Capitolo III- Quid Vis?

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Freddi raggi di sole si posavano sulle gradinate del cortile esterno, lasciando che le pietre dei due portici schiarissero il loro grigio umido e austero.
Il prato era affollato, chiacchierante: gruppi del primo anno, seduti a osservare meravigliati l'architettura delle torrette del terzo piano, si mischiavano a studenti dal passo frenetico che correvano svolazzando fogli, in una nube di stoffa chiara e vortici di vento ghiacciato.
I due pini silvestri ai lati dell'entrata muovevano le loro fronde come fossero ventagli di piume.
S'intravedevano sullo sfondo del cortile, con un fare cullante, identici e cupi; qualcuno si era seduto sotto i loro tronchi, dopo aver carezzato la corteccia di uno dei due.
C'era una strana credenza tra gli allievi della Vass, per cui si potesse riposare sotto quei due vecchi pini solo se si donava loro un'offerta, quasi fossero un santuario divino.
Nessuno sapeva da dove derivasse questo rituale -probabilmente creato dagli studenti del corso di lettere antiche-, ma ormai era una regola non scritta: quando ci si voleva sdraiare nel prato sottostante agli alberi, li si doveva ringraziare.
Una carezza o un saluto erano necessari.

Al ragazzo seduto sotto i pini se ne aggiunse un altro, più alto e lento nei movimenti, quasi dovesse ispezionare ogni filo d'erba prima di schiacciarlo con la suola delle scarpe.
Si dissero qualcosa, qualche placido scambio di battuta, poi il nuovo arrivato si sedette a mezzo metro dall'altro; un braccio dietro la testa, le gambe leggermente accavallate, e prese a leggere un libro dalla spina rotta.

Emeline li rimase a guardare per diverso tempo, osservando lo strano quadro che componevano: respiri che si notavano appena da sotto i corpetti, ciocche brune e danzanti nel vento; labbra mosse in sibili, parole che non erano altro se non polvere a quella distanza.

Quando una goccia le colpì la guancia, seguendo la via delle lacrime, Emeline alzò il volto.
Densi banchi di nebbia si stavano accumulando sopra al cortile, come grandi matasse di pulviscolo, e i campi all'orizzonte divennero un'ombra inesistente, celata dalla foschia, come sagome di un tetro panorama vacuo.
I mattoni dei portici tornarono al loro originale grigio ammuffito, e tutto divenne più offuscato e cupo e tremendamente desolato: ciò che il maltempo faceva alla Scozia.

Emeline si voltò, la camicia di pizzo costellata di gocce, osservando i due pini: sotto di loro due ragazzi si alzarono, ma non recuperarono le loro cose.
E invece di andarsene, di ripararsi, si stesero sull'erba in balia della pioggia.

«MacFlanaghan, Carme novantadue.»

«Lesbia... Lesbia mi dicit semper male nec tacet umquam
de me: Lesbia me dispeream nisi amat.
Quo signo? Quae... Quia sunt totidem mea: deprecor illam
assidue, verum dispeream nisi amo.»

«Barrach, traduci.»

«Lesbia parla sempre male di me, e neppure smette di parlar
di me: mi venga un colpo se... se Lesbia non mi ama.
Come lo so? Perché sono simile lei: la ricopro ogni giorno
d'insulti, ma mi venga un colpo se non l'amo.»

«Bene. Chalmers, Carme sessanta.»

Num te te leaena montibus Libystinis
Aut Scylla latrans infima inquinum parte
Tam mente dura procreavi tac taetra
Ut supplicis vocem in novissimo casu
Contemptam haberes a nimis fero corde?>

«Camshron, traduci.»

«Mi chiedo se una leonessa dei monti di Libia
Oppure Scilla, che latrisce nella parte più bassa del suo inguine
Ti abbiamo generato talmente ferrea e truce
Che la voce di chi ti prega, in clamorosa infelicità
La snobbi, oh cuore crudele?»

«Barclay, Carme centonove.»

Emeline inspirò.
Le labbra stese in una linea rigida, lo sguardo sofferente.
Le ore di latino erano ciò di più irritante che la sua mente potesse concepire: il declinare, lo sbagliare costantemente i casi dei nomi, il fraintendere le costruzioni dei periodi a tal punto da modificare completamente il significato di un verso.
Ricordava ancora quando, il primo anno, traducendo una versione di Petronio aveva completamente deragliato il senso di pezzo. Così un innocuo dialogo sull'eviscerare un maiale si era trasformato in una frase ai limiti del senso compiuto.

