Capitolo I- Kalendae

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La Vaas era cupa più del solito, quella mattina di agosto.
Il semestre era iniziato da pochi giorni e tra chi ritornava da un'estate in Inghilterra, a chi aveva passato la pausa estiva con la famiglia, sperduto in qualche maniero nelle campagne, tutti sembravano essere ancora più stanchi e lunatici di prima.
I portici del campus erano colmi di gruppi di studenti confusionari e in movimento, che come tante piccole società segrete discutevano, sussurravano, fino a che tutte le loro voci non ne diventavano una unica, rimbombante lungo le arcate dei portici.
Era raro che la Vaas ricevesse tante iscrizioni per il nuovo anno scolastico: college sperduto nei campi, lontano da Edimburgo il giusto per scoraggiare chi aveva intenzione di vivere in città, la Vaas era un luogo quasi mistico e leggendario, di cui tutti avevano sentito parlare ma che nessuno, tranne i suoi sfuggenti studenti, aveva mai davvero visto.
Svettava tra i colli di brughiera come un'immensa e scura macchia grigia, con le sue costruzioni in pietra, le colonne a grappolo e i grandi archi; un castello diroccato, una rocca antica che con il suo passato e le sue tinte fosche corrodeva il chiaro dell'erba secca che la contornava.

Eppure quell'estate, radunati davanti alle entrate dei vari dipartimenti, si erano raggruppati più matricole di quanto chiunque se ne sarebbe aspettate.
Quelli del terzo e quarto anno passavano loro accanto, scoccando occhiate e commenti, mentre camminavano con in mano i libri dalle copertine sbucciate degli anni prima.
Era un giorno freddo, colpito da quelle lamine di vento con cui tutti avevano imparato a convivere da sempre, ma non pioveva.
Il cielo, plumbeo dietro le guglie appuntite dell'edificio dell'ala di Scienze Naturali, prometteva una pioggia che sembrava essersi gelata dietro le nuvole congestionate e dense, senza però riversarsi sui campi sottostanti.

L'aula magna era piena per metà.
Nessuno era chino a scrivere, ma tutti, chi più e chi meno, stavano in allerta: una ventina di bracchi da caccia in ascolto dei comandi del cacciatore.

«È vero che tutto può ricollegarsi alla chimica? So che molti tra di voi, qui, potrebbero dissentire.
Ma la nostra raison d'etre, come ho sentito chiamarla da voi in maniera non del tutto sincera, è molto più che calcoli stechiometrici. Quando pensiamo a ciò che ci circonda, la prima cosa che ci sorge alla mente è il fenomeno dell'osservazione: e cosa c'è di più collegabile alla scienza se non l'osservare?

L'occhio umano vede la realtà, o almeno la sua realtà, se vogliamo metterla in termini sofistici. Ma il nostro non è un dipartimento di filosofia, e il nostro obbiettivo non è quello di interrogarci su questioni simili, almeno non adesso. Per noi il mondo è, esiste.
Ma l'uomo può comprendere che esista, che sia concreto qualcosa seppur non sia alla sua portata? Seppur non lo possa vedere?
Qualcosa di invisibile all'occhio umano, qualcosa che si può solo teorizzare, non è forse una questione quasi troppo empirica per essere definita scienza?

Se vi state anche voi interrogando sulla moralità di queste domande, ecco, mi dispiace annunciarvi che avete dubitato dell'esistenza del mondo microscopico.
Come per molti prima di voi, naturalmente, l'esistenza di un qualcosa di non percepibile dall'uomo non era possibile; ed è qui che entra in gioco la scienza, la chimica: poter andare oltre la nostra realtà, fare quasi un atto di fede, alla ricerca di un concetto che non abbiamo mai visto con i nostri occhi.
E c'è stato qualcuno che questo atto di fede lo ha fatto: gli Arabi, con la loro arcaica alchimia, quella che ora nemmeno definiremo più scienza, ma che ha fondato le basi per i nostri calcoli; Henry Cavendish con la scoperta dell'Idrogeno, che ora ci appare come una banalità, seppur sia la fondamenta del nostro lavoro, Lavoisier con il suo tutto si crea e nulla si distrugge, e tutti quelli prima di lui, con la grande rivoluzione scientifica.
E le altre scienze? Ognuna di loro è, anche in minima parte, influenzata dalla chimica.
Non c'è disciplina naturale che non lo sia: basti pensare alla fisica, all'astronomia, alla geologia e alla vostra tanto amata biologia.

