetti di Roma, sopra la cupola della chiesa ancora gremita mentre il feretro si allontana sotto uno scroscio di applausi, e più in là, davanti all'obelisco, dai gruppi di manifestanti che vengono allontanati mentre le sirene delle volanti contrastano il rumore della folla, la mia anima fugge da tutto e vola alto fino a questo vicolo infilato nei sampietrini divelti e torna su noi due soli qui a galleggiare col tempo che si è fermato mentre un nodo che mi stringe la gola non mi permette di respirare.

D'istinto lo spingo indietro con due mani.

«L'ho tradotta, sai? Un verme viscido, ruffiano e lecchino, dice la canzone!», mi lamento col dolore nella voce. «Non ce n'era bisogno, sai, lo sapevo già, anche prima che tu mettessi piede nella mia scuola, quindi mi dispiace per te ma non mi hai ferita neanche un po'.»

Manuel sgrana gli occhi, quei tremendi e gelidi abissi amari in cui rivedo la mia anima capovolta. Sono pietrificati, sembra che il suo corpo sia diventato di marmo, come gli avessi lanciato addosso un incantesimo per immobilizzarlo.

Poi lo sento respirare e quasi mi rilasso, avevo temuto per lui.

Con la voce che è appena un sussurro dice: «Eva, no. Non hai capito niente. Ti prego, adesso calmati e ascolta».

Solleva la chitarra e sembra sul punto di mettersi a suonare.

No. Non lo voglio ascoltare.

Io sto per essere rinchiusa a vita. Il resto non ha più senso.

Lo blocco con un secco: «Fermo! Non me ne frega niente, non so cosa cerchi di fare ma sappi che non riuscirai a ferirmi con una stupida canzone.»

Abbassa la chitarra e accorcia la distanza, siamo così vicini che sento il suo respiro caldo arrivarmi sulla pelle. Non ho il coraggio di guardarlo negli occhi, è così magnetico che mi fa sentire persa, lo faccio di nuovo, lo spingo indietro.

«Eva, ma cosa hai tradotto? Cosa --»

Io sto per essere rinchiusa a vita. Il resto non ha più senso.

«Non ci provare, Remis! Guarda che quella parola l'ho tradotta col vocabolario! Devi smetterla, non me importa niente di parlare ancora con te, tanto a scuola non tornerò più.»

Io sto per essere rinchiusa a vita. Il resto non ha più senso.

Lui mi resta a guadare con gli occhi confusi e infilati a forza dentro ai miei così vicino e così forte che riesco a sentire anche la sua anima dietro a questo angolo di strada, davanti a questo muro di mattoni.

«Devo andarmene», aggiungo sonora, come una che tiene duro e non molla il punto.

Lui avanza e io indietreggio e finisco di nuovo con le spalle contro il muro. Fa un altro passo e mentre fisso la strada acciottolata sotto alle mie Converse come dovessi contare i pezzi che ci tengono in equilibrio, lo sento sussurrare.

«No, tu non te ne vai, ti prego, non te ne puoi andare, io ti devo --»

E di seguito ascoltiamo un urlo feroce: Cazzo! Eva! Porca troia!

Scattiamo col collo a sinistra, dal vicolo sbuca Marco, agguerrito, sporco di sangue e in marcia verso di noi con falcate lunghe e rabbiose.

«Dove cazzo stai! Dobbiamo andarcene subito!»

Il mio cuore salta, non riesco a respirare.

Manuel allunga un braccio a palmo aperto e lo blocca colpendogli il petto.

«Oh, non mi toccare!», lo minaccia Marco di rimando, «Che stavi facendo a mia sorella?».

E lui, come per un riflesso condizionato, alla parola sorella abbassa la mano e si fa indietro.

Urlo come una ragazzina con l'isterismo nella voce: «Oh, Marco, datti una calmata!».

«Adesso muoviti, dobbiamo scappare! Dì addio al tuo amico!».

Lo so che lo dice perché odia i dark, i punk, i freak, insomma odia tutto quello che non appartenga alla curva nord, ma addio è qualcosa che dovrò dire davvero, perché a differenza di Marco che gode dell'immunità dinastica, io verrò segregata a breve.

Mio fratello si volta e marcia verso la fine del vicolo: «Cammina, muoviti! Andiamo!».

E poi lo faccio, quasi non riesco a credermi mentre lo dico.

«Addio, Remis.»

E non lo sto nemmeno guardando, non ho la forza.

«Perché? Perché addio?», sento alle spalle.

Giuro che vorrei averlo guardato un'ultima volta, perché adesso che sto camminando per raggiungere Marco non ho idea di cosa il Magnetico avrà pensato.

Sono una stupida, stupida idiota, dovevo guardarlo per l'ultima volta.