L'aula era quasi piena.
Ognuno stava con il proprio libro chiuso davanti alle mani, a battere i tacchi delle scarpe sul pavimento e a sussurrare flebili frasi in latino, come una grande setta studentesca intenta in uno strano rituale esoterico.

Emeline si schiarì la gola.
«Iucundum, mihi... mea vita, mihi proponis amorem
hunc nostrum inter nos per...perpetuumque fore.» Prese un respiro, concedendosi una pausa gelida e costosissima.
Paia di occhi le si erano fissati addosso come foglie marce fuse al terriccio, osservandola distrattamente, annoiati e infastiditi dal suo incespicare nelle "umque".

«Di magni, facite ut vere promittere possit,
atque id sincere dicat... dicat et ex animo»continuò, e la sua voce venne sovrastata dall'incessante tintinnare violento della pioggia contro le vetrate.
«ut liceat nobis tota perducere vita
aeternum hoc sanctae foedus amicitiae

Harriet Buchanan la guardò, seria e perplessa come sempre: insegnava latino da pochi anni, ma sembrava esserne già esausta.
Per lei c'erano solo due cose che valeva la pena di trasmettere ai suoi alunni, ed erano, in quest'ordine di importanza, la grammatica e la scorrevolezza nella lettura.
Emeline rimpiangeva la loro precedente insegnante, un'appassionata di Terenzio che ripeteva sempre ai suoi alunni quanto l'humanitas fosse un balsamo necessario per lo spirito e recitava in classe poesie di Catullo, anche se non erano ancora previste nel programma.

Harriet lanciò una seconda e breve occhiata a Emeline, mentre lei si sistemava sul posto.
Non c'era niente da aggiungere a voce, in quel teatro bisbigliante: tutti continuavano a ripetere le loro frasi sibilate, rassicurati che sarebbero state più fluenti delle sue.

Odiava il latino.
Odiava quelle lezioni e il modo in cui era perfettamente consapevole di non essere all'altezza degli altri che frequentavano il corso.
Tre ore alla settimana erano obbligatorie per gli studenti di biologia, ma tutti, almeno prima di entrare alla Vass, avevano studiato la lingua; e lei, non avendone mai avuto veramente l'opportunità, si trovava allora a ripetere ancora a mente i pronomi dimostrativi per individuarne il caso giusto, e rimaneva stupefatta, le labbra a morsicarsi invidiose, quando qualcuno traduceva di getto senza dover ragionare su cose che a lei rubavano decine e decine di minuti.

La Buchanan si mosse verso una delle file in mezzo, inclinando il collo magro verso sinistra. «Traducetela anche, per cortesia.»

Emeline irrigidì il volto in un mezzo segno affermativo, deglutendo.
Ti prego, implorò, senza che quella preghiera fosse indirizzata a un mittente specifico se non la Fortuna, o forse quel maledetto poeta che la stava facendo sudare freddo coi suoi versi.

Ti prego, non farmi sbagliare l'ultimo pezzo.
E prese a recitare.
«Soave, vita mia, prometti che questo nostro amore,
tra...fra di noi, sarà luminoso e perenne...
O grandi Dei» esclamò, esasperata in quella invocazione.
«Fate che mi possa promettere il vero
e che parli sinceramente e dall'animo,
così che sia possibile per noi condurre tutta la vita... tutta la vita questo...» Si fermò.
«Questo patto infinito di sacra amicizia» soffiò infine, sfinita, riprendendo fiato.

Maledetti quei versi e maledetto Catullo; maledetta Lesbia e quella dannata sacra amicizia.

La Buchanan allora andò avanti, poco soddisfatta e decisa a dimenticare quell'ultima traduzione.
Girovagando tra le file disse:
«Deerwood, Carme quaranta.»

Un ragazzo delle sedute centrali si passò una mano tra i capelli.
«Certo» acconsentì in un mormorio, ed Emeline si voltò al suono della sua voce.

«Quaenam te mala mens, miselle Ravide,
agit praecipitem in meos iambos?» chiese lui, alzando di poco il mento.

«Quis deus tibi non bene
advocatus vecordem parat excitare rixam?
An ut pervenias in ora vulgi?» continuò, raschiando quelle domande con una rabbia fiera e teatrale, spaventosamente simile a quella che ci si sarebbe aspettati da un'orazione pronunciata nel foro, completamente diversa dalla monotonia utilizzata dagli studenti prima di lui.