Quindi sì, per rispondere alla mia domanda d'origine, la chimica è ciò che più vi farà penare, metterà alla prova la vostra coscienza e maturità, vi demoralizzerà lezione dopo lezione: ma è davvero la scienza necessaria.
E senza di lei non avreste più ragione di chiamarvi scienziati.»

Era così che Arthur Montgomery, professore di chimica al dipartimento di Scienze Naturali della Vaas, aveva risposto alla domanda posta da un allievo: "perché la chimica avesse più ore nell'orario scolastico rispetto alle altre discipline".

Montgomery si era sistemato col suo solito fare scomposto sul bordo della sedia, iniziando un monologo che ormai tutti, dentro e al di fuori del corso, conoscevano.
Un discorso accattivante, senza dubbio, ma che da almeno cinque anni non sortiva più l'effetto sperato.
La nuova generazione, semplicemente, sembrava essere più interessata al proprio risplendente futuro, più che al risplendente passato di una disciplina troppo ostica e troppo rigorosa nelle sue leggi.
E di questo Montgomery se ne lamentava tutte le mattine, inasprendo le imitazioni dei suoi studenti ogni giorno di più.
«Col cambio di secolo c'è stato un abbassamento sostanziale della voglia di conoscere, suppongo» diceva sempre, pungente nella sua ironia.
«Ora addirittura gli studenti di questa scuola credono troppo complicato un semplice ragionamento stechiometrico!»
E l'ala di lettere antiche gli dava ragione.
In pochi ricordavano più di una ventina di deponenti, molti si lamentavano a proposito dell'estrema specificità di certi trattati di Vitruvio; nessuno aveva ancora veramente capito la dottrina delle idee di Platone.

La conclusione a cui tutti giungevano, e di cui era convinto anche Montgomery, in quel momento assorto a osservare un pubblico muto più simile a un branco di spettri, era che i nuovi scienziati, i nuovi classicisti e i nuovi studiosi avrebbero voluto conoscere solo il sapere necessario ai loro pretesti personali.

«Scusate» esclamò qualcuno dal fondo dell'auditorium, la sua voce come un eco infinito a vibrare lungo le pareti di mogano.

«Dite» Montgomery sorrise. Qualcuno lo aveva ascoltato, allora.

«Vi è stato specificato dove si svolgeranno le lezioni di biologia, quest'oggi?»

Certamente. Biologia. La nuova Ars Magna.

«No. Non mi è stato specificato nulla per quest'oggi.»

La voce, squillante e decisa, ribatté con un graffiante ringraziamento.

Emeline alzò di poco lo sguardo, indecisa se investigare o meno sulla provenienza di quel timbro punto di critica.
File centrali, posto laterale, probabilmente.
Ma osservando quello che secondo le sue deduzioni doveva essere il luogo preciso, trovò due sedie vuote.

Montgomery si chiuse in un breve e densissimo silenzio, in cui tutti, come spinti da una forza concessiva maggiore, presero a mischiare le proprie voci in un tumultuoso ronzio di bisbigli.
E mentre il vociare rimbombava lungo le pareti ampie e affrescate dell'aula, i raggi freddi della mattina filtravano attraverso i vetri colorati della cupola sopra le loro teste.
Prodigio architettonico e orgoglio della Vaas, quella cupola: si diceva fosse risalente al cinquecento, ma senza prove certe nessuno teneva mai a confessarlo pubblicamente. Rimaneva il fatto che fosse una meraviglia di sfumature, un caleidoscopico mosaico che, da illuminato, rendeva l'aula una perfetto spicchio inondato della più forte luce.