Mi ha fatto male, eppure non m'importa se il suo piano fosse quello di ferirmi, per quanto sia stato breve e fuggevole il nostro incontro in questa vita, io non lo rimpiango; le anime si sfiorano anche per poco, e se riescono a toccarsi, il loro ricordo resta inciso nell'eterno.

Sbatto lo sportello e mi metto a braccia intrecciate. La tipa seduta di dietro nemmeno la considero. Mio fratello mette in moto, sgasa, è costretto a fare lo slalom per non schiacciare le carovane di gente che affollano il centro della strada per dirigersi verso l'Ara Pacis.

«Potevi essere un po' più gentile, quello è un mio compagno di classe.» E sembra che lo dico sul punto di piangere.

Marco fissa la strada e tira una sterzata brusca, poi rallenta e poi accelera.

«Ma tu hai capito che cazzo è successo? Ti pare il momento di metterti a chiacchierare nei vicoli con quella specie di BonoVox dei poveri?».

Noemi paillettes col rimmel scolato e il rossetto sbafato sbraita: «Dovevi lasciarmi stare! Non dovevi venirci qui, erano affari miei!».

Marco sventola una bracciata all'indietro nel tentativo di afferrarla senza distogliere lo sguardo dalla strada, e poi le parla attraverso il retrovisore: «Tu sei una pazza, una cazzo di pazza! Hai rischiato l'arresto e di farti ammazzare da quegli invasati! Ci vai con la minigonna e i tacchi a litigare al corteo dei centri sociali?».

«Quelli accusavano mio padre! Lui sta ai domiciliari per colpa delle loro illazioni!»

Se questi due non la smettono di urlare così, giuro che spalanco lo sportello e mi lancio fuori dalla macchina in corsa.

Mio fratello accosta l'auto a pochi passi da piazza Navona.

«Scendi», dice nel retrovisore.

«Ma che vuoi fare?», gli stringo il braccio, «La vuoi mollare in mezzo alla strada, adesso?», sono agghiacciata.

Lui stacca la mia mano e sbuffa. «Abita qui.»

Scatto con la faccia sul portone fiorito di fronte agli scavi dello stadio di Domiziano e dimentico di respirare.

Noemi paillettes tira un lamento, «Ti odio, ti detesto!», smonta e sbatte lo sportello.

«Sì, brava, ringrazia che ti ho fatta tornare a casa tutta intera!»

«Invece no! Non sono intera!», solleva le scarpe e le piazza davanti al finestrino, «Mi si è rotto un tacco!».

Si volta e se ne va scalza e sculettando verso il portone fiorito.

Mio fratello fa un respiro lungo, si accascia contro il poggiatesta e chiude gli occhi.

In effetti non sono sicura se sia peggiore la mia sorte o la sua.

Non ho paura.

Mezz'ora dopo l'auto costeggia il viale che conduce in cima a via di Porta Lavernale, mancano pochi secondi al patibolo, sono quasi le otto di sera e l'ultimo scampolo di tramonto irradia una luce sinistra attraverso i rami dei platani e io mi stringo nelle braccia e non riesco a smettere di tremare.

Non ho paura.

Non mi importa più di quello che mia madre mi farà. Non riesco a smettere di pensare che per la prima volta il mio cuore aveva iniziato a battere per qualcuno e non solo per automatismo vuoto, e che ci ha messo un solo giorno a crollarmi addosso. Ormai se mi rinchiudono e non torno più a scuola è uguale. Io sono solo uno spettro che spaventa i bambini e demoralizza gli adulti. Dietro le sbarre non darei più fastidio a nessuno.

E mi torna in mente la bara bianca, e i bucaneve che circondano il sagrato e quegli occhi così profondamente tristi che Manuel Remis ha puntato su di me forse per il senso di colpa, per una strana forma di pentimento, per avermi offesa in quel modo. E ho un nodo stretto nello stomaco che nemmeno tutta la mia forza di volontà riesce a sciogliere.

Mio fratello accosta davanti al cancello e preme il tasto del telecomando. Quando la grata comincia a muoversi per farci entrare si avvede del mio respiro convulso.

«Eva, non ti succederà niente. È stata tutta colpa mia, mi assumo la totale resp--»

«Ma non lo capisci?», lo interrompo, «Mamma ama te almeno quanto detesta me. Sfogherà tutto il suo odio su di me e tu non potrai farci niente ma non mi importa, tanto io non ho niente da perdere».

Marco molla il volante e mi afferra il mento con la mano, mi osserva accigliato, «Eva smettila di fare la vittima! Lascia parlare me e non dire una parola, ci penso io».

Lui mamma non la teme, anzi l'affronta.

S'inoltra lungo il viale del giardino per raggiungere il cortile dell'ingresso.

«Oh cazzo!», fa una manovra veloce e schiva il Mercedes nero che ci luccica davanti appena svolta l'angolo.

«C'è papà!», quasi lo grido.

Quello che teme è nostro padre. 

https://youtu.be/axrqVfuGHh0

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