«Quid vis? Qualubet esse notus optas?»
Il rombare di un tuono schiantatosi vicino al cortile si miscelò col suo parlare, senza adombrarlo: lui continuava a recitare, tranquillo nella sua posa disinteressata, con un'aspra voce che sembrava non appartenergli.

«Eris, quandoquidem meos amores
cum longa voluisti amare poena.»
Le parole si spensero lentamente, le ultime gocce di una candela finita, e come cera rimasero calde per altri pochi secondi a seguire.

Davanti alla sua posa d'attesa, la Buchanan esclamò solo: «Traducetela pure.»Concedendogli qualcosa che sembrava lui avesse già messo in conto.
Così tornò a parlare.

«Quale istinto malevolo, misero Ràvido,
ti scaglia in mezzo ai miei versi?» domandò, e tutta la fierezza con cui il latino tendeva la sua voce sembrò essere scomparsa, quasi che col cambio di lingua quell'attitudine non fosse necessaria.

«Quale dio invocato malamente
ti incalza a questa insensata lotta?
Per correre sulla bocca di tutti?»
Parlava con più calma. Più dolcezza, quasi.
In scozzese sembrava stesse recitando una poesia d'amore, invece che un furioso carme.

«Cosa vuoi? Ad ogni costo vuoi essere noto
lo sarai, dal momento che hai deciso di amare
chi amo, rischiando l'eterna espiazione.»
Diede qualche colpo di tosse, rischiando quasi di rovinare il finale della poesia.
Ma nessuno ci fece realmente caso.

«Ottimo» Harrier non sembrò rimanere troppo sorpresa da quella prova di retorica.
Ma gli altri: avvolti in un denso silenzio febbrile, stavano rigidi nelle loro postazioni, puntando lo sguardo sulla figura immobile di Deerwood, ammirati e sorpresi.

Anche Emeline lo osservava, e anzi nemmeno riusciva a guardare altrove, come faceva al solito quando i suoi interventi non erano brillanti: la finestra sembrava non avere più il fascino dissociante che la cullava quando voleva estraniarsi da quell'aula.
In quel momento tutto ruotava intorno alle file centrali, dove un ragazzo dalla giacca bagnata di pioggia e i capelli gocciolanti le aveva ricordato quanto lei non potesse competere.
Come aveva recitato, senza nemmeno l'ombra di un'incertezza, un carme che tutti conoscevano davvero bene solo in inglese?
Doveva di certo far parte di quella categoria di studenti che studiavano addirittura gli argomenti non ancora affrontati, si convinse Emeline, osservando le sue spalle leggermente curve e tremanti.
Sbuffò, riconoscendolo: talmente intelligente che si era buttato sotto la pioggia.

Non riuscì a vederlo in faccia, per tutta la lezione.
E quando sembrò girarsi per poi smentirsi all'ultimo, sperò quasi che non lo facesse: no, forse da un lato preferiva che rimanesse così, col volto celato, senza che lei dovesse dargli un viso e accettare del tutto la sua esistenza.
Tradusse altri due carmi, offrendosi per "avere più tempo per iniziare il De Brevitate Vitae", come esclamò, suadente, col suo tono rotto da qualche smorzato colpo di tosse.

Credette di odiarlo. Emeline alzò lo sguardo, e credette, anzi fu convinta di detestarlo. Rimandava da giorni la possibilità di iniziare Seneca, il solo pensiero le dava una fitta nausea.
E adesso quella richiesta arrogante e insensata, soprattutto egoista: pensò addirittura di saltare le lezioni della settimana.

La Buchanan non si era opposta, e a mezz'ora dalla fine della lezione aveva iniziato a elencare i mali esempi di negotia.
E Deerwood (quello era il suo nome? Davvero superbo come un cervo, riflettè Emeline) continuò a intervenire, a parlare e a tremare di freddo.

Due ragazzi gli si avvicinarono.
«rimani in aula magna?»chiesero, ma lui scosse la testa, accennando a un mezzo sorriso.
«Ite, missa est» disse, tra le risate.

Appena terminata la lezione si alzò, e fu il primo ad uscire: svelto, febbrile, quasi fosse in ritardo per qualcosa, ed Emeline collegò il tutto, trovando finalmente il coefficiente stechiometrico esatto a bilanciare quella confusionaria reazione.

Lo guardò uscire: Kalendae, pensò solo.

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