In mezzo a quell'aurea calda, Montgomery prese a camminare.
«Bene» sbuffò, privo di entusiasmo.
«Allora possiamo iniziare la lezione. Isomeria di struttura. Di certo la avete già trattata, ma ci tengo a fare un'introduzione.»
Divise in due un pezzo di gesso, quello si spezzò in uno schiocco sordo.
Scrisse il titolo in un corsivo stretto e sottilissimo.

«Grazie ai nostri predecessori quali Friedrich Wohler e Justus von Liebig sappiamo che fulminato d'argento e cianato d'argento hanno notevoli differenze nelle loro proprietà, seppur vantino la stessa composizione.
Questa affermazione ci fa comprendere meglio il significato di isomero e di come l'arrangiamento degli atomi nella struttura molecolare sia essenziale.
Così, senza un'attenta analisi approfondita, tutte le molecole con la stessa composizione ci sembrerebbero perfettamente identiche e l'isomeria non esisterebbe.
Quello dell'isomeria è un concetto relativamente recente, anche se il primo a formularlo fu il padre della chimica Svedese...» camminava in cerchi sconclusionati, mentre la sua voce pacata rimbombava lungo l'auditorium e la polvere danzava, fluttuando nello spazio come tante piccole gemme cristallizzate nel tempo.

«Jacob Berzelius.» Emeline sedeva nella penultima fila, dove la luce arrivava sotto forma di penombra e tutto sembrava più scuro e marcato.
La sua risposta si perse in quell'oscurità, e sembrando esserne risucchiata non arrivò all'orecchio del suo destinatario.

«Jacob Berzelius?» disse un altro studente.

«Esatto.» Montgomery annuì con la velata e cortese superiorità peculiare degli accademici del suo tipo.
Con quel suo orologio da taschino e quell'aria sempre calma si era fatto amico almeno metà dei suoi allievi, seppur fuori da quell'aula affermasse categoricamente di non sopportare nessuno di loro.

Emeline non aveva mai veramente riflettuto a proposito delle sue considerazioni su di lui, ma sapeva per certo che tutti gli altri amavano discutere sulla sua persona, nei momenti morti; sotto i pini silvestri del cortile, lungo i corridoi, nelle pause spese sdraiatati sul prato o a cavalcioni sui bordi delle ampie scale esterne.

«Berzelius, si deve a lui la scoperta del litio e del... cerio, vero?» chiese un ragazzo tra le prime file, rammendando a tutti un disastroso esperimento che avevano fatto con l'elemento tempo prima.
Emeline pensò che dare a uno studente proveniente dall'ala di Fisica il compito di calibrare lo zinco necessario fosse stata una pessima idea.
Certe cose non si potevano scusare, non in quel mondo fatto di percentuali al millesimo e di sguardi sempre attenti.
Lei lo sapeva perfettamente, e avrebbe dovuto comprenderlo presto anche quell'allievo indeciso. Odiava le persone indecise.

«Berzelius non ha scoperto il litio. Lo hanno fatto i suoi studenti. Berzelius ha isolato lo zinco, ha scoperto il cerio e silicio, facendo reagire tetrafluoro di silicio con potassio.
Il resto no
Una voce squillante e decisa, inasprita da una punta di critica, corresse il ragazzo.

«Avete ragione, lo ammetto» Montgomery sorrise senza umorismo, prima di guardare in faccia il coraggioso che aveva parlato con così tanta severità.
Anche Emeline assottigliò lo sguardo per osservare meglio quell'individuo.
Seppur avesse l'impressione di doverlo conoscere, non riusciva a rammentare dove avesse potuto averlo già visto.

«Visto che ormai il dibattito è aperto, qualcun altro ha qualcosa da aggiungere?» chiese Montgomery.
Poi, guardandosi intorno, squadrando la platea davanti a lui con un mezzo e tirato sorriso tra i denti, «nessuno?» lanciò un'occhiata, ma non ci fu alcuno che andò oltre un segno di diniego o un'alzata di spalle.

Emeline fece schioccare la lingua, prima di abbassare lo sguardo e iniziare a scrivere.
Avrebbe voluto aggiungere molte cose, le venne da pensare, mentre intingeva il pennino della stilografica nella boccetta dell'inchiostro. Ricopiò una formula lasciata a metà, ripensando al contenuto di quei quaderni;
concetti solidi, testati, nulla che si potesse paragonare a ciò che stava teorizzando.
Le sue erano solo idee.
Idee ambiziose e pericolose, senza ancora la consapevolezza di esserlo.
Ma solo semplici, inconsistenti idee.

Porte su porte, una dopo l'altra, una più scura dell'altra, componevano il corridoio del primo piano.
E come un'infinita illusione ottica, più si avanzava più sembrava svanire la profondità di quelle stanze, persa nelle arcate, nei fondi scuri delle pareti, nelle mensole curve colme di libri.
I pavimenti di cedro erano freddi, umidi, illuminati dalla luce grigia dell'esterno, e i tacchi delle scarpe battevano e rimbombavano su quel legno antico.
Gli stivali bianchi di Emeline percorsero rapidi la via principale, passarono sotto l'arco che componeva il finale dell'ampia e maestosa scalinata di ingresso, donando un rapido movimento all'immagine statica dell'entrata: intarsi scuri, marmo lucente; statue di angeli tristi e immobili, il manifesto di tela con il motto della scuola.

Gli stivali si fermarono per qualche secondo.
Poi decisero di tornare indietro, mentre i lacci continuavano il loro incessante e ritmico tintinnio, percorrendo di nuovo quelle scale di legno marcio.
Emeline ripercosse i suoi passi con una fredda irritazione, rimproverandosi più e più volte, ripetendo mentalmente e senza interruzione il suo grave errore di aver dimenticato la cartella di cuoio nell'aula magna.
Se quei rimproveri l'avessero fisicamente ferita ogni volta che se li infliggeva sarebbe morta dissanguata di lì a poco, pensò, sorridendo appena.

Salì lungo la scala a chiocciola del secondo piano, avanzando due scalini alla volta con il ritmo scoordinato di una ninna nanna distorta. Sentì di nuovo sulla pelle gli spifferi gelidi della grande finestra a mosaico che ricopriva la parete del corridoio, prima di fermarsi bruscamente davanti all'aula.
La cartella era lì, sotto la sua seduta; dimenticata prima di uscire, senza che nessuno avesse potuto avvisarla di averla scordata, perché lei lasciava sempre la stanza per ultima.

L'afferrò senza delicatezza, prima di dare uno sguardo distratto intorno a lei.
Così, senza le chiacchiere, i passi, il rumore graffiante dei pennini sui fogli, quella sala sembrava l'ombra di ciò che era stata.
Se non fosse stata abitata tutti i giorni, forse lo sarebbe potuta essere davvero: come una delle tante dimore della campagna, con gli infissi grondanti d'acqua e le finestre spaccate; la neve che, d'inverno, spioveva dai buchi sul soffitto.
Se non l'avesse visto coi suoi occhi tutti i giorni, Emeline non avrebbe mai potuto pensare che quell'aula fosse stata ancora in uso.
Eppure lo era.
Accoglieva le voci attraverso le sue soffocanti pareti scure da secoli, e c'era qualcosa di terribile nel suo sopravvivere: un fascino conservato, seppur lontano, che faceva dimenticare ogni tipo di decadenza.

Si fermò in mezzo al silenzio, assaporando quella quiete impossibile se non quando la sala era totalmente vuota.
Emeline lasciò vagare la cartella stretta in mano, facendola volteggiare come in uno strano valzer con se stessa.
Era così che voleva vivere.
Nel vuoto, nel silenzio, e con i suoi appunti da rileggere appena ne avesse avuta voglia.

«La radice di Iris? No, ne abbiamo già parlato. È utile per il collagene, niente di più. Non ha effetti duraturi.»
Una voce bassa e ferma ruppe quel silenzio immacolato.
Il suo suono era attutito, come se fosse lontano e al contempo più vicino di quanto si pensasse.
Emeline si bloccò di colpo, interrompendo con violenza una debole mezza piroetta.

«Perché? Fino a qualche giorno fa eri d'accordo. Devi sempre cambiare idea all'ultimo.» Un'altra voce. Più acuta e concitata, più familiare.
Era come se si muovesse da una parte all'altra della sua mente, pensò Emeline.
Come se fluttuasse nello spazio e camminasse vicino al soffitto.

Strinse la cartella alla spalla, poi capì finalmente da dove provenissero quelle due voci litigiose.
Davanti a lei, al limitare dell'auditorium, si ergeva piccola e discreta una porta di ciliegio riverniciata di bianco, strana e ammaliante come in un libro di Lewis Carroll.
Il pomello d'ottone era girato, e si intravedeva una luce fredda provenire dalla stanza che avrebbe dovuto proteggere.

«Io non cambio idea all'ultimo. Cerco solo di essere realista, e la tua radice d'iris non funziona. Mi dispiace.»

«Bene quidem. Allora cosa proponi? La calendula?»

«Devo pensarci. Ma mi sembra un buon inizio. Ha delle ottime proprietà ringiovanenti.»

Emeline fece qualche passo verso quel pomello. In pochi attimi si trovò vicinissima alla porta, senza nemmeno rendersene conto.
C'era qualcosa di magnetico in quella discussione, in quelle due voci così diverse che parlavano tra sussurri concitati.

«Ma sono quello che cerchiamo, le proprietà ringiovanenti?»

«Dobbiamo partire da loro, ovviamente. Non puoi avere tutto subito.»

Chiuse un occhio sperando di osservare i visi delle due persone dietro la porta.
Lanciò diverse occhiate prima di riuscire a mettere a fuoco, ma c'era troppa luce.
La stanza sembrava essere immersa in un lago di sole, e due figure scure se ne stavano sedute, una di fronte all'altra, in controluce.
La prima era sull'orlo di una vecchia cattedra, l'altra su una delle panche che un tempo erano installate nel cortile interno, e che anni prima erano state sostituite.
Quella in cui le due figure si erano incontrate era un'aula in disuso, ribattezzata come magazzino da insegnanti e studenti.

«Va bene. Quando possiamo rivederci per nuovi sviluppi?» chiese la voce più acuta, e la figura a cui apparteneva fece per alzarsi, voltandosi e lasciando che il suo volto scomparisse definitivamente nel buio.

«Sai benissimo che ci rivedremo prima del prossimo mese» l'altro individuo si scostò dalla cattedra, avvicinandosi alla panca.
Ora la sua schiena era visibile, la sua uniforme candida lucente sotto i raggi provenienti dalla finestra.
Ma rimase di spalle, senza voltarsi nemmeno una volta, continuando a celare i suoi lineamenti dietro alla chioma bionda.
Risero entrambi, scoppiando in una risata cristallina, complice.

«Kalendae, allora» disse uno.

«Kalendae» rispose l'altro, in un tono basso, suadente e quasi ipnotico, mentre scandiva ogni lettera di quella parola latina quasi stesse recitando la formula magica che avrebbe avverato ogni suo desiderio possibile.

Emeline si staccò dalla porta.